Stanotte è una di quelle notti nelle quali faccio sogni belli.
Di quelli che secondo me Gardaland sarà aperto solo per me.
Non lo so perché ci abbiano ingannato quest’anno, ci hanno restituito le mezze stagioni e ci hanno piazzato la primavera il 24 dicembre.
L’hai chiesta tu?
Era da neve, questo Natale, accipicchia.
Prometteva bene anche a Milano.
Era da neve, da banalissime serate a due con un film di Barbra Streisand e possibilmente le tue gambe intorno a me.
Indosso un pigiama orrendo da vecchio in ospizio che Men’s Healt dovrebbe farci una copertina “Eccitala in centoquarant’anni”.
Stanotte a Gardaland cercherò la giostra che gira in centoquarant’anni.
La musica sotto sarà “Yellow submarine” e io da sopra ti spiegherò perché ne ho lasciati passare centotrentanove prima di chiederti di salirci con me, solo che essendo io sulla giostra e tu giù, sentirai solo una parola ogni giro, una parola ogni centotrentanove e mettendo insieme solo quelle la frase non avrà mai senso.
I bambini fuori dai cancelli mi tireranno le loro macchinine per protestare contro il mio dispotismo e io le tirerò loro indietro pensando che sia un nuovo gioco.
Io, sciocco.
Tu riderai di me, mi dirai che solo Rocco riporta indietro ciò che gli si tira, ma solo se gli si promette di non lasciarlo mai.
Le cassiere mi faranno l’occhiolino a ogni giro, io guarderò dall’alto tutte le scollature, non capirò di nuovo più niente e una volta sceso non ti troverò di nuovo più.
Sarai quella di spalle che se ne andrà accanto a quello di spalle che se ne andrà.
Quello di spalle si girerà e avrà la faccia di mio padre che girandosi mi dirà “Non ti ho insegnato niente”.
“E meno male” gli dirò col mio solito tono ironico.
Ma sarete troppo lontani per sentirmi, là, in fondo verso il cancello di uscita che di fronte a te si aprirà come per magia facendo in modo che un mare di bambini entrando confondano la tua uscita.
Tra quei bambini ci sarò anch’io, mi verrò incontro e mi dirò “Scemino, ma non l’hai vista quant’è bella?”
“Certo che l’ho vista!” mi risponderò “e tu?”
“No, tu!”
“No, tu!”
“Tu!”
“tu!”
Quanti anni hai, tu?
Io, nei miei sogni, centotrentotto.
Quando nella realtà supererò i sei ti sposerò e faremo tanti bambini e insegneremo loro a tirare le macchinine.
A riportarcele ci penserà Rocco.
Buon Natale a te.
Tuo, Scrooge.
24 dicembre 2005
21 dicembre 2005
20 dicembre 2005
Mirafiori
Io mi ricordo la colonia Fiat.
Sono uno di quelli che è cresciuto nella Torino degli anni 70, quando ancora Moncalieri era periferia e da Mirafiori partivano treni e treni di macchine che passavano sotto casa come fossero tram, su quelle rotaie messe in mezzo alle vie senza alcuna protezione.
Quando si sentiva il rumore del treno si usciva sul balcone per guardarlo passare, lì in mezzo, come fosse un tram, pieno di macchine spedite chissà dove, affascinati da quel coso così normale per chi viveva lì che solo a pensarlo oggi ci si chiede come mai non ci fossero comitati in difesa della sicurezza stradale dell’incolumità dei cittadini, messi a rischio da quel treno le cui rotaie non avevano lo straccio di una recinzione, un cazzo di passaggio a livello, nulla che facesse pensare che in mezzo a quella via non ci passava il 26 sbarrato ma un treno vero e proprio che dalla fabbrica partiva per portare le macchine al Lingotto e poi da lì via verso le altre regioni.
Io sono un figlio della Fiat.
La mia famiglia è cresciuta e si è sviluppata grazie alla Fiat.
Mia nonna è arrivata al nord dalla Calabria per lavorare alla Fiat e tutte le generazioni dopo di lei, della nostra famiglia, intorno alla Fiat sono cresciute.
La Fiat ha costruito i palazzi per i suoi operai, tutti uguali, tutti rossi, tutti intorno a quella ferrovia e in quella via che ancora oggi fatta a piedi porta allo stabilimento che chi non l’ha mai visto dovrebbe farci un giro, tanto è di un altro pianeta.
Ti metti davanti all’ingresso e poi cominci a percorre il suo perimetro.
Se lo fai a piedi ci metti due giorni.
È un paese.
Era un paese.
Chi lavorava alla Fiat era uno che ce l’aveva fatta e poteva comprare la macchina Fiat e avere sempre la macchina nuova perché la compravi e poi la usavi e poi dopo poco una formula finanziaria ti consentiva di cambiarla e prenderne un’altra e mio zio aveva sempre la macchina nuova perché la cambiava ogni sei mesi e la pagava sempre la stessa cifra a scalare.
La Fiat considerava i suoi dipendenti persone.
In casa mia si aspettava il Natale perché a Natale la Fiat faceva i regali ai figli dei suoi operai.
Ogni anno arrivava il momento dei “Regali Fiat”.
Si andava lì, si faceva la fila ed era un camion, la pista, i uolchi tolchi.
Natale, per i figli degli operai della Fiat era sempre un Natale con i regali, anche se gli operai non se li potevano permettere.
Ci pensava la Fiat.
Io me la ricordo la colonia Fiat.
Molto fascista nella sua impostazione, ma era la colonia Fiat e quando si è bambini non lo sai cosa è il fascismo, vedi solo che qualcuno ti porta in vacanza ad Albenga in estate e a Salice d’Ulzio d’inverno.
Io d’inverno non ci sono andato, ci è andato mio fratello, non lo so perché ma io andavo d’estate ad Alberga.
Me la ricordo la colonia Fiat perché la mia famiglia non se la poteva permettere una vacanza in quel momento e allora ci pensava la Fiat e mi portava ad Albenga e credo che mia mamma dava dei soldi alla mia partenza perché mi ricordo che ogni volta appena arrivati c’era il giro in paese per comprare i giochi da usare per tutta la vacanza e una volta era l’aquilone, un’altra erano stati i braccioli, una volta mi ricordo che erano stati i soldatini.
Era la colonia Fiat, la vacanza che tutti i bambini si potevano permettere.
Molto militare, la sua impostazione.
Fascista.
Grandi camerate, tanti letti e orari ferrei.
Gesti quotidiani scanditi da riti di gruppo fatti al passo.
Oggi qualcuno la discuterebbe quell’impostazione, io penso che tanti bambini tutti insieme li puoi governare solo se li consideri un esercito e come tale lo tratti.
Era facile, in fondo, andare al passo verso la spiaggia, per un bambino che senza la colonia Fiat nemmeno ci sarebbe andato, al mare.
Bastava dirgli che di fronte a lui c’era il mare.
Anche se piccolo, ti rendevi conto che in qualche modo dovevi essere grato per quello che ti veniva offerto e la gratitudine la dimostravi attraverso l’obbedienza, unico strumento in mano ai bambini.
La Fiat era questo.
Una gigantesca famiglia che faceva giocare i figli mentre i genitori costruivano le macchine.
Ti dava la casa, ti dava la macchina, ti portava i bambini al mare.
Tu in cambio dovevi costruire macchine.
Io me la ricordo la colonia Fiat perché è stata la prima vacanza che ricordo.
E in fondo sarò sempre grato alla Fiat perché lo so che senza di lei non sarei andato a giocare sulla sabbia ma sarei stato a casa ad aspettare che si potesse andare in calabria dai parenti.
C’era la merenda, il panino con la barretta di cioccolata e il sonnellino pomeridiano.
Poi di nuovo tutti insieme, l’appello in cortile, l’adunata, la colonia Fiat.
Il tavolo su cui erano appoggiati tutti i regali di natale Fiat me lo ricordo ancora.
Lo si aspettava, quel tavolo, noi figli della Fiat.
Mia nonna oggi abita nella casa che si è comprata con lo stipendio della Fiat pagandola alla stessa Fiat e oggi ha finito di pagarla e vale dieci volte tanto perché la Fiat non voleva speculare, ma solo mantenere e allora costruiva le case per i suoi operai e gli diceva che se volevano comprarsela lo potevano fare che tanto costava poco perché loro erano operai Fiat e per questo erano privilegiati, perché una volta gli operai Fiat erano privilegiati e i loro figli anche di più.
Io alla Fiat devo tanto, perché sono uno di quelli che con la Fiat sono andati in vacanza, hanno avuto i regali di Natale, hanno vissuto nelle case costruite per noi, hanno visto i treni passare quando le macchine erano solo le macchine Fiat in tutta Italia.
Io alla Fiat devo tanto perché l’impostazione fascista della sua idea di operai mi ha consentito di sentirmi uguale a tutti gli altri bambini che come me andavano alla colonia Fiat e facevano un mese di mare ad Albenga ed erano felici anche se dovevano andarci marciando.
Forse quel tempo è passato, forse oggi l’idea che i figli dei tuoi operai sono come i tuoi figli non esiste più.
Forse oggi chi è operaio Fiat si sente derubato e i suoi figli non vanno più alla colonia Fiat a spese della Fiat e non hanno più i regali di natale della Fiat e allora io lo capisco perché oggi gli operai considerano la Fiat come il nemico, perché non si occupa più dei loro figli e allora tutti oggi si chiedono perché mai dovrebbero regalare la loro vita alla Fiat se la Fiat alla loro vita non regala più niente.
E ci penso, oggi, mentre tutti i nuovi avvocato Agnelli, invece che fare i regali Fiat ai figli dei loro dipendenti, gli rubano i soldi dal conto e vanno nel carcere perchè rubano i soldi dei poveri.
Io quando passo davanti alla Fiat, ancora oggi, mi ricordo di Albenga, delle adunate, dei treni che passavano sotto casa, dei giocattoli comprati il primo giorno di vacanza, dei regali di natale tutti uguali per i maschietti e tutti uguali per le femminucce.
Io alla Fiat, e in lei all’avvocato quando c’era, perché era lui il padre di tutto, devo tanto.
Devo quasi tutta la mia infanzia.
E se serve per sdebitarmi verso la famiglia Agnelli, ora che il nipote è in grave difficoltà, se può aiutare in qualche modo, ora che Martina Stella ha abbandonato Lapo, se vuole, per vendicarlo, mi offro per trombargliela.
Sono uno di quelli che è cresciuto nella Torino degli anni 70, quando ancora Moncalieri era periferia e da Mirafiori partivano treni e treni di macchine che passavano sotto casa come fossero tram, su quelle rotaie messe in mezzo alle vie senza alcuna protezione.
Quando si sentiva il rumore del treno si usciva sul balcone per guardarlo passare, lì in mezzo, come fosse un tram, pieno di macchine spedite chissà dove, affascinati da quel coso così normale per chi viveva lì che solo a pensarlo oggi ci si chiede come mai non ci fossero comitati in difesa della sicurezza stradale dell’incolumità dei cittadini, messi a rischio da quel treno le cui rotaie non avevano lo straccio di una recinzione, un cazzo di passaggio a livello, nulla che facesse pensare che in mezzo a quella via non ci passava il 26 sbarrato ma un treno vero e proprio che dalla fabbrica partiva per portare le macchine al Lingotto e poi da lì via verso le altre regioni.
Io sono un figlio della Fiat.
La mia famiglia è cresciuta e si è sviluppata grazie alla Fiat.
Mia nonna è arrivata al nord dalla Calabria per lavorare alla Fiat e tutte le generazioni dopo di lei, della nostra famiglia, intorno alla Fiat sono cresciute.
La Fiat ha costruito i palazzi per i suoi operai, tutti uguali, tutti rossi, tutti intorno a quella ferrovia e in quella via che ancora oggi fatta a piedi porta allo stabilimento che chi non l’ha mai visto dovrebbe farci un giro, tanto è di un altro pianeta.
Ti metti davanti all’ingresso e poi cominci a percorre il suo perimetro.
Se lo fai a piedi ci metti due giorni.
È un paese.
Era un paese.
Chi lavorava alla Fiat era uno che ce l’aveva fatta e poteva comprare la macchina Fiat e avere sempre la macchina nuova perché la compravi e poi la usavi e poi dopo poco una formula finanziaria ti consentiva di cambiarla e prenderne un’altra e mio zio aveva sempre la macchina nuova perché la cambiava ogni sei mesi e la pagava sempre la stessa cifra a scalare.
La Fiat considerava i suoi dipendenti persone.
In casa mia si aspettava il Natale perché a Natale la Fiat faceva i regali ai figli dei suoi operai.
Ogni anno arrivava il momento dei “Regali Fiat”.
Si andava lì, si faceva la fila ed era un camion, la pista, i uolchi tolchi.
Natale, per i figli degli operai della Fiat era sempre un Natale con i regali, anche se gli operai non se li potevano permettere.
Ci pensava la Fiat.
Io me la ricordo la colonia Fiat.
Molto fascista nella sua impostazione, ma era la colonia Fiat e quando si è bambini non lo sai cosa è il fascismo, vedi solo che qualcuno ti porta in vacanza ad Albenga in estate e a Salice d’Ulzio d’inverno.
Io d’inverno non ci sono andato, ci è andato mio fratello, non lo so perché ma io andavo d’estate ad Alberga.
Me la ricordo la colonia Fiat perché la mia famiglia non se la poteva permettere una vacanza in quel momento e allora ci pensava la Fiat e mi portava ad Albenga e credo che mia mamma dava dei soldi alla mia partenza perché mi ricordo che ogni volta appena arrivati c’era il giro in paese per comprare i giochi da usare per tutta la vacanza e una volta era l’aquilone, un’altra erano stati i braccioli, una volta mi ricordo che erano stati i soldatini.
Era la colonia Fiat, la vacanza che tutti i bambini si potevano permettere.
Molto militare, la sua impostazione.
Fascista.
Grandi camerate, tanti letti e orari ferrei.
Gesti quotidiani scanditi da riti di gruppo fatti al passo.
Oggi qualcuno la discuterebbe quell’impostazione, io penso che tanti bambini tutti insieme li puoi governare solo se li consideri un esercito e come tale lo tratti.
Era facile, in fondo, andare al passo verso la spiaggia, per un bambino che senza la colonia Fiat nemmeno ci sarebbe andato, al mare.
Bastava dirgli che di fronte a lui c’era il mare.
Anche se piccolo, ti rendevi conto che in qualche modo dovevi essere grato per quello che ti veniva offerto e la gratitudine la dimostravi attraverso l’obbedienza, unico strumento in mano ai bambini.
La Fiat era questo.
Una gigantesca famiglia che faceva giocare i figli mentre i genitori costruivano le macchine.
Ti dava la casa, ti dava la macchina, ti portava i bambini al mare.
Tu in cambio dovevi costruire macchine.
Io me la ricordo la colonia Fiat perché è stata la prima vacanza che ricordo.
E in fondo sarò sempre grato alla Fiat perché lo so che senza di lei non sarei andato a giocare sulla sabbia ma sarei stato a casa ad aspettare che si potesse andare in calabria dai parenti.
C’era la merenda, il panino con la barretta di cioccolata e il sonnellino pomeridiano.
Poi di nuovo tutti insieme, l’appello in cortile, l’adunata, la colonia Fiat.
Il tavolo su cui erano appoggiati tutti i regali di natale Fiat me lo ricordo ancora.
Lo si aspettava, quel tavolo, noi figli della Fiat.
Mia nonna oggi abita nella casa che si è comprata con lo stipendio della Fiat pagandola alla stessa Fiat e oggi ha finito di pagarla e vale dieci volte tanto perché la Fiat non voleva speculare, ma solo mantenere e allora costruiva le case per i suoi operai e gli diceva che se volevano comprarsela lo potevano fare che tanto costava poco perché loro erano operai Fiat e per questo erano privilegiati, perché una volta gli operai Fiat erano privilegiati e i loro figli anche di più.
Io alla Fiat devo tanto, perché sono uno di quelli che con la Fiat sono andati in vacanza, hanno avuto i regali di Natale, hanno vissuto nelle case costruite per noi, hanno visto i treni passare quando le macchine erano solo le macchine Fiat in tutta Italia.
Io alla Fiat devo tanto perché l’impostazione fascista della sua idea di operai mi ha consentito di sentirmi uguale a tutti gli altri bambini che come me andavano alla colonia Fiat e facevano un mese di mare ad Albenga ed erano felici anche se dovevano andarci marciando.
Forse quel tempo è passato, forse oggi l’idea che i figli dei tuoi operai sono come i tuoi figli non esiste più.
Forse oggi chi è operaio Fiat si sente derubato e i suoi figli non vanno più alla colonia Fiat a spese della Fiat e non hanno più i regali di natale della Fiat e allora io lo capisco perché oggi gli operai considerano la Fiat come il nemico, perché non si occupa più dei loro figli e allora tutti oggi si chiedono perché mai dovrebbero regalare la loro vita alla Fiat se la Fiat alla loro vita non regala più niente.
E ci penso, oggi, mentre tutti i nuovi avvocato Agnelli, invece che fare i regali Fiat ai figli dei loro dipendenti, gli rubano i soldi dal conto e vanno nel carcere perchè rubano i soldi dei poveri.
Io quando passo davanti alla Fiat, ancora oggi, mi ricordo di Albenga, delle adunate, dei treni che passavano sotto casa, dei giocattoli comprati il primo giorno di vacanza, dei regali di natale tutti uguali per i maschietti e tutti uguali per le femminucce.
Io alla Fiat, e in lei all’avvocato quando c’era, perché era lui il padre di tutto, devo tanto.
Devo quasi tutta la mia infanzia.
E se serve per sdebitarmi verso la famiglia Agnelli, ora che il nipote è in grave difficoltà, se può aiutare in qualche modo, ora che Martina Stella ha abbandonato Lapo, se vuole, per vendicarlo, mi offro per trombargliela.
15 novembre 2005
Chiuso per serie
Stanotte, per dire, ho sognato che con gli amici si andava a Gardaland, ma trovavamo chiuso.
Solo una stanza aperta, nella quale c'era un'esposizione storica di pianoforti e organi dal primo prodtto fino ai più moderni.
No, così, per dire, che uno va a Gardaland in sogno e trova chiuso.
Solo una stanza aperta, nella quale c'era un'esposizione storica di pianoforti e organi dal primo prodtto fino ai più moderni.
No, così, per dire, che uno va a Gardaland in sogno e trova chiuso.
15 ottobre 2005
Paterno
"Ma mi devo confessare ogni volta che faccio la comunione?
Perché io i peccati li commetto, ma mi sembrano sempre gli stessi”
“Non è necessario confessarsi prima di ogni comunione eucaristica.
È necessario solo se hai commesso un peccato DAVVERO GRAVE che ha OFFESO il signore.
Allora in quel caso devi confessarlo perché l’amicizia con Gesù è DISTRUTTA e bisogna ricominciare DA CAPO.”
Dialogo tra Benedetto XVI e una bambina di 10 anni.
Perché io i peccati li commetto, ma mi sembrano sempre gli stessi”
“Non è necessario confessarsi prima di ogni comunione eucaristica.
È necessario solo se hai commesso un peccato DAVVERO GRAVE che ha OFFESO il signore.
Allora in quel caso devi confessarlo perché l’amicizia con Gesù è DISTRUTTA e bisogna ricominciare DA CAPO.”
Dialogo tra Benedetto XVI e una bambina di 10 anni.
14 ottobre 2005
the sound of silence
Era almeno un’ora che attendeva l’uscita.
Ma quella sera la sognava da così tanto tempo che ne avrebbe aspettate anche altre dieci.
C’era un silenzio in sala che si tagliava col coltello e nel buio si poteva intravedere quell’unica spettatrice seduta proprio in prima fila su una poltroncina di velluto rosso sulla quale lui aveva fatto mettere un foglio recante il suo nome.
Voleva che lei lo vedesse bene.
Nessun altro in sala, la maschera era sempre la stessa, quella addestrata bene richiamata per l’occasione e al tecnico luci, sempre lo stesso richiamato per l’occasione, lui aveva chiesto di alzare leggermente la prima fila per controllare che lei ci fosse prima di entrare in scena.
Le voleva regalare il suo concerto e voleva che lei lo vedesse bene.
La vecchia maschera accettò di tornare per una volta in quel vecchio teatro solo perché era stato lui a chiederglielo.
Il cappello rosso e la punzonatrice li prendeva soltanto per gli spettacoli speciali.
Uscì da dietro la quinta, testa alta, come un militare fiero dei suoi gradi, sguardo fisso di fronte tradito soltanto da un impercettibile occhiata verso quella poltroncina che il suo cuore gli impedì di trattenere.
Lei la colse e annuì.
L’aveva immaginato così, quel momento, con la chitarra Gran Concierto sul piedistallo ad attenderlo a centro palco, lo sgabello quello con la manopola che aveva sempre visto nei film, il poggiapiede dorato e il tight comprato per l’occasione con la stessa emozione con la quale le donne si comprano l’abito da sposa.
La manopola era stata già regolata giusta, ma una controllata gli avrebbe dato quel carattere di precisione che ogni momento solenne richiede.
Un colpo alle code del tight per non sedercisi sopra, come aveva sempre sognato di fare e lo sguardo sul legno della chitarra per salutarlo.
Lei sentiva il suo cuore battere.
Non poteva sentirlo, ma lo sentiva.
Non poteva, ma lo sentiva.
Tum tum… tum tum… tum tum... tum tum...
Era l’unica cosa che sentiva, in quel silenzio.
Senza attendere oltre lui appoggia la mano sulle corde e inizia il suo concerto con un adagio, occhi chiusi, ondeggiando col corpo per seguire quei fraseggi che nella sua mente aveva preparato tutti quegli anni così, come li stava raccontando in quel momento, con quel piccolo momento di emozione che è da sempre l’inizio di ogni cosa importante.
Lei dentro sentiva che stava assistendo a quello che aveva sognato di sentire da sempre, così, proprio in quel modo.
Lui intanto proseguiva il suo concerto sempre più intenso, sempre più sentito, con il viso che si avvicinava e si allontanava dal legno per percepirne le vibrazioni, come fanno i chitarristi per sentire meglio il suono uscire dalla cassa e il corpo che raccontava ogni sensazione, ogni accento, ogni cambio di tempo, con la schiena che sottolineava le terzine in una danza con quello strumento che ricambiava riflettendo sul suo legno lucido ogni sfumatura di quel viso che così tanto vicino a quelle sensazioni non ci era mai arrivato.
Lei si stringeva le mani per sentirne tutta la forza che le si muoveva dentro, mentre la sua schiena seguiva il ritmo di quelle terzine con il sincronismo di chi conosce a memoria le stesse note, gli stessi accenti, la stessa forza che su quel palco le si stava offrendo mentre in fondo alla sala la maschera, non capendo perchè quell'uomo facesse finta di suonare, finiva di togliere le carte lasciate per terra dal pubblico appena uscito dopo l’ultimo spettacolo finito pochi minuti prima, cercando di fare meno rumore possibile per non disturbare il silenzio assoluto di quei due corpi che ballavano gli stessi movimenti come si conoscessero da anni, guardando da lontano e regalando loro il suo silenzioso sorriso, lo stesso che lo accompagnava ogni volta che vedeva la perfezione della musica, quando la sentiva.
Tum tum tum tum tum tum tum
Questo lo sentiva anche lui.
Era arrivato quasi al termine del suo concerto, i capelli ormai lontani dalla sagoma perfetta con la quale si erano presentati raccontavano tutti i salti, tutti i colpi, tutto il ritmo che quella testa aveva tenuto per l’intera durata del loro momento, mentre gli occhi di lei fissi su quell’uomo, senza mai chiudersi o distrarsi, le assicuravano le migliaia di fotografie da portarsi a casa a fine spettacolo con le quali avrebbe continuato a ballare ogni volta che ne avesse sentito il bisogno.
Era felice, lui, in quell’ultimo brano, si vedeva, lo si percepiva, era energia, era amore per la musica allo stato puro quello che in quel silenzio assoluto stava riempiendo quel palco e un’impercettibile riflesso di luce sulla sua guancia, proprio accanto agli occhi, le raccontava che era per lei ed era energia e amore per la musica quello che stringeva lei tra le sue mani, inumidite dallo stesso improvviso riflesso caduto dal viso.
Il concerto finì come ogni concerto con il più grintoso e violento crescendo che passione musicale possa generare, con il corpo che vibrava, le spalle che colpivano, i piedi che sbattevano e in quel silenzio lei piangeva dall’emozione e le unghie quasi le si conficcavano nelle gambe tanta era la forza con la quale seguiva ogni spasmo ogni colpo ogni movimento di quell’uomo.
L’ultimo colpo, l’ultimo colpo sul legno, secco, duro, grato, in piedi.
Lei insieme, di colpo, insieme, in piedi, insieme a lui.
La maschera da fondo sala si accorse che quella strana silenziosa rappresentazione era finita perché la proiezione dell’ombra di quelle due sagome, alzatesi, aveva raggiunto la decima fila dove lui ormai era arrivato a raccogliere le carte a testa bassa e passo silenzioso.
Alzò lo sguardo e vide solo quelle due sagome.
Lui, in piedi, sguardo fiero fisso di fronte a lui, soddisfatto, emozionato.
Lei in piedi, saltando, con le braccia alzate con tale forza che sembrava si potessero staccare e quelle due mani, aperte, a muoversi come girandole, per prendere l’aria sopra di lei e lanciarla tutta su quel palco, per ringraziare quell’uomo restituendogli quei respiri che per tutto il concerto le aveva regalato.
Lui aveva sempre sognato di suonare la chitarra per una donna, ma aveva sempre raccolto solo sorrisi di commiserazione.
Lei aveva sempre sognato di sentirsi dedicare un concerto di chitarra, ma aveva sempre ricevuto soltanto dispiaciuti sguardi di compassione.
A cosa aveva assistito e che quella sera non l’avrebbe mai più dimenticata, la maschera lo capì quando vide l’uomo, prima di scomparire dietro la quinta, stringere entrambe le mani a pugno, incrociare le braccia sul suo petto all’altezza del cuore e concludere quel silenzioso “Tu” con le mani tese verso la donna.
Ma quella sera la sognava da così tanto tempo che ne avrebbe aspettate anche altre dieci.
C’era un silenzio in sala che si tagliava col coltello e nel buio si poteva intravedere quell’unica spettatrice seduta proprio in prima fila su una poltroncina di velluto rosso sulla quale lui aveva fatto mettere un foglio recante il suo nome.
Voleva che lei lo vedesse bene.
Nessun altro in sala, la maschera era sempre la stessa, quella addestrata bene richiamata per l’occasione e al tecnico luci, sempre lo stesso richiamato per l’occasione, lui aveva chiesto di alzare leggermente la prima fila per controllare che lei ci fosse prima di entrare in scena.
Le voleva regalare il suo concerto e voleva che lei lo vedesse bene.
La vecchia maschera accettò di tornare per una volta in quel vecchio teatro solo perché era stato lui a chiederglielo.
Il cappello rosso e la punzonatrice li prendeva soltanto per gli spettacoli speciali.
Uscì da dietro la quinta, testa alta, come un militare fiero dei suoi gradi, sguardo fisso di fronte tradito soltanto da un impercettibile occhiata verso quella poltroncina che il suo cuore gli impedì di trattenere.
Lei la colse e annuì.
L’aveva immaginato così, quel momento, con la chitarra Gran Concierto sul piedistallo ad attenderlo a centro palco, lo sgabello quello con la manopola che aveva sempre visto nei film, il poggiapiede dorato e il tight comprato per l’occasione con la stessa emozione con la quale le donne si comprano l’abito da sposa.
La manopola era stata già regolata giusta, ma una controllata gli avrebbe dato quel carattere di precisione che ogni momento solenne richiede.
Un colpo alle code del tight per non sedercisi sopra, come aveva sempre sognato di fare e lo sguardo sul legno della chitarra per salutarlo.
Lei sentiva il suo cuore battere.
Non poteva sentirlo, ma lo sentiva.
Non poteva, ma lo sentiva.
Tum tum… tum tum… tum tum... tum tum...
Era l’unica cosa che sentiva, in quel silenzio.
Senza attendere oltre lui appoggia la mano sulle corde e inizia il suo concerto con un adagio, occhi chiusi, ondeggiando col corpo per seguire quei fraseggi che nella sua mente aveva preparato tutti quegli anni così, come li stava raccontando in quel momento, con quel piccolo momento di emozione che è da sempre l’inizio di ogni cosa importante.
Lei dentro sentiva che stava assistendo a quello che aveva sognato di sentire da sempre, così, proprio in quel modo.
Lui intanto proseguiva il suo concerto sempre più intenso, sempre più sentito, con il viso che si avvicinava e si allontanava dal legno per percepirne le vibrazioni, come fanno i chitarristi per sentire meglio il suono uscire dalla cassa e il corpo che raccontava ogni sensazione, ogni accento, ogni cambio di tempo, con la schiena che sottolineava le terzine in una danza con quello strumento che ricambiava riflettendo sul suo legno lucido ogni sfumatura di quel viso che così tanto vicino a quelle sensazioni non ci era mai arrivato.
Lei si stringeva le mani per sentirne tutta la forza che le si muoveva dentro, mentre la sua schiena seguiva il ritmo di quelle terzine con il sincronismo di chi conosce a memoria le stesse note, gli stessi accenti, la stessa forza che su quel palco le si stava offrendo mentre in fondo alla sala la maschera, non capendo perchè quell'uomo facesse finta di suonare, finiva di togliere le carte lasciate per terra dal pubblico appena uscito dopo l’ultimo spettacolo finito pochi minuti prima, cercando di fare meno rumore possibile per non disturbare il silenzio assoluto di quei due corpi che ballavano gli stessi movimenti come si conoscessero da anni, guardando da lontano e regalando loro il suo silenzioso sorriso, lo stesso che lo accompagnava ogni volta che vedeva la perfezione della musica, quando la sentiva.
Tum tum tum tum tum tum tum
Questo lo sentiva anche lui.
Era arrivato quasi al termine del suo concerto, i capelli ormai lontani dalla sagoma perfetta con la quale si erano presentati raccontavano tutti i salti, tutti i colpi, tutto il ritmo che quella testa aveva tenuto per l’intera durata del loro momento, mentre gli occhi di lei fissi su quell’uomo, senza mai chiudersi o distrarsi, le assicuravano le migliaia di fotografie da portarsi a casa a fine spettacolo con le quali avrebbe continuato a ballare ogni volta che ne avesse sentito il bisogno.
Era felice, lui, in quell’ultimo brano, si vedeva, lo si percepiva, era energia, era amore per la musica allo stato puro quello che in quel silenzio assoluto stava riempiendo quel palco e un’impercettibile riflesso di luce sulla sua guancia, proprio accanto agli occhi, le raccontava che era per lei ed era energia e amore per la musica quello che stringeva lei tra le sue mani, inumidite dallo stesso improvviso riflesso caduto dal viso.
Il concerto finì come ogni concerto con il più grintoso e violento crescendo che passione musicale possa generare, con il corpo che vibrava, le spalle che colpivano, i piedi che sbattevano e in quel silenzio lei piangeva dall’emozione e le unghie quasi le si conficcavano nelle gambe tanta era la forza con la quale seguiva ogni spasmo ogni colpo ogni movimento di quell’uomo.
L’ultimo colpo, l’ultimo colpo sul legno, secco, duro, grato, in piedi.
Lei insieme, di colpo, insieme, in piedi, insieme a lui.
La maschera da fondo sala si accorse che quella strana silenziosa rappresentazione era finita perché la proiezione dell’ombra di quelle due sagome, alzatesi, aveva raggiunto la decima fila dove lui ormai era arrivato a raccogliere le carte a testa bassa e passo silenzioso.
Alzò lo sguardo e vide solo quelle due sagome.
Lui, in piedi, sguardo fiero fisso di fronte a lui, soddisfatto, emozionato.
Lei in piedi, saltando, con le braccia alzate con tale forza che sembrava si potessero staccare e quelle due mani, aperte, a muoversi come girandole, per prendere l’aria sopra di lei e lanciarla tutta su quel palco, per ringraziare quell’uomo restituendogli quei respiri che per tutto il concerto le aveva regalato.
Lui aveva sempre sognato di suonare la chitarra per una donna, ma aveva sempre raccolto solo sorrisi di commiserazione.
Lei aveva sempre sognato di sentirsi dedicare un concerto di chitarra, ma aveva sempre ricevuto soltanto dispiaciuti sguardi di compassione.
A cosa aveva assistito e che quella sera non l’avrebbe mai più dimenticata, la maschera lo capì quando vide l’uomo, prima di scomparire dietro la quinta, stringere entrambe le mani a pugno, incrociare le braccia sul suo petto all’altezza del cuore e concludere quel silenzioso “Tu” con le mani tese verso la donna.
10 ottobre 2005
5 ottobre 2005
3 ottobre 2005
20 settembre 2005
E ti vengo a cercare
È che mentre sto in silenzio, penso che io nella vita non ho mai capito un sacco di cose.
Prima tra tutte, che tu vali quella cosa là, quella che ti cambia la vita.
E che qualsiasi silenzio tu riesca a ottenere da me, a levarti dalla testa proprio non ci riesco.
E che però forse sarebbe anche il caso che ti lasciassi vivere la tua vita, mentre io mi vivo la mia.
Figlio di puttana che sono.
Almeno finché non troverò il coraggio di venire da te.
Per sempre, intendo.
Consapevole che la porta la troverò decisamente, giustamente, definitivamente chiusa.
Sono sempre stato un'accozzaglia di parole inutili e niente fatti a seguire.
Tu, la cosa più bella che mi sia capitata negli ultimi anni.
Che frase banale, eh?
Arriverà un giorno nel quale smetterò di vivere la vita degli altri.
Ci sarà un giorno nel quale la stanchezza arriverà al punto che aspetto da tanto e mi farà fare la pazzia di cominciare a vivere la mia.
Niente promesse da film.
Niente “E ti vengo a cercare”.
Basta parole inutili e niente fatti a seguire.
Se ti trovo, bene.
Altrimenti sarai il mio più grande rimpianto e ciccia.
La tua.
Nelle grandi tette, nella gonna lunga.
In quel tuo dire “Bruno” mentre fai l’amore.
Spero solo quando lo fai con me.
Spero per te, intendo.
Anche un po’ per lui.
Vabbè, cazzi suoi.
Vedi?
Continuo a vivere la vita degli altri.
E intanto, così facendo, qualcun altro si vive la mia.
Tu.
Mi abiti dentro.
Termoautonomo, no perditempo.
A Mario,
Al giorno che partecipò al provino per "Ufficiale e Gentil Uomo"
foto di scena
esterno giorno
Mario capisce che ciò che deve fare è fregarsene di tutti e entrare nella lavanderia per prenderla in braccio e portarsela via per sempre.
Prima tra tutte, che tu vali quella cosa là, quella che ti cambia la vita.
E che qualsiasi silenzio tu riesca a ottenere da me, a levarti dalla testa proprio non ci riesco.
E che però forse sarebbe anche il caso che ti lasciassi vivere la tua vita, mentre io mi vivo la mia.
Figlio di puttana che sono.
Almeno finché non troverò il coraggio di venire da te.
Per sempre, intendo.
Consapevole che la porta la troverò decisamente, giustamente, definitivamente chiusa.
Sono sempre stato un'accozzaglia di parole inutili e niente fatti a seguire.
Tu, la cosa più bella che mi sia capitata negli ultimi anni.
Che frase banale, eh?
Arriverà un giorno nel quale smetterò di vivere la vita degli altri.
Ci sarà un giorno nel quale la stanchezza arriverà al punto che aspetto da tanto e mi farà fare la pazzia di cominciare a vivere la mia.
Niente promesse da film.
Niente “E ti vengo a cercare”.
Basta parole inutili e niente fatti a seguire.
Se ti trovo, bene.
Altrimenti sarai il mio più grande rimpianto e ciccia.
La tua.
Nelle grandi tette, nella gonna lunga.
In quel tuo dire “Bruno” mentre fai l’amore.
Spero solo quando lo fai con me.
Spero per te, intendo.
Anche un po’ per lui.
Vabbè, cazzi suoi.
Vedi?
Continuo a vivere la vita degli altri.
E intanto, così facendo, qualcun altro si vive la mia.
Tu.
Mi abiti dentro.
Termoautonomo, no perditempo.
A Mario,
Al giorno che partecipò al provino per "Ufficiale e Gentil Uomo"
foto di scena
esterno giorno
Mario capisce che ciò che deve fare è fregarsene di tutti e entrare nella lavanderia per prenderla in braccio e portarsela via per sempre.
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a te che sei,
Mario,
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4 agosto 2005
30
"Io mi divertivo ad avere trent'anni, io me li bevevo come un liquore i trent'anni. Sono stupendi i trent'anni, ed anche i trentuno, i trentadue, i trentatre, i trentaquattro, i trentacinque! Sono stupendi perche' sono liberi, ribelli, fuorilegge, perchè è finita l'angoscia dell'attesa, e non è cominciata la malinconia del declino. Perchè siamo lucidi, finalmente, a trent'anni! Se siamo religiosi, siamo religiosi convinti; se siamo atei siamo atei convinti. Se siamo dubbiosi, siamo dubbiosi senza vergogna. E non temiamo le beffe dei ragazzi perchè anche noi siamo giovani, non temiamo i rimproveri degli adulti perchè anche noi siamo adulti. Non temiamo il peccato perchè abbiamo capito che il peccato è un punto di vista, non temiamo la disubbidienza perchè abbiamo scoperto che la disubbidienza è nobile. Non temiamo la punizione perchè abbiamo concluso che non c'è nulla di male ad amarci se c'incontriamo, ad abbandonarci se ci perdiamo: i conti non dobbiamo più farli con la maestra di scuola e non dobbiamo ancora farli col prete dell'olio santo. Li facciamo con noi stessi e basta, col nostro dolore da grandi. Siamo un campo di grano maturo a trent'anni, non più acerbi e non ancora secchi: la linfa scorre in noi con la pressione giusta, gonfia di vita. E' viva ogni nostra gioia, è viva ogni nostra pena, si ride e si piange come non ci riuscirà mai più. Abbiamo raggiunto la cima della montagna e tutto è chiaro là in cima: la strada per cui scenderemo un po' ansimanti e tuttavia freschi. Non succederà più di sederci nel mezzo a guardare indietro e avanti e meditare sulla nostra fortuna..."
Oriaia Fallaci da qui.
Oriaia Fallaci da qui.
29 luglio 2005
Mosaici
Ho scoperto che ci si può innamorare anche di un uomo, a 65 anni.
Dove l'ho già sentita, questa?
Ho problemi di memoria.
Lui no.
Lui ricordava tutto.
E anche se era al telefono, li ho visti gli occhi innamorati di te.
Sai quell’ammirazione che una recluta riserva ad un suo superiore, personale eroe, col quale ha avuto la fortuna di combattere, quel senso lì di bellezza, di stima.
Ce l’aveva negli occhi, mentre mi parlava, li vedevo.
Hemingway, di nuovo.
E continuava a ripeterlo mentre ti descriveva nei modi gentili, nell’eleganza, nella ruvidezza, nella fierezza, nell’inarrivabile cultura.
Si ricordava quando è arrivato a casa del suo amico che ti ospitava e aveva con sé tre libri enormi che avevano spaventato tutti tranne te.
Si ricordava che rimase colpito da quel tuo astrarti in quell’esatto momento dalla compagnia per leggerti i tre libri per intero lì sul posto.
Si ricordava che stavi traducendo un libro cinese del 200 e lo diceva come si racconta di aver visto Ulisse dal vivo.
E la sera che tutti e tre siete andati nel quartiere russo di Pechino, in quel locale nel quale passavi le serate.
E la mia silenziosa speranza che finalmente a qualcuno avessi svelato quel segreto per il quale ti venne precluso l’ingresso in Russia a vita, tu che il Russo lo parlavi tanto quanto il mandarino di quel paesello dietro il fiume e che quel qualcuno fosse lui e invece no, te lo sei davvero portato dietro quel segreto perché nemmeno quella sera era la sera giusta per levartelo.
Ed era innamorato di te, quella sera, sai?
Ti guardava in quell’eleganza distinta che riusciva a spiegarsi solo con la parola dignità, perché pare fossi senza una lira in quel momento, non a caso ospitato da un amico.
Ma era innamorato perché, dice, vivevi di promesse.
Promesse di bonifici, promesse di pubblicazioni, promesse di lavori, promesse di qualcosa.
E vivevi sempre distinto, elegante, fiero, bello.
Ed era innamorato di te per la tua passione per le donne.
Perché ti vedeva prenderle e lasciarle come fossero bicchieri di whiskey.
Me l’ha raccontata come farebbe uno sceneggiatore, la tua uscita dal locale.
“A un certo punto si è alzato, ci ha preso sotto braccio tutti e due, si è fatto dare una bottiglia di Vodka, ne ha offerta mezza, ci ha portati fuori, “andiamo a donne stasera” ci ha detto, siamo usciti dal locale e sulla strada ha fermato due ragazze, ha detto loro qualcosa, loro l’hanno preso per mano e si sono allontanati tutti e tre. Io e il mio amico lo guardavamo allontanarsi, lui, le due ragazze e la bottiglia di vodka. Era bellissimo guardarlo allontanarsi in quel modo, non puoi sapere quanto era bella quella scena”
No, non lo posso sapere.
Io l’unica volta che l’ho visto allontanarsi di spalle non andava verso qualcosa, si allontanava da me.
Hemingway, ripeteva.
E il tuo progetto di aprire una scuola, naufragato come tutti gli altri.
Eri elegante, continuava ripetermi.
Eri bello, continuava a ripetermi.
Eri colto, continuava a ripetermi.
Di un’intelligenza che non aveva mai incontrato, continuava a ripetermi.
Ti ammirava, continuava a ripetermi.
In 65 anni, ha detto, non aveva mai conosciuto un uomo così, mi ha detto una volta sola.
Sono io, che continuo a ripetermelo, adesso.
Mi ha detto che ha già comunicato al tuo amico di Pechino di aver scovato tuo figlio.
Ci vedremo tutti e tre, quando lui verrà in Italia.
Se questa telefonata non è stata facile, quell'incontro saranno due anni di vita in meno, miei.
Qualcuno in più, tuoi.
Non sarà una passeggiata, ma ne varrà la pena.
Un pezzo alla volta, uno più difficile dell'altro, ce la farò a renderti uomo.
In realtà ho solo da perderci, in questa operazione, perchè il giorno che raggiungerò quell'obiettivo, molto probabilmente inizierai davvero a mancarmi in maniera dolorosa.
Ma se l'alternativa è non ricordarti, preferisco correre il rischio.
Per quel momento spero di essere diventato forte.
E comunque sono certo che avrò, a differenza di stasera, qualcuno a sorreggermi.
Ne ho bisogno anch'io, sai?
Anche se esattamente come te non lo ammetterò mai.
Forti, noi Bozza, forti!
A noi basta una bottiglia di vodka e qualche donna da scopare.
e promesse sulle quali vivere un giorno dopo l'altro.
Due dei tre sono già caduti.
manco io, all'appello.
Forte, Bruno, forte!
Ci credono tutti, sai?
Se sapessero, quant'è dura.
è che il mondo vuole essere scopato e noi Bozza siamo capaci di farlo.
mai che qualcuno scopi noi.
è che chiunque ci sia di fronte noi abbiamo sempre qualcosa in più che ci mette nelle condizioni di non poter chiedere.
Perchè quando impari a stare in piedi sulla merda, mentre tutti ci affogano dentro, quelli sotto si aggrappano a te, pensando che tu sia stabile.
Vaglielo a dire che Copperfield non li ha mai fatti sparire davvero gli aerei.
E che tu sei in equilibrio perchè hai imparato a tenere in piedi i tuoi soli 50 stupidi chili.
Che anche un solo grammo in più e tutto crolla.
Ma in fondo ci piace.
Perchè è vero, che abbiamo qualcosa in più.
La capacità di recitare, per esempio.
Ho deciso di fare un regalo, al tuo amico.
Una cosa tua che ho solo io e che sono felice se sarà sua.
Sai, ieri sera quando ho scritto della telefonata che avevo intenzione di fare, avevo scritto che sarei stato felice anche se mi avesse raccontato solo il colore delle piastrelle della tua casa.
Volevo dire “qualsiasi cosa”
Poi l’ho cancellato, sai?
Ho pensato che se mai fosse capitato anche qui, avrebbe pensato che sminuivo i suoi racconti, che non avrebbe capito cosa volevo dire, che intendevo dire “mi basta qualsiasi cosa”.
“Uno dei tre giorni che passammo insieme mi portò nella casa dove stava. Era una casa povera ma elegante. Rimasi colpito da un tavolino non finito. Lo stava facendo lui a mano, utilizzando i pezzi di piastrelle che i muratori avevano rotto. Era una tavolino fatto di pezzi di piastrelle colorate rotti in tanti piccoli pezzi e incastrati tra loro a formare un tavolo di fiori colorati. Era bellissimo quel tavolino fatto a mano in una casa così semplice. Fino a quel momento lo vedevo solo come un polveroso appassionato solo di libri e di libri e di libri. Non lo era. Quel tavolino lo ricordo come lo avessi davanti. Erano fiori colorati incastrati da quell’uomo così speciale”
Cazzo, Pà.
Cos’è?
Cos’è questo filo?
Perché le cose io le so prima?
Perché le vedo a forma di piastrelle colorate?
Hai idea di quanto sia stato pesante per me quando ha pronunciato la parola “Colore delle piastrelle”?
Ce l’hai una stracazzo di idea del tonfo che mi è esploso dentro?
Cos’è?
L’avevi letto prima che lo cancellassi?
Vuoi che scoppi anch’io?
È empatia?
Non può essere empatia, non ci sei più.
Ci sei ancora?
Cos’è?
Aiutami.
Ti ho già sepolto una volta.
Non tornare, per favore.
Due, non ce la farei.
Mi ha chiesto dove sei sepolto.
Mi sono offerto di accompagnarlo.
Ma non so se lo farò.
Che senso ha dimostrargli che eri un mortale come tutti?
Erano così belli i suoi occhi, mentre mi parlava di te.
C’hai impostato una vita, sul far credere a tutti che fossi Hemingway.
Beh, accidenti, ci sei riuscito.
E non sarò certo io a svelare il trucco.
Sai, anch’io lo uso quel trucco lì.
Sai, anche a me piacciono le donne e, hai ragione, funziona.
Non sono Hemingway, per questo, lo so.
Però sono stato più bravo di te.
A me, per il momento, nessuno mi piange.
A te, stasera, se ho visto bene quegli occhi, siamo in due.
Se avessi una vodka, adesso, alzerei il bicchiere a Oriente.
Chapeau, Edi.
Chapeau.
Dove l'ho già sentita, questa?
Ho problemi di memoria.
Lui no.
Lui ricordava tutto.
E anche se era al telefono, li ho visti gli occhi innamorati di te.
Sai quell’ammirazione che una recluta riserva ad un suo superiore, personale eroe, col quale ha avuto la fortuna di combattere, quel senso lì di bellezza, di stima.
Ce l’aveva negli occhi, mentre mi parlava, li vedevo.
Hemingway, di nuovo.
E continuava a ripeterlo mentre ti descriveva nei modi gentili, nell’eleganza, nella ruvidezza, nella fierezza, nell’inarrivabile cultura.
Si ricordava quando è arrivato a casa del suo amico che ti ospitava e aveva con sé tre libri enormi che avevano spaventato tutti tranne te.
Si ricordava che rimase colpito da quel tuo astrarti in quell’esatto momento dalla compagnia per leggerti i tre libri per intero lì sul posto.
Si ricordava che stavi traducendo un libro cinese del 200 e lo diceva come si racconta di aver visto Ulisse dal vivo.
E la sera che tutti e tre siete andati nel quartiere russo di Pechino, in quel locale nel quale passavi le serate.
E la mia silenziosa speranza che finalmente a qualcuno avessi svelato quel segreto per il quale ti venne precluso l’ingresso in Russia a vita, tu che il Russo lo parlavi tanto quanto il mandarino di quel paesello dietro il fiume e che quel qualcuno fosse lui e invece no, te lo sei davvero portato dietro quel segreto perché nemmeno quella sera era la sera giusta per levartelo.
Ed era innamorato di te, quella sera, sai?
Ti guardava in quell’eleganza distinta che riusciva a spiegarsi solo con la parola dignità, perché pare fossi senza una lira in quel momento, non a caso ospitato da un amico.
Ma era innamorato perché, dice, vivevi di promesse.
Promesse di bonifici, promesse di pubblicazioni, promesse di lavori, promesse di qualcosa.
E vivevi sempre distinto, elegante, fiero, bello.
Ed era innamorato di te per la tua passione per le donne.
Perché ti vedeva prenderle e lasciarle come fossero bicchieri di whiskey.
Me l’ha raccontata come farebbe uno sceneggiatore, la tua uscita dal locale.
“A un certo punto si è alzato, ci ha preso sotto braccio tutti e due, si è fatto dare una bottiglia di Vodka, ne ha offerta mezza, ci ha portati fuori, “andiamo a donne stasera” ci ha detto, siamo usciti dal locale e sulla strada ha fermato due ragazze, ha detto loro qualcosa, loro l’hanno preso per mano e si sono allontanati tutti e tre. Io e il mio amico lo guardavamo allontanarsi, lui, le due ragazze e la bottiglia di vodka. Era bellissimo guardarlo allontanarsi in quel modo, non puoi sapere quanto era bella quella scena”
No, non lo posso sapere.
Io l’unica volta che l’ho visto allontanarsi di spalle non andava verso qualcosa, si allontanava da me.
Hemingway, ripeteva.
E il tuo progetto di aprire una scuola, naufragato come tutti gli altri.
Eri elegante, continuava ripetermi.
Eri bello, continuava a ripetermi.
Eri colto, continuava a ripetermi.
Di un’intelligenza che non aveva mai incontrato, continuava a ripetermi.
Ti ammirava, continuava a ripetermi.
In 65 anni, ha detto, non aveva mai conosciuto un uomo così, mi ha detto una volta sola.
Sono io, che continuo a ripetermelo, adesso.
Mi ha detto che ha già comunicato al tuo amico di Pechino di aver scovato tuo figlio.
Ci vedremo tutti e tre, quando lui verrà in Italia.
Se questa telefonata non è stata facile, quell'incontro saranno due anni di vita in meno, miei.
Qualcuno in più, tuoi.
Non sarà una passeggiata, ma ne varrà la pena.
Un pezzo alla volta, uno più difficile dell'altro, ce la farò a renderti uomo.
In realtà ho solo da perderci, in questa operazione, perchè il giorno che raggiungerò quell'obiettivo, molto probabilmente inizierai davvero a mancarmi in maniera dolorosa.
Ma se l'alternativa è non ricordarti, preferisco correre il rischio.
Per quel momento spero di essere diventato forte.
E comunque sono certo che avrò, a differenza di stasera, qualcuno a sorreggermi.
Ne ho bisogno anch'io, sai?
Anche se esattamente come te non lo ammetterò mai.
Forti, noi Bozza, forti!
A noi basta una bottiglia di vodka e qualche donna da scopare.
e promesse sulle quali vivere un giorno dopo l'altro.
Due dei tre sono già caduti.
manco io, all'appello.
Forte, Bruno, forte!
Ci credono tutti, sai?
Se sapessero, quant'è dura.
è che il mondo vuole essere scopato e noi Bozza siamo capaci di farlo.
mai che qualcuno scopi noi.
è che chiunque ci sia di fronte noi abbiamo sempre qualcosa in più che ci mette nelle condizioni di non poter chiedere.
Perchè quando impari a stare in piedi sulla merda, mentre tutti ci affogano dentro, quelli sotto si aggrappano a te, pensando che tu sia stabile.
Vaglielo a dire che Copperfield non li ha mai fatti sparire davvero gli aerei.
E che tu sei in equilibrio perchè hai imparato a tenere in piedi i tuoi soli 50 stupidi chili.
Che anche un solo grammo in più e tutto crolla.
Ma in fondo ci piace.
Perchè è vero, che abbiamo qualcosa in più.
La capacità di recitare, per esempio.
Ho deciso di fare un regalo, al tuo amico.
Una cosa tua che ho solo io e che sono felice se sarà sua.
Sai, ieri sera quando ho scritto della telefonata che avevo intenzione di fare, avevo scritto che sarei stato felice anche se mi avesse raccontato solo il colore delle piastrelle della tua casa.
Volevo dire “qualsiasi cosa”
Poi l’ho cancellato, sai?
Ho pensato che se mai fosse capitato anche qui, avrebbe pensato che sminuivo i suoi racconti, che non avrebbe capito cosa volevo dire, che intendevo dire “mi basta qualsiasi cosa”.
“Uno dei tre giorni che passammo insieme mi portò nella casa dove stava. Era una casa povera ma elegante. Rimasi colpito da un tavolino non finito. Lo stava facendo lui a mano, utilizzando i pezzi di piastrelle che i muratori avevano rotto. Era una tavolino fatto di pezzi di piastrelle colorate rotti in tanti piccoli pezzi e incastrati tra loro a formare un tavolo di fiori colorati. Era bellissimo quel tavolino fatto a mano in una casa così semplice. Fino a quel momento lo vedevo solo come un polveroso appassionato solo di libri e di libri e di libri. Non lo era. Quel tavolino lo ricordo come lo avessi davanti. Erano fiori colorati incastrati da quell’uomo così speciale”
Cazzo, Pà.
Cos’è?
Cos’è questo filo?
Perché le cose io le so prima?
Perché le vedo a forma di piastrelle colorate?
Hai idea di quanto sia stato pesante per me quando ha pronunciato la parola “Colore delle piastrelle”?
Ce l’hai una stracazzo di idea del tonfo che mi è esploso dentro?
Cos’è?
L’avevi letto prima che lo cancellassi?
Vuoi che scoppi anch’io?
È empatia?
Non può essere empatia, non ci sei più.
Ci sei ancora?
Cos’è?
Aiutami.
Ti ho già sepolto una volta.
Non tornare, per favore.
Due, non ce la farei.
Mi ha chiesto dove sei sepolto.
Mi sono offerto di accompagnarlo.
Ma non so se lo farò.
Che senso ha dimostrargli che eri un mortale come tutti?
Erano così belli i suoi occhi, mentre mi parlava di te.
C’hai impostato una vita, sul far credere a tutti che fossi Hemingway.
Beh, accidenti, ci sei riuscito.
E non sarò certo io a svelare il trucco.
Sai, anch’io lo uso quel trucco lì.
Sai, anche a me piacciono le donne e, hai ragione, funziona.
Non sono Hemingway, per questo, lo so.
Però sono stato più bravo di te.
A me, per il momento, nessuno mi piange.
A te, stasera, se ho visto bene quegli occhi, siamo in due.
Se avessi una vodka, adesso, alzerei il bicchiere a Oriente.
Chapeau, Edi.
Chapeau.
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27 luglio 2005
peppe+edi+bozza
La settimana scorsa ho ricevuto 10.000 parole
E ne regalo due, in cambio.
Grazie, Roberta.
Oggi ricevo queste:
“Ciao Bruno,
mi permetto di darti del tu avendo conosciuto, anche se solo per pochi giorni tuo padre Edi.
Ho avuto modo di apprezzarne tutta la profondissima cultura ed il piacere di vivere che aveva.
Era la prima decade del luglio il 1999 e ho avuto la fortuna di conoscere tuo papà che frequentava un comune amico a Beijing.
In quell'occasione mi mostrò una decina di suoi libri (tutti in brossure ma in discreto stato di conservazione.)
Il poco tempo mi permise di fotocopiarne solo uno di questi
(Il tappeto da preghiera di carne: racconto erotico cinese d'epoca Qing di Li Yu a cura di Edi Bozza Edizioni Mondadori, Milano 1996)
Al mio ritorno in Italia cercai, anche su internet, di rintracciare gli altri volumi dei quali avevo l'elenco.
A volte, ricordandolo, mi viene di raffrontare la sua vita a quella di Ernest Hemingway.
Un caro saluto nel ricordo del tuo grande papà che meriterebbe di essere riconosciuto dalla critica letteraria italiana bigotta e provinciale.
Peppe T.”
Niente libri, solo parole.
Sarà per questo che non so come ringraziare.
Che poi sono quelle cose che ti fanno pensare che chi se ne va, lascia il buono che ha fatto, poco o tanto che sia, sparso per quel mondo che ha vissuto, per fartelo trovare lungo la strada a spizzichi e bocconi, magari dopo anni, magari quando ti serve o soltanto quando non te lo aspetti.
E si chiedono tutti se c'è la vita oltre la morte.
Certo che c'è.
Solo che non la vive chi se n'è andato, ma chi rimane.
Ed è per quello che almeno un paio di cose buone dovremmo cercare tutti di infilarle, tra l'ape in centro e lo spinning nella pausa pranzo.
Perchè saranno la nostra vita oltre la morte.
Saranno il nostro modo di non andarcene mai.
Saranno quello che ci farà vivere, nonostante qualcuno o nessuno o il destino, abbia deciso che era ora di chiudere bottega.
Nessuno se ne va mai del tutto.
Forse, in un certo senso, la morte come la intendiamo noi, nemmeno esiste.
Perchè c'è la vita oltre la morte.
E non credete a chi cerca di convincervi che è in cielo.
è qui.
Sono quel libro e le parole che avremo lasciato a chi abbiamo incontrato lungo la strada.
Amici o figli che siano.
Sono tutto ciò che di buono abbiamo fatto.
Il brutto, per fortuna, è l'unica cosa che col tempo davvero muore e se ne va, insieme al dolore.
Un pensiero per te, M.
E ne regalo due, in cambio.
Grazie, Roberta.
Oggi ricevo queste:
“Ciao Bruno,
mi permetto di darti del tu avendo conosciuto, anche se solo per pochi giorni tuo padre Edi.
Ho avuto modo di apprezzarne tutta la profondissima cultura ed il piacere di vivere che aveva.
Era la prima decade del luglio il 1999 e ho avuto la fortuna di conoscere tuo papà che frequentava un comune amico a Beijing.
In quell'occasione mi mostrò una decina di suoi libri (tutti in brossure ma in discreto stato di conservazione.)
Il poco tempo mi permise di fotocopiarne solo uno di questi
(Il tappeto da preghiera di carne: racconto erotico cinese d'epoca Qing di Li Yu a cura di Edi Bozza Edizioni Mondadori, Milano 1996)
Al mio ritorno in Italia cercai, anche su internet, di rintracciare gli altri volumi dei quali avevo l'elenco.
A volte, ricordandolo, mi viene di raffrontare la sua vita a quella di Ernest Hemingway.
Un caro saluto nel ricordo del tuo grande papà che meriterebbe di essere riconosciuto dalla critica letteraria italiana bigotta e provinciale.
Peppe T.”
Niente libri, solo parole.
Sarà per questo che non so come ringraziare.
Che poi sono quelle cose che ti fanno pensare che chi se ne va, lascia il buono che ha fatto, poco o tanto che sia, sparso per quel mondo che ha vissuto, per fartelo trovare lungo la strada a spizzichi e bocconi, magari dopo anni, magari quando ti serve o soltanto quando non te lo aspetti.
E si chiedono tutti se c'è la vita oltre la morte.
Certo che c'è.
Solo che non la vive chi se n'è andato, ma chi rimane.
Ed è per quello che almeno un paio di cose buone dovremmo cercare tutti di infilarle, tra l'ape in centro e lo spinning nella pausa pranzo.
Perchè saranno la nostra vita oltre la morte.
Saranno il nostro modo di non andarcene mai.
Saranno quello che ci farà vivere, nonostante qualcuno o nessuno o il destino, abbia deciso che era ora di chiudere bottega.
Nessuno se ne va mai del tutto.
Forse, in un certo senso, la morte come la intendiamo noi, nemmeno esiste.
Perchè c'è la vita oltre la morte.
E non credete a chi cerca di convincervi che è in cielo.
è qui.
Sono quel libro e le parole che avremo lasciato a chi abbiamo incontrato lungo la strada.
Amici o figli che siano.
Sono tutto ciò che di buono abbiamo fatto.
Il brutto, per fortuna, è l'unica cosa che col tempo davvero muore e se ne va, insieme al dolore.
Un pensiero per te, M.
25 luglio 2005
(ormai)35
Ci si può innamorare anche di un uomo, a (ancora) 33 anni.
Finalmente liberi da quei preconcetti da caserma che ogni 15enne si porta dentro, che gli impediscono di dire che Andy Garcia è un uomo bellissimo, pena la derisione dei compagni.
“Cu-lo! Cu-lo!”
Poi diventi grande e ti accorgi che guardare un uomo e trovarlo bellissimo non è essere gay, ma uomo.
E lo scopri quando seduto su un divano vedi un uomo di (ormai) 35 anni fare pace con una bambina di 5, perché l’obiettivo primario di ogni cosa dev’essere togliere al viso di quella bambina il broncio di chi non accetta che il proprio papà dica le bugie.
Quale delusione maggiore esiste, al mondo, per una bambina di 5 anni, se non scoprire che il papà dice una bugia e la dice proprio a lei?
Quanti padri l’avrebbero liquidata, quanti padri l’avrebbero spedita a guardare la tv.
Ma quella bambina non aveva i lacrimoni perché non voleva andare a letto.
Aveva i lacrimoni perché il suo papà aveva detto una bugia.
E quella bugia non era che il papà le aveva detto che babbo natale non esiste.
Non era triste perché il topino del dentino non esiste.
Era triste perché il papà, giocando a scala40 con lei, non era stato onesto nel prendere la carta al suo turno.
5 anni.
E tu, seduto sul divano, vedi un padre di (ormai) 35 anni giocare a scala40 con la figlia di 5 (per poi trovare strano che il figlio di 7 risolva equazioni matematiche) e lo vedi farsi perdente pur di riconquistare un bacio di quella bimba di 5 anni.
E tu ti chiedi se sia quello, il concetto vero e assoluto di padre.
E ti rispondi che si, è proprio quello.
Quello di accettare di definirsi perdente anche quando non lo sei, solo perché è irrazionalità l’amore.
E ti innamori di quell’uomo di (ormai) 35 anni perché ti innamori dei valori che sta mettendo in quel “Facciamo la pace?”
Ti innamori di quello che lo spinge a (ormai) 35 anni ad accettare qualsiasi prezzo pur di riavere la fiducia di una biondina di 5 anni, troppo piccola per sapere già che gli uomini mentono sempre, alle donne.
Anche quando quel prezzo è l’ammissione di una colpa che non ha.
E scopri che è quello il concetto di padre.
Quello di prendersi la colpa di qualsiasi lacrima della propria bimba, anche di quelle irrazionali, perché quella bimba è irrazionale e quella colpa non và discussa.
Va ammessa.
Perché è il sorriso l’unico fine di tutto.
E tu guardi quell’uomo di (ormai) 35 anni non azzardare alcun tipo di difesa, ma semplicemente chiedere scusa.
E vedi la biondina di 5 anni concedere quel prezioso bacio anzi due anzi tre, perché uno è normalità, due sono una concessione a lei, tre sono una concessione a lui.
E quell’accordo tra di loro lo leggi tutto negli occhi di quel padre e di quella biondina.
E la vedi riprendere il sorriso come se fosse passato Babbo Natale a cavallo del topino del dentino, senza aver acquisito un solo anno di più di quei suoi irrazionalissimi 5, in quello scontro con un uomo di (ormai) 35 battuto, abbattuto, sul terreno di quei lacrimoni così lontani dagli sterili capricci.
E tu che ne hai (ancora) 33 guardi tutto quello con un irrazionalissimo sorriso dentro che ti fa innamorare di quell’uomo come ci si innamora di un jazzista di (ormai) 35 anni che tenta di suonare una tromba senza l’impostazione accademica di chi l’ha studiata fin da piccolo ma con la perfezione che ogni passione si porta dentro.
Che l’impostazione accademica perfetta farà anche uscire le note accademiche perfette, ma quant’è buffa la forma della bocca dei jazzisti da accademia, tutta segnata da quella cicatrice a forma di cerchio che la tromba incide negli anni, incorniciata da due guance gonfie di anni di soffi in un tubo metallico.
E quant’è più bella invece quella cicatrice che quell’uomo di (ormai) 35 anni con orgoglio mostra, lasciata da anni di uno anzi due anzi tre baci dati da due figli incredibilmente, caoticamente, subwoofericamente musicali, incorniciata da due guance gonfie di anni di pernacchie sulla pancia.
Che a suonare la tromba alla fine si può imparare un po’ tutti.
Un po’ di tecnica, qualche lezione e tante ore.
È per far pace con i propri figli che bisogna essere uomini speciali.
Per quello, davvero, bisogna aver qualcosa di musicale dentro.
Auguri Rillo.
Come regalo, per una volta, metto un uomo di (ormai) 35 anni tra le donne alle quali dedico i miei pensieri prima della nanna.
La mia dedica si ferma lì, però.
Che per il momento, saranno stati i palloncini che hai appeso in cucina, le tette hanno sempre il loro bel fascino.
E la tromba continua ad avere sempre quel suo bel suono, sano, maschio, delle barzellette da caserma, anche per me.
Quelle barzellette da 15enni sui matrimoni così belli che sanno essere felici di un fiore, per essere festeggiati.
Quelle barzellette banali che recitavano
“Enrico la Talpa ...Rillo la Tromba”
Buon compleanno ...buon anniversario.
AH!AH!AH!
Che belli che eravamo a (ormai) 35 anni.
Finalmente liberi da quei preconcetti da caserma che ogni 15enne si porta dentro, che gli impediscono di dire che Andy Garcia è un uomo bellissimo, pena la derisione dei compagni.
“Cu-lo! Cu-lo!”
Poi diventi grande e ti accorgi che guardare un uomo e trovarlo bellissimo non è essere gay, ma uomo.
E lo scopri quando seduto su un divano vedi un uomo di (ormai) 35 anni fare pace con una bambina di 5, perché l’obiettivo primario di ogni cosa dev’essere togliere al viso di quella bambina il broncio di chi non accetta che il proprio papà dica le bugie.
Quale delusione maggiore esiste, al mondo, per una bambina di 5 anni, se non scoprire che il papà dice una bugia e la dice proprio a lei?
Quanti padri l’avrebbero liquidata, quanti padri l’avrebbero spedita a guardare la tv.
Ma quella bambina non aveva i lacrimoni perché non voleva andare a letto.
Aveva i lacrimoni perché il suo papà aveva detto una bugia.
E quella bugia non era che il papà le aveva detto che babbo natale non esiste.
Non era triste perché il topino del dentino non esiste.
Era triste perché il papà, giocando a scala40 con lei, non era stato onesto nel prendere la carta al suo turno.
5 anni.
E tu, seduto sul divano, vedi un padre di (ormai) 35 anni giocare a scala40 con la figlia di 5 (per poi trovare strano che il figlio di 7 risolva equazioni matematiche) e lo vedi farsi perdente pur di riconquistare un bacio di quella bimba di 5 anni.
E tu ti chiedi se sia quello, il concetto vero e assoluto di padre.
E ti rispondi che si, è proprio quello.
Quello di accettare di definirsi perdente anche quando non lo sei, solo perché è irrazionalità l’amore.
E ti innamori di quell’uomo di (ormai) 35 anni perché ti innamori dei valori che sta mettendo in quel “Facciamo la pace?”
Ti innamori di quello che lo spinge a (ormai) 35 anni ad accettare qualsiasi prezzo pur di riavere la fiducia di una biondina di 5 anni, troppo piccola per sapere già che gli uomini mentono sempre, alle donne.
Anche quando quel prezzo è l’ammissione di una colpa che non ha.
E scopri che è quello il concetto di padre.
Quello di prendersi la colpa di qualsiasi lacrima della propria bimba, anche di quelle irrazionali, perché quella bimba è irrazionale e quella colpa non và discussa.
Va ammessa.
Perché è il sorriso l’unico fine di tutto.
E tu guardi quell’uomo di (ormai) 35 anni non azzardare alcun tipo di difesa, ma semplicemente chiedere scusa.
E vedi la biondina di 5 anni concedere quel prezioso bacio anzi due anzi tre, perché uno è normalità, due sono una concessione a lei, tre sono una concessione a lui.
E quell’accordo tra di loro lo leggi tutto negli occhi di quel padre e di quella biondina.
E la vedi riprendere il sorriso come se fosse passato Babbo Natale a cavallo del topino del dentino, senza aver acquisito un solo anno di più di quei suoi irrazionalissimi 5, in quello scontro con un uomo di (ormai) 35 battuto, abbattuto, sul terreno di quei lacrimoni così lontani dagli sterili capricci.
E tu che ne hai (ancora) 33 guardi tutto quello con un irrazionalissimo sorriso dentro che ti fa innamorare di quell’uomo come ci si innamora di un jazzista di (ormai) 35 anni che tenta di suonare una tromba senza l’impostazione accademica di chi l’ha studiata fin da piccolo ma con la perfezione che ogni passione si porta dentro.
Che l’impostazione accademica perfetta farà anche uscire le note accademiche perfette, ma quant’è buffa la forma della bocca dei jazzisti da accademia, tutta segnata da quella cicatrice a forma di cerchio che la tromba incide negli anni, incorniciata da due guance gonfie di anni di soffi in un tubo metallico.
E quant’è più bella invece quella cicatrice che quell’uomo di (ormai) 35 anni con orgoglio mostra, lasciata da anni di uno anzi due anzi tre baci dati da due figli incredibilmente, caoticamente, subwoofericamente musicali, incorniciata da due guance gonfie di anni di pernacchie sulla pancia.
Che a suonare la tromba alla fine si può imparare un po’ tutti.
Un po’ di tecnica, qualche lezione e tante ore.
È per far pace con i propri figli che bisogna essere uomini speciali.
Per quello, davvero, bisogna aver qualcosa di musicale dentro.
Auguri Rillo.
Come regalo, per una volta, metto un uomo di (ormai) 35 anni tra le donne alle quali dedico i miei pensieri prima della nanna.
La mia dedica si ferma lì, però.
Che per il momento, saranno stati i palloncini che hai appeso in cucina, le tette hanno sempre il loro bel fascino.
E la tromba continua ad avere sempre quel suo bel suono, sano, maschio, delle barzellette da caserma, anche per me.
Quelle barzellette da 15enni sui matrimoni così belli che sanno essere felici di un fiore, per essere festeggiati.
Quelle barzellette banali che recitavano
“Enrico la Talpa ...Rillo la Tromba”
Buon compleanno ...buon anniversario.
AH!AH!AH!
Che belli che eravamo a (ormai) 35 anni.
23 luglio 2005
21 luglio 2005
Oracolo a milano
...e avrei scritto un post lungo, duro, anche se avrei fatto di tutto per dire senza dire, ma poi ho letto Sphera e l'ho trovato già scritto, perfetto, ogni parola, ogni virgola, ogni sensazione e allora mi permetto di rubarglielo, perchè parole migliori di queste, io no, non lo avrei sapute scrivere.
Io non sarei riuscito a non fare riferimenti a non dire senza dire a non attaccare.
Lei ci è riuscita ed è meglio per tutti.
Grazie a Sphera per la concessione.
"Oracolo a milano
Sai quando una cosa la sai benissimo, sai come sarà, cosa succederà, punto per punto: la sai tutta.
La sai perché l'hai provata e perché l'hai vista capitare, svolgersi esattamente in quel modo, un sacco di volte. E soprattutto non l'hai mai vista svolgersi in un altro, un qualunque altro, modo.
Certo, in via teorica esiste la possibiltà che una mela invece di cadere a terra si slanci di colpo verso l'alto ridacchiando alle spalle della forza di gravità, ma finora pare non sia mai capitato.
Sai i tempi, sai tutte le tappe, vedi la trama in controluce netta, diritta e precisa come il filo metallico in una banconota.
Vedi il punto d'arrivo con tanta precisione che potresti metterti lì ad aspettare, di fianco al bersaglio, e cronometrare il momento previsto e preciso in cui la freccia non può che colpirlo.
Però stai zittissima. Non una parola.
Perché ognuno, perlamordiddio, ha il diritto di sbagliare per conto suo."
Io non sarei riuscito a non fare riferimenti a non dire senza dire a non attaccare.
Lei ci è riuscita ed è meglio per tutti.
Grazie a Sphera per la concessione.
"Oracolo a milano
Sai quando una cosa la sai benissimo, sai come sarà, cosa succederà, punto per punto: la sai tutta.
La sai perché l'hai provata e perché l'hai vista capitare, svolgersi esattamente in quel modo, un sacco di volte. E soprattutto non l'hai mai vista svolgersi in un altro, un qualunque altro, modo.
Certo, in via teorica esiste la possibiltà che una mela invece di cadere a terra si slanci di colpo verso l'alto ridacchiando alle spalle della forza di gravità, ma finora pare non sia mai capitato.
Sai i tempi, sai tutte le tappe, vedi la trama in controluce netta, diritta e precisa come il filo metallico in una banconota.
Vedi il punto d'arrivo con tanta precisione che potresti metterti lì ad aspettare, di fianco al bersaglio, e cronometrare il momento previsto e preciso in cui la freccia non può che colpirlo.
Però stai zittissima. Non una parola.
Perché ognuno, perlamordiddio, ha il diritto di sbagliare per conto suo."
14 luglio 2005
ma lasciarti non è possibile
E come stai?
Domanda inutile
Stai come me
e ci scappa da ridere.
Naaaaaaa-na-na-nanna-nnaaaaa
Parapa-rapara-pà
Domanda inutile
Stai come me
e ci scappa da ridere.
Naaaaaaa-na-na-nanna-nnaaaaa
Parapa-rapara-pà
Etichette:
a te che sei,
Questo era il vecchio blog
11 luglio 2005
Theatre
Ti vedo.
In fondo al teatro, silenziosa.
Felice di non aver trovato posto in prima fila.
Ti vedo con quel sorriso di chi sa che le basterebbe
alzare una mano per girare con un solo cenno l’intera sala.
Mano giù il palco di qua.
Mano su il palco di là.
E la gente in mezzo a non sapere perché le luci
improvvisamente non inquadrano più Bruno.
Ti vedo.
Ti vedo perché il tecnico luci l’ho addestrato bene.
“Lo so che c’è” gli ho detto.
E lui, solo perché mi crede, monta ogni sera un piccolo
quarzo blu a fondo sala, verso la porta, orientato in modo che io dal palco non
possa vedere i lineamenti, ma solo un rettangolo perfetto se non lo
oltrepassi, una sagoma perfetta se si.
Ti vedo perché la maschera ogni sera a fine spettacolo fa
la spia.
“è passata” mi dice.
“com’era?” gli chiedo.
“come la sogni tu” mi risponde.
Ogni sera lo stesso dialogo, sempre uguale.
Poi tira giù la tendina della biglietteria e prima di
chiudere la cassetta, mi regala la metà biglietto strappata al tuo prima di
entrare.
Le prime volte non sapevo perché e lui, diavolo di una
maschera, non diceva altro che “è passata”.
Una sera mi raccontò della sua donna.
Veniva ogni sera nello stesso teatro.
Lui ha sempre lavorato qui.
Entrava, comprava un biglietto, gli sorrideva e usciva.
Lui non capiva, non sapeva.
Sapeva solo che la trovava incantevole e ogni sera
metteva da parte un biglietto per lei, per non rischiare di non sentire quel
suo “grazie” sorridente, solo perché quella sera, magari, c’era il tutto
esaurito.
Lei, ogni sera, non diceva nulla, si avvicinava al vetro
e aspettava una sua parola.
E lui, per non rischiare di non sentire quel grazie, ogni
sera la stessa frase.
“Buonasera, signorina. Ecco, per lei”.
Lei prendeva il biglietto e senza entrare a vedere lo
spettacolo se ne andava sorridendo.
Un giorno smise improvvisamente di andare al teatro e lui
non seppe mai più nulla.
Continuò lo stesso a tenere da parte un biglietto ogni
sera.
Continuava tutt’ora.
Quella sera mi consegnò la solita parte del tuo
biglietto, mi disse il solito “è passata” e si allontanò.
Il giorno dopo non si presentò più al lavoro.
Non si seppe più nulla di lui e io non fui mai capace di
spiegare alla nuova maschera la storia della metà del biglietto.
Mi chiedo anch’io, ancora oggi, perché me la volesse
regalare ogni sera.
Ti vedo.
Ti vedo perché in fondo alla sala, il rettangolo blu non
è più un rettangolo perfetto.
È rotondo, pieno, una mano giù e l’altra anche.
Se vedessi tutte le metà biglietto che conservo nel
camerino.
Mi aiutano, sai?
Mi ricordano i giorni che passano con te in fondo alla
sala a guardarmi.
Non lo so se la maschera me le regalava per aiutarmi o
perché gli ricordavi la sua donna mai avuta che era il futuro diverso che si
augurava per me.
Non lo so e non ho nemmeno voglia di scoprirlo.
So solo che ancora oggi ogni sera vado dalla nuova
maschera e gli chiedo due biglietti.
Uno per te, uno per quella sua donna e li porto in
camerino nella scatola insieme agli altri.
Chissà, forse un giorno alzerai la mano e io li lancerò
in aria sul palco come coriandoli.
Forse un giorno tornerà anche lui a presentarmi la sua
donna ritrovata.
Forse starete tutti e tre a guardarmi dal fondo del
teatro, mentre io faccio il mio spettacolo che parla di voi, ogni sera, la
stessa replica da anni che tanto appassiona il pubblico.
Forse non passerà mai più nessuno.
Però, sai, lui era bello quando dietro il vetro la
aspettava.
E io, che tu alzerai mai la mano o meno, è con quella
speranza negli occhi che voglio continuare a stare su ‘sto palco.
Con i biglietti ci sto facendo un castello di carta.
Alla maschera devo questo.
Siete sagome silenziose, ma siete il motivo per il quale
io sorrido.
29 giugno 2005
Nico
Che poi, oggi, una amica incredibilmente bella alla quale voglio un sacco di bene, che mi dice sempre che sono come la sua seconda sorella, che non vuole fare la vacanza con 100 amici, mi ha chiesto di andare in vacanza con lei, perché sono l’unico uomo col quale dividerebbe tranquilla la stanza e mentre me lo diceva io me la immaginavo uscire dalla doccia.
Eccheccazzo, son mica di legno.
Eccheccazzo, son mica di legno.
16 giugno 2005
12 maggio 2005
11 maggio 2005
marcos+inter
Il Sub Comandante Marcos ha inviato una lettera all’Inter per proporre loro una partita di calcio.
Luogo e data da definirsi.
Nella lettera vengono indicate solo due condizioni:
“Dimenticatevi di vendere i diritti televisivi e portate il pallone, i nostri sono tutti bucati”
“…portate il pallone, i nostri sono tutti bucati”
C’è della poesia, in quella frase.
Qualcuno ha invocato la rivoluzione nel mondo del calcio.
È arrivata via posta.
Pagherei per esserci.
Luogo e data da definirsi.
Nella lettera vengono indicate solo due condizioni:
“Dimenticatevi di vendere i diritti televisivi e portate il pallone, i nostri sono tutti bucati”
“…portate il pallone, i nostri sono tutti bucati”
C’è della poesia, in quella frase.
Qualcuno ha invocato la rivoluzione nel mondo del calcio.
È arrivata via posta.
Pagherei per esserci.
2 maggio 2005
Laura
Mi rendo conto di non essere più un ragazzino, quando durante le cene con gli amici, la padrona di casa si allontana per mettere a letto i bambini.
Ci ho pensato.
Quella situazione l’ho sempre attribuita agli amici dei miei genitori, ai grandi.
E noi a tavola tutti intenti a pianificare idee, strutturare progetti, raccontare versioni, esternare dubbi, sviscerare perplessità, liberare nodi, dividere lasagne, sorseggiare barolo, disegnare piani, leggere appunti, discutere varianti.
Un bambino, intanto, seduto a tavola ci guardava ridendo sotto i baffi.
Chissà cosa stava pensando di noi.
Una bambina, intanto, con la sedia spostata indietro, in silenzio leggeva un libro di fiabe come se fosse da sola nella stanza.
Chissà che principessa si stava raccontando.
Non parlavano, non facevano capricci, non pretendevano attenzione, non chiedevano di giocare, non volevano li si guardasse.
Era una casa nuova, con gli scatoloni ancora da svuotare.
Non c’era la televisione e il dentifricio era ancora nascosto negli scatoloni.
La bambina, allontanatasi per prepararsi per andare a dormire, è tornata per chiedere dov’era il dentifricio.
In qualsiasi altra casa, qualsiasi altra bambina, tra le due cose avrebbe chiesto la televisione.
Eravamo tutti così belli, da piccoli?
E se si, quand’è che abbiamo cominciato ad aver bisogno che ci si guardasse, per sentirci bene come si sentivano quei due bambini?
Non se ne abbiano a male gli altri commensali, né la padrona di casa, ma io di questa sera ho negli occhi quei bambini.
Ci ho pensato.
Quella situazione l’ho sempre attribuita agli amici dei miei genitori, ai grandi.
E noi a tavola tutti intenti a pianificare idee, strutturare progetti, raccontare versioni, esternare dubbi, sviscerare perplessità, liberare nodi, dividere lasagne, sorseggiare barolo, disegnare piani, leggere appunti, discutere varianti.
Un bambino, intanto, seduto a tavola ci guardava ridendo sotto i baffi.
Chissà cosa stava pensando di noi.
Una bambina, intanto, con la sedia spostata indietro, in silenzio leggeva un libro di fiabe come se fosse da sola nella stanza.
Chissà che principessa si stava raccontando.
Non parlavano, non facevano capricci, non pretendevano attenzione, non chiedevano di giocare, non volevano li si guardasse.
Era una casa nuova, con gli scatoloni ancora da svuotare.
Non c’era la televisione e il dentifricio era ancora nascosto negli scatoloni.
La bambina, allontanatasi per prepararsi per andare a dormire, è tornata per chiedere dov’era il dentifricio.
In qualsiasi altra casa, qualsiasi altra bambina, tra le due cose avrebbe chiesto la televisione.
Eravamo tutti così belli, da piccoli?
E se si, quand’è che abbiamo cominciato ad aver bisogno che ci si guardasse, per sentirci bene come si sentivano quei due bambini?
Non se ne abbiano a male gli altri commensali, né la padrona di casa, ma io di questa sera ho negli occhi quei bambini.
23 aprile 2005
Pensandoti
Ti renderei lieve il peso di tutto ciò che non hai scelto. In silenzio mi trasformerei nei tuoi motivi, senza che tu te ne accorga, perché da te vorrei venissero i si sui quali viaggiare per il mondo. Dividerei in due mele, bottiglie di vino e mari, darei il tuo nome ad ogni chilometro e incornicerei ogni biglietto di ritorno. Ti chiederei di dirmi un colore, una forma e un suono, per avere qualcosa da cercare ogni volta che mi allontano. Saresti per me la fine di ogni film, il significato di ogni canzone. Non cercherei vacanza ma tempo libero. Vorrei ogni giorno avere la sensazione che tu mi sopravvalutassi per inseguire quella tua idea immaginandoti contenta, e orgoglioso dirti ogni giorno che ce l’ho fatta anche quel giorno. I grazie sarebbero le mie virgole e il tuo nome il mio punto. Mano nella mano passeggerei con te dalla camera da letto al bagno per lasciarmi sostituire soltanto dalla tua intimità. Saresti l’unico essere umano che sarei in grado di difendere e a te ne darei il merito. Come un animale sentirei le tracce del tuo passaggio e leccandoti interpreterei il tuo umore, aspro, caldo, dedicato a me. Non ti darei il tempo di chiedere o ti farei dimenticare di averlo fatto. Ogni giorno ti racconterei il presente. Direi agli amici che sei mia, direi ai nemici che sei mia, direi a me stesso che sei mia. Ti direi “stai lì” e porterei sempre con me una foto del tuo culo. Ti chiederei ogni giorno cosa vuoi dalla vita per essere certo di non aver dimenticato nulla. Al ritorno dal lavoro ti farei trovare una torta e trombette e un sacco di preservativi gonfiati a fare da palloncini per dirti che da quel giorno non avrò più paura di nulla. Ti lascerei le sere con le amiche per il piacere di immaginarti a raccontare loro la tua serenità. Tacchi a spillo e gambe intorno al collo, sudore e capelli in bocca. Ti porterei con orgoglio su quel vassoio d’argento sul quale tutti gli altri stendono cocaina. Ti farei ridere e ti renderei invidiata. Terrei una mano su quel tuo seno così perfetto per tutta la vita. Ti amerei perché sarebbe stupido non farlo.
29 marzo 2005
Dottore, chiese
“Non mi chiami Dottore, dammi pure del tu” rispose il Dottore
“Si, dicevo, dottore, vorrei che mi aiutasse a capire una cosa” ribatté lui.
“Dimmi”
“L’altra sera, anche l’altra sera, diciamo ultimamente, mi ritrovo a fare dei ragionamenti per chiudere i quali mi manca sempre e solo un punto” e proseguì “e ogni volta tutto torna finché non arrivo a quel punto, oltre il quale non riesco ad andare”
“Ragionamenti su cosa?”
“Sulle conseguenze dei traumi”
“Dimmi di più”
“Vede dottore, è che qualsiasi corrente di pensiero, sia che si occupi dell’aspetto mentale, che di quello fisico, dice sempre la stessa cosa” proseguì
“Cosa?” insistette il dottore
“Che i traumi, quando si possono chiamare tali, lasciano tracce, provocano disturbi sia fisici che mentali, a volte immediati, altre dopo un tempo a volte anche lungo”
“E…?” rispose il dottore.
“E che se per di più i traumi sono diversi, violenti e circoscritti in un lasso di tempo non così lungo da permettere di sfogare il precedente prima di subire il successivo, è matematico che un danno lo facciano”
“E tu questo non lo capisci?” si stupì il dottore
“No, no, lo capisco eccome, non è questo l’ostacolo che non riesco a superare” disse lui
“E qual è?” disse il dottore.
Lui, dopo un attimo di pausa, chiese
“Perché a me non è successo?”
“Si, dicevo, dottore, vorrei che mi aiutasse a capire una cosa” ribatté lui.
“Dimmi”
“L’altra sera, anche l’altra sera, diciamo ultimamente, mi ritrovo a fare dei ragionamenti per chiudere i quali mi manca sempre e solo un punto” e proseguì “e ogni volta tutto torna finché non arrivo a quel punto, oltre il quale non riesco ad andare”
“Ragionamenti su cosa?”
“Sulle conseguenze dei traumi”
“Dimmi di più”
“Vede dottore, è che qualsiasi corrente di pensiero, sia che si occupi dell’aspetto mentale, che di quello fisico, dice sempre la stessa cosa” proseguì
“Cosa?” insistette il dottore
“Che i traumi, quando si possono chiamare tali, lasciano tracce, provocano disturbi sia fisici che mentali, a volte immediati, altre dopo un tempo a volte anche lungo”
“E…?” rispose il dottore.
“E che se per di più i traumi sono diversi, violenti e circoscritti in un lasso di tempo non così lungo da permettere di sfogare il precedente prima di subire il successivo, è matematico che un danno lo facciano”
“E tu questo non lo capisci?” si stupì il dottore
“No, no, lo capisco eccome, non è questo l’ostacolo che non riesco a superare” disse lui
“E qual è?” disse il dottore.
Lui, dopo un attimo di pausa, chiese
“Perché a me non è successo?”
28 marzo 2005
Pasqua
Dire che questa è stata una bella pasqua, viene difficile pure a me che bevo solo da bicchieri mezzo pieni da circa trent’anni.
“Mi dispiace”
“Per cosa?”
“Per un sacco di cose”.
Ora immaginate questa frase detta da un marcantonio di fratello di 34 anni, che in 120 chilometri dice solo questa frase, per passare i successivi 80, chilometro più chilometro meno, diciamo da Torino, dove sei andato a (ri)prenderlo, fino a spanne a Novara, a singhiozzare non cercando nemmeno più di nascondersi, tanto è profondo il buco dal quale sei andato a riprenderlo.
Poi ditemi “Passata bene la pasqua?”
E accettate il mio “no” senza andare oltre.
Ma c’è la nonna.
Ma si, quella che ogni volta mi racconta un aneddoto di quando eravamo piccoli.
La nonna, insomma, come altro la puoi descrivere?
Quella che cucina?
Si, aspetta, la cucina, dopo.
L’aneddoto di questa volta racconta dell’asilo nido.
La nonna non sa che il compito pasquale di Mario è tipo elisoccorso, quello di mettere Mario Bros nel baule della macchina, tra le catene per non uscire di strada e le cartine senza le strade del ritorno, e difenderlo dai mostri fino a casa.
Cioè, casa per come la intende lui.
Cioè, come non la intende lui.
Cioè come nemmeno lei, come del resto lui, fino a oggi aveva mai capito di che casa si sta, da due anni, parlando.
Fine antefatto a testimonianza di bravura di nonna.
L’aneddoto:
Mario Bros venne iscritto al nido, come da anagrafe, un anno prima di Mario.
La nonna, come da storia, andava a prendere e portava Mario Bros ogni giorno al nido, e Mario poi lo riportava con lei a casa.
Mario Bros urlava.
Dice la nonna, da quando con la macchina imboccava la via del nido.
La riconosceva e urlava.
Lo tiravano giù dalla macchina e urlava.
Lo portavano dentro e urlava.
La bidella un giorno disse alla nonna
“Lei oggi non scende nemmeno dalla macchina così si abitua”
e la costrinse a restare in macchina.
Mario Bros urlava di più.
Un giorno poi anche Mario venne iscritto allo stesso nido.
Il giorno che Mario Bros entrò al nido con Mario, non pianse.
Non pianse più da quel giorno in poi.
Fine dell’aneddoto.
La cucina, dicevamo.
La nonna è quella che cucina come la nonna.
Sembra un controsenso ma solo perché è troppo perfetto per essere vero.
Si autoconferma, diciamo.
È inappellabile.
Cucina anche gli altri giorni figurati a pasqua.
Ma oggi non era pasqua e non si è mangiato tutto quello che lei aveva messo in tavola.
Si aveva poca fame e tanta fretta di tornare a casa.
E poi alla fine allora le scatole più grandi per tutti.
Le scatole sono quelle vaschette d’alluminio nelle quali ogni volta che pranzi dalla nonna lei impacchetta la possibilità di cenarci, anche.
Sono laboratori in miniatura per la clonazione dei pranzi della nonna.
Sono come il cilindro del mago.
lei ci mette un tovagliolo, quando tu le apri ci trovi un coniglio.
Come il suo congelatore, nel quale risiede, pagato con la sua sola (mai aumentata) pensione minima, cibo sufficiente per tutti gli amici che le porti, a sorpresa, a casa.
Amici che mangiano sempre almeno un piatto di pasta fatta in casa, almeno un barattolo di peperoncini ripieni, almeno due cotolette, almeno un contorno caldo, almeno un dolce.
La gente non lo sa, ma i segreti di Fatima non sono solo tre.
Ce n’è un altro.
Mia nonna.
Quella delle scatole.
Quelle che ogni volta lei ce le consegna, noi non glie le riportiamo mai indietro, e la volta dopo quando pretendiamo la nostra scatola, alla sua, sempre finta, incazzatura “Non ho più contenitori! Ve li ho dati tutti e non me li riportate mai! Avete le case piene dei miei contenitori!” noi rispondiamo puntuali “Contenitori? Noi? Ma guarda che non li abbiamo!” senza mai essere usciti da casa sua con meno di dieci contenitori d’alluminio, senza mai esserci entrati con non dico due ma nemmeno uno pulito.
Un rito.
Antefatto: Mario sta per partire e allora dice
“No, nonna, metti solo la pasta, perché mangerò solo stasera e non voglio buttare la roba perché la lascio una settimana in frigo”
“Ma nemmeno due polpette?”
“No, nonna, davvero, tanto sono pienissimo e stasera la pasta andrà benissimo, lascerei il resto”
“Ma nemmeno un po’ di agnello?”
“No, nonna, sul serio, non insistere, lo dico davvero solo perché non li voglio buttare. Dalli a loro”
Il fatto:
Poi Mario arriva a casa, e ride un po’ al telefono con la nonna più giovane del mondo delle nonne.
Cioè, un po’, ci passa un’ora, diciamo.
E più lei racconta una cosa bella e più lui sorride.
E più lei parla e più lui si rasserena.
E più lei ride e più lui sente tornare la fame.
Ma le scatole erano quelle piccole di chi è un po’ triste e a lui dispiaceva perché adesso quelle due polpette le avrebbe mangiate volentieri, eccome.
Ma vabbè.
È lui che aveva rotto le palle.
“Andiamo a scaldare la pasta, vah”, pensò Mario.
Nella scatola:
Due dosi di pasta.
Quattro polpette.
Due pezzi d’agnello.
A nonna Mària.
Con due mani.
Come ci ha sempre mostrato.
“Mi dispiace”
“Per cosa?”
“Per un sacco di cose”.
Ora immaginate questa frase detta da un marcantonio di fratello di 34 anni, che in 120 chilometri dice solo questa frase, per passare i successivi 80, chilometro più chilometro meno, diciamo da Torino, dove sei andato a (ri)prenderlo, fino a spanne a Novara, a singhiozzare non cercando nemmeno più di nascondersi, tanto è profondo il buco dal quale sei andato a riprenderlo.
Poi ditemi “Passata bene la pasqua?”
E accettate il mio “no” senza andare oltre.
Ma c’è la nonna.
Ma si, quella che ogni volta mi racconta un aneddoto di quando eravamo piccoli.
La nonna, insomma, come altro la puoi descrivere?
Quella che cucina?
Si, aspetta, la cucina, dopo.
L’aneddoto di questa volta racconta dell’asilo nido.
La nonna non sa che il compito pasquale di Mario è tipo elisoccorso, quello di mettere Mario Bros nel baule della macchina, tra le catene per non uscire di strada e le cartine senza le strade del ritorno, e difenderlo dai mostri fino a casa.
Cioè, casa per come la intende lui.
Cioè, come non la intende lui.
Cioè come nemmeno lei, come del resto lui, fino a oggi aveva mai capito di che casa si sta, da due anni, parlando.
Fine antefatto a testimonianza di bravura di nonna.
L’aneddoto:
Mario Bros venne iscritto al nido, come da anagrafe, un anno prima di Mario.
La nonna, come da storia, andava a prendere e portava Mario Bros ogni giorno al nido, e Mario poi lo riportava con lei a casa.
Mario Bros urlava.
Dice la nonna, da quando con la macchina imboccava la via del nido.
La riconosceva e urlava.
Lo tiravano giù dalla macchina e urlava.
Lo portavano dentro e urlava.
La bidella un giorno disse alla nonna
“Lei oggi non scende nemmeno dalla macchina così si abitua”
e la costrinse a restare in macchina.
Mario Bros urlava di più.
Un giorno poi anche Mario venne iscritto allo stesso nido.
Il giorno che Mario Bros entrò al nido con Mario, non pianse.
Non pianse più da quel giorno in poi.
Fine dell’aneddoto.
La cucina, dicevamo.
La nonna è quella che cucina come la nonna.
Sembra un controsenso ma solo perché è troppo perfetto per essere vero.
Si autoconferma, diciamo.
È inappellabile.
Cucina anche gli altri giorni figurati a pasqua.
Ma oggi non era pasqua e non si è mangiato tutto quello che lei aveva messo in tavola.
Si aveva poca fame e tanta fretta di tornare a casa.
E poi alla fine allora le scatole più grandi per tutti.
Le scatole sono quelle vaschette d’alluminio nelle quali ogni volta che pranzi dalla nonna lei impacchetta la possibilità di cenarci, anche.
Sono laboratori in miniatura per la clonazione dei pranzi della nonna.
Sono come il cilindro del mago.
lei ci mette un tovagliolo, quando tu le apri ci trovi un coniglio.
Come il suo congelatore, nel quale risiede, pagato con la sua sola (mai aumentata) pensione minima, cibo sufficiente per tutti gli amici che le porti, a sorpresa, a casa.
Amici che mangiano sempre almeno un piatto di pasta fatta in casa, almeno un barattolo di peperoncini ripieni, almeno due cotolette, almeno un contorno caldo, almeno un dolce.
La gente non lo sa, ma i segreti di Fatima non sono solo tre.
Ce n’è un altro.
Mia nonna.
Quella delle scatole.
Quelle che ogni volta lei ce le consegna, noi non glie le riportiamo mai indietro, e la volta dopo quando pretendiamo la nostra scatola, alla sua, sempre finta, incazzatura “Non ho più contenitori! Ve li ho dati tutti e non me li riportate mai! Avete le case piene dei miei contenitori!” noi rispondiamo puntuali “Contenitori? Noi? Ma guarda che non li abbiamo!” senza mai essere usciti da casa sua con meno di dieci contenitori d’alluminio, senza mai esserci entrati con non dico due ma nemmeno uno pulito.
Un rito.
Antefatto: Mario sta per partire e allora dice
“No, nonna, metti solo la pasta, perché mangerò solo stasera e non voglio buttare la roba perché la lascio una settimana in frigo”
“Ma nemmeno due polpette?”
“No, nonna, davvero, tanto sono pienissimo e stasera la pasta andrà benissimo, lascerei il resto”
“Ma nemmeno un po’ di agnello?”
“No, nonna, sul serio, non insistere, lo dico davvero solo perché non li voglio buttare. Dalli a loro”
Il fatto:
Poi Mario arriva a casa, e ride un po’ al telefono con la nonna più giovane del mondo delle nonne.
Cioè, un po’, ci passa un’ora, diciamo.
E più lei racconta una cosa bella e più lui sorride.
E più lei parla e più lui si rasserena.
E più lei ride e più lui sente tornare la fame.
Ma le scatole erano quelle piccole di chi è un po’ triste e a lui dispiaceva perché adesso quelle due polpette le avrebbe mangiate volentieri, eccome.
Ma vabbè.
È lui che aveva rotto le palle.
“Andiamo a scaldare la pasta, vah”, pensò Mario.
Nella scatola:
Due dosi di pasta.
Quattro polpette.
Due pezzi d’agnello.
A nonna Mària.
Con due mani.
Come ci ha sempre mostrato.
25 marzo 2005
LaVale
Che io non abbia link è cosa nota.
Che a me non interessi il gioco dei link, è cosa altrettanto nota.
Che io non sopporti “Io ti linko tu mi linki” per incrementare accessi, è ancora più noto.
E allora mi posso permettere il lusso di scriverci un post, quando incontro qualcuno che merita di essere suggerito.
Senza che nessuno chieda niente e offra niente.
Così, come quando sostieni un candidato politico e senza chiedere soldi in cambio ti piazzi nei giorni del mercato all’inizio della via con un grande cartello appeso al collo con su scritto
“Ho incontrato tre figli e una (gran) mamma”
e tutti ti guardano e ti dicono
“Ma non ti senti scemo, vestito così?”
e tu rispondi
“Ma tu l’hai mai sentita parlare?”
è fantastica.
non ha nemmeno il contatore di accessi.
cazzo, esisono i blog senza contatore di accessi.
Io mi sento scemo solo perché sono certo di essere l’unico che ancora non l’aveva mai letta.
Non può essere altrimenti.
Infatti ritengo questo post assolutamente inutile.
Ma magari invece nemmeno tu la conoscevi.
E se prima eravamo in due a ballare l’alli-galli,
adesso siamo in tre a ballare l’alli-galli.
Tre più una (gran) mamma.
Scemo per scemo…
Tanto vale sbracare.
ma non le dite che vi ho mandati io.
non ditele nulla.
va tutto bene così com'è.
Che a me non interessi il gioco dei link, è cosa altrettanto nota.
Che io non sopporti “Io ti linko tu mi linki” per incrementare accessi, è ancora più noto.
E allora mi posso permettere il lusso di scriverci un post, quando incontro qualcuno che merita di essere suggerito.
Senza che nessuno chieda niente e offra niente.
Così, come quando sostieni un candidato politico e senza chiedere soldi in cambio ti piazzi nei giorni del mercato all’inizio della via con un grande cartello appeso al collo con su scritto
“Ho incontrato tre figli e una (gran) mamma”
e tutti ti guardano e ti dicono
“Ma non ti senti scemo, vestito così?”
e tu rispondi
“Ma tu l’hai mai sentita parlare?”
è fantastica.
non ha nemmeno il contatore di accessi.
cazzo, esisono i blog senza contatore di accessi.
Io mi sento scemo solo perché sono certo di essere l’unico che ancora non l’aveva mai letta.
Non può essere altrimenti.
Infatti ritengo questo post assolutamente inutile.
Ma magari invece nemmeno tu la conoscevi.
E se prima eravamo in due a ballare l’alli-galli,
adesso siamo in tre a ballare l’alli-galli.
Tre più una (gran) mamma.
Scemo per scemo…
Tanto vale sbracare.
ma non le dite che vi ho mandati io.
non ditele nulla.
va tutto bene così com'è.
24 marzo 2005
Smell
Il profumo era buono.
Lo ricordava così, uguale, dalla volta prima.
Aveva memoria, lui, per i profumi.
Gli piacevano.
Le forme, nella sua mente, venivano catalogate per profumi.
Sentiva un profumo e si ricordava perfettamente la forma.
Le persone, nella sua mente, avevano un profumo, non un nome.
Era per questo che lui amava i profumi.
Lo aiutavano a ricordare.
Quella sera scoprì il trucco dei profumi.
Fu un attimo, un lampo,
e tutto gli fu chiaro.
Scoprì che i profumi non servivano a migliorare il durante.
quello era solo un effetto secondario.
Si rese conto che il loro vero compito lo svolgevano dopo.
Quando, tornato a casa, alla fine della serata, si mise a letto
e, appoggiandole sul cuscino, involontariamente, avvicinò le mani al viso.
Niente altro al mondo avrebbe avuto quell’effetto lì.
Lo ricordava così, uguale, dalla volta prima.
Aveva memoria, lui, per i profumi.
Gli piacevano.
Le forme, nella sua mente, venivano catalogate per profumi.
Sentiva un profumo e si ricordava perfettamente la forma.
Le persone, nella sua mente, avevano un profumo, non un nome.
Era per questo che lui amava i profumi.
Lo aiutavano a ricordare.
Quella sera scoprì il trucco dei profumi.
Fu un attimo, un lampo,
e tutto gli fu chiaro.
Scoprì che i profumi non servivano a migliorare il durante.
quello era solo un effetto secondario.
Si rese conto che il loro vero compito lo svolgevano dopo.
Quando, tornato a casa, alla fine della serata, si mise a letto
e, appoggiandole sul cuscino, involontariamente, avvicinò le mani al viso.
Niente altro al mondo avrebbe avuto quell’effetto lì.
22 marzo 2005
Testamento biologico
Se ne parla, in questi giorni.
La cronaca porta a parlarne, il cinema porta a parlarne, le notizie portano a parlarne.
Però si tende a spersonalizzarlo, se mi è concesso il termine.
Per paura, per scaramanzia.
Il più delle volte solo perché si pensa che non sia bello parlarne su se stessi, perché spunterebbe subito chi dice
“Eh… porta sfiga!” oppure “Ma no, a me non può succedere”.
E invece può succedere.
E allora per una volta faccio un uso vero di questo inutile mezzo.
E metto nero su bianco una cosa che magari, chissà, domani potrei non poter dire.
Perché checchè se ne dica, domani potrei non poterlo esprimere.
E so che mi pentirei di non aver approfittato di quest’occasione per farlo.
Di che si parla?
Di eutanasia.
Nelle prossime righe metto nero su bianco quello che voglio, quello che penso, quello che chi mi ama dovrà fare per me, se mai mi trovassi a non poter dire ciò che desidero.
Per questo motivo chi si è connesso sperando di trovare “Io stamattina alzato e fatto colazione ke figa quella tipa” non vada oltre.
Oggi dico una cosa che, anche se sembra triste, è una cosa che una sola volta nella vita, in stato di coscienza e lucidità tutti dovrebbero fare.
Oggi dirò cosa fare se.
E se questa cosa rattristerà qualcuno, me ne fotto.
Quello che pagherei io, nel caso ci fossero un giorno dubbi sulla mia volontà, non è nulla in confronto.
Staccate la spina.
E se non ve lo consentiranno inciampate nel filo.
E se non ve lo consentiranno fate lo sgambetto al medico facendolo cadere sul filo.
E se vi controlleranno a vista appoggiatevi al letto come per farmi una carezza e premete col gomito il tubo della flebo il tempo necessario, una frazione di secondo, per formare nel flusso del liquido una piccolissima ma definitiva bolla d’aria.
E fatelo per me.
E fatelo sapendo che è quello che desidero.
E se in quel momento cortei di persone si metteranno a confondervi le idee inscenando veglie di preghiera per me, fottetevene.
E se decine di persone si incerotteranno la bocca per convincervi che solo Dio può decidere di togliermi la vita, dite loro di impegnare il loro tempo nei loro affari, nelle loro menate quotidiane, nell’educazione dei loro figli, nell’estinzione del loro mutuo, nel nascondere i loro scheletri.
Qualsiasi cosa basta che non si facciano i cazzi miei.
Non date loro la possibilità di farmi impersonare l’alibi per i loro errori.
Non permettete loro di interessarsi a me, perché quella che per loro è una battaglia ideologica dello stesso valore della difesa della pelliccia delle foche, per me significherà sofferenza.
Non date loro la possibilità di firmare col mio nome il loro biglietto per il paradiso.
E se fior di teologi impegneranno i loro preziosi giorni in dibattiti televisivi il cui unico scopo è infilare il loro credo anche nella mia vita, nonostante io l’abbia spesa per tenerli al di fuori, impediteglielo con tutte le vostre forze.
Dite loro che non mi interessa il loro parere.
Dite loro che non ho chiesto il loro aiuto.
Spegnetemi.
Non lasciate che la mia vita diventi merce di scambio.
Non condannatemi a guardare il soffitto di una stanza per il resto della mia vita.
E se per caso il dilemma riguardasse il fatto che l’eventuale malattia mi avrà tolto l’uso dei muscoli ma non quello della coscienza, se per caso il mio essere malato non riguarderà la lucidità mentale, allora sappiate che per me la sofferenza sarà doppia.
E se loro diranno che ancora sorrido, se diranno che non muovo più un muscolo ma il cervello ancora funziona, ancora di più combattete per spegnermi.
Perché per me la condanna sarà ancora più dura.
Perché vorrà dire che avrò la capacità di rendermi conto che sto vivendo quella che non sarà una vita.
E io quella vita non la voglio vivere.
E non titubate di fronte ai miei occhi.
Se vi troverete a dover interpretare il mio battito di palpebre, se dovrete scegliere se chiudendole avrò detto “Si” oppure “No” oppure “grazie”, sappiate che quelle palpebre staranno dicendo solo “basta”.
E se le chiuderò un’altra volta vi starò dicendo anche “per favore” oltre che “basta”.
E non fatevi scrupoli.
Sarà proprio il mio essere cosciente, il motivo per il quale dovrete scegliere di spegnermi.
Non obbligatemi a rendermi conto per uno, dieci, venti anni, che il mio mondo sarà circoscritto nell’area di un lenzuolo.
Non condannatemi a tanto.
Quella sarebbe la vera sofferenza.
E se per caso non dovessi nemmeno essere cosciente, allora ancora di più, spegnetemi.
Perché amo chi mi starebbe accanto.
E alle persone che amo io non vorrei mai regalare anni di sofferenza.
E non mi interessa avere qualcuno che mi fa fare ginnastica per gambe che comunque non userò mai.
E non voglio che la fine della mia vita sia la fine anche della vita delle persone che amo.
Vivete.
Spegnetemi e vivete al posto mio.
Non voglio che il salotto della casa dove sono cresciuto si trasformi in una stanza d’ospedale per il resto della mia vita.
Metteteci una mia foto, al massimo, e ricordatemi quando correvo, quando pattinavo, quando sorridevo, quando amavo.
E se per caso qualche pezzo di me dovesse risultare ancora utilizzabile, non esitate a regalarlo.
E quello che avanza riducetelo in polvere.
Perché io non sono un’anima che si porta in giro un corpo.
Io sono un corpo.
Io sono le mie mani, io sono il mio cuore, io sono i miei occhi.
E le mie mani sono cresciute toccando, penetrando, graffiando, non possono vivere altrimenti.
E il mio cuore è cresciuto emozionandosi, scoppiando, rallentando, sanguinando, non potrebbe vivere altrimenti.
E i miei occhi hanno visto il mondo, hanno pianto per amore, si sono gonfiati per l’emozione, hanno cercato la bellezza in ogni stronzissimo battito di ciglia, non vogliono altro.
E se io non sarò più in grado di portarli in giro per il mondo, che sia qualcun altro a farlo.
Non togliete anche a loro la possibilità di vivere.
Non togliete al mio cuore la possibilità di amare, non impedite ai miei polmoni di farsi ancora canne, lasciate al mio fegato la possibilità di filtrare ancora un buon rhum cubano, una grappa morbida della Valtellina.
E se ve lo consentiranno, anche i miei capelli regalate, perché siano ancora una volta accarezzati.
La mia vita serve solo a rendere onore a tutto questo.
Ha senso solo se potrò avere tutto questo.
E a tutti quelli che diranno che solo dio dà la vita e solo dio può toglierla, tu, mamma, fatti guerriero per me.
Perché la vita me l’hai data tu, non dio.
E me l’hai data, non me l’hai prestata.
Ora è mia.
E io voglio farne ciò che ritengo giusto per me, non per la chiesa, non per la coscienza di cento, mille, centomila stronzi che domani, finita l’ennesima battaglia alla moda, a differenza di me potranno andare al mare a nuotare, potranno tenere in braccio il loro figlio, potranno scopare, potranno fare tutto ciò che secondo loro io dovrò solo immaginare da quel giorno in poi immobilizzato in un letto.
Nemmeno guardare.
Solo pensare.
Immaginare.
Ricordare.
Dio che condanna sarebbe.
Guardami quel giorno, se mai dovesse capitare.
Pensa a me, a tutto quello che hai letto di me, a tutte le emozioni grazie alle quali ho vissuto, alle mie donne, ai miei amici, al cibo, al buon vino, alle giornate al mare, alla tavola della nonna, ai natali in famiglia, a quando ballavo da piccolo, a quando ho pianto da grande, alle ginocchia sbucciate, ai treni presi, ai regali scartati, ai fiori comprati, alle battaglie combattute, alle paure sconfitte, alla chitarra suonata, ai bei voti presi a scuola, ai vestiti che mi andavano grandi.
Guardami quel giorno.
E ricordati che per me, vivere, vuol dire tutto questo.
Vuol dire pelle d’oca, vuol dire sapori, vuol dire profumi, vuol dire emozioni.
E se ti diranno che l’espressione che vedi sul mio viso è un sorriso, e quindi coscienza, rispondi loro che no.
Non è coscienza.
Quel sorriso, quel giorno, significherà soltanto ”Grazie”
Per quello che è stato.
E perché mi darai la possibilità di non soffrire più.
Quel sorriso sarà soltanto la certezza che tu, almeno tu, non mi costringerai a soffrire ulteriormente.
E per quel sollievo io sorriderò.
Perché saprò che almeno su di te potrò contare.
E perché saprò che la tua vicinanza significherà che tutto quell’orrenda vita starà finalmente per finire.
Non mi abbandonare, quel giorno.
Fai quello per cui mi hai creato.
Fammi felice.
Dammi un bacio sulla fronte e spegnimi come mi hai acceso.
Con amore.
Non chiedo altro.
Questo è un testamento biologico.
Scritto e salvato su un server attraverso password che solo io conosco.
E secondo le nuove leggi che regolano internet, se non sbaglio, ha valore legale.
La cronaca porta a parlarne, il cinema porta a parlarne, le notizie portano a parlarne.
Però si tende a spersonalizzarlo, se mi è concesso il termine.
Per paura, per scaramanzia.
Il più delle volte solo perché si pensa che non sia bello parlarne su se stessi, perché spunterebbe subito chi dice
“Eh… porta sfiga!” oppure “Ma no, a me non può succedere”.
E invece può succedere.
E allora per una volta faccio un uso vero di questo inutile mezzo.
E metto nero su bianco una cosa che magari, chissà, domani potrei non poter dire.
Perché checchè se ne dica, domani potrei non poterlo esprimere.
E so che mi pentirei di non aver approfittato di quest’occasione per farlo.
Di che si parla?
Di eutanasia.
Nelle prossime righe metto nero su bianco quello che voglio, quello che penso, quello che chi mi ama dovrà fare per me, se mai mi trovassi a non poter dire ciò che desidero.
Per questo motivo chi si è connesso sperando di trovare “Io stamattina alzato e fatto colazione ke figa quella tipa” non vada oltre.
Oggi dico una cosa che, anche se sembra triste, è una cosa che una sola volta nella vita, in stato di coscienza e lucidità tutti dovrebbero fare.
Oggi dirò cosa fare se.
E se questa cosa rattristerà qualcuno, me ne fotto.
Quello che pagherei io, nel caso ci fossero un giorno dubbi sulla mia volontà, non è nulla in confronto.
Staccate la spina.
E se non ve lo consentiranno inciampate nel filo.
E se non ve lo consentiranno fate lo sgambetto al medico facendolo cadere sul filo.
E se vi controlleranno a vista appoggiatevi al letto come per farmi una carezza e premete col gomito il tubo della flebo il tempo necessario, una frazione di secondo, per formare nel flusso del liquido una piccolissima ma definitiva bolla d’aria.
E fatelo per me.
E fatelo sapendo che è quello che desidero.
E se in quel momento cortei di persone si metteranno a confondervi le idee inscenando veglie di preghiera per me, fottetevene.
E se decine di persone si incerotteranno la bocca per convincervi che solo Dio può decidere di togliermi la vita, dite loro di impegnare il loro tempo nei loro affari, nelle loro menate quotidiane, nell’educazione dei loro figli, nell’estinzione del loro mutuo, nel nascondere i loro scheletri.
Qualsiasi cosa basta che non si facciano i cazzi miei.
Non date loro la possibilità di farmi impersonare l’alibi per i loro errori.
Non permettete loro di interessarsi a me, perché quella che per loro è una battaglia ideologica dello stesso valore della difesa della pelliccia delle foche, per me significherà sofferenza.
Non date loro la possibilità di firmare col mio nome il loro biglietto per il paradiso.
E se fior di teologi impegneranno i loro preziosi giorni in dibattiti televisivi il cui unico scopo è infilare il loro credo anche nella mia vita, nonostante io l’abbia spesa per tenerli al di fuori, impediteglielo con tutte le vostre forze.
Dite loro che non mi interessa il loro parere.
Dite loro che non ho chiesto il loro aiuto.
Spegnetemi.
Non lasciate che la mia vita diventi merce di scambio.
Non condannatemi a guardare il soffitto di una stanza per il resto della mia vita.
E se per caso il dilemma riguardasse il fatto che l’eventuale malattia mi avrà tolto l’uso dei muscoli ma non quello della coscienza, se per caso il mio essere malato non riguarderà la lucidità mentale, allora sappiate che per me la sofferenza sarà doppia.
E se loro diranno che ancora sorrido, se diranno che non muovo più un muscolo ma il cervello ancora funziona, ancora di più combattete per spegnermi.
Perché per me la condanna sarà ancora più dura.
Perché vorrà dire che avrò la capacità di rendermi conto che sto vivendo quella che non sarà una vita.
E io quella vita non la voglio vivere.
E non titubate di fronte ai miei occhi.
Se vi troverete a dover interpretare il mio battito di palpebre, se dovrete scegliere se chiudendole avrò detto “Si” oppure “No” oppure “grazie”, sappiate che quelle palpebre staranno dicendo solo “basta”.
E se le chiuderò un’altra volta vi starò dicendo anche “per favore” oltre che “basta”.
E non fatevi scrupoli.
Sarà proprio il mio essere cosciente, il motivo per il quale dovrete scegliere di spegnermi.
Non obbligatemi a rendermi conto per uno, dieci, venti anni, che il mio mondo sarà circoscritto nell’area di un lenzuolo.
Non condannatemi a tanto.
Quella sarebbe la vera sofferenza.
E se per caso non dovessi nemmeno essere cosciente, allora ancora di più, spegnetemi.
Perché amo chi mi starebbe accanto.
E alle persone che amo io non vorrei mai regalare anni di sofferenza.
E non mi interessa avere qualcuno che mi fa fare ginnastica per gambe che comunque non userò mai.
E non voglio che la fine della mia vita sia la fine anche della vita delle persone che amo.
Vivete.
Spegnetemi e vivete al posto mio.
Non voglio che il salotto della casa dove sono cresciuto si trasformi in una stanza d’ospedale per il resto della mia vita.
Metteteci una mia foto, al massimo, e ricordatemi quando correvo, quando pattinavo, quando sorridevo, quando amavo.
E se per caso qualche pezzo di me dovesse risultare ancora utilizzabile, non esitate a regalarlo.
E quello che avanza riducetelo in polvere.
Perché io non sono un’anima che si porta in giro un corpo.
Io sono un corpo.
Io sono le mie mani, io sono il mio cuore, io sono i miei occhi.
E le mie mani sono cresciute toccando, penetrando, graffiando, non possono vivere altrimenti.
E il mio cuore è cresciuto emozionandosi, scoppiando, rallentando, sanguinando, non potrebbe vivere altrimenti.
E i miei occhi hanno visto il mondo, hanno pianto per amore, si sono gonfiati per l’emozione, hanno cercato la bellezza in ogni stronzissimo battito di ciglia, non vogliono altro.
E se io non sarò più in grado di portarli in giro per il mondo, che sia qualcun altro a farlo.
Non togliete anche a loro la possibilità di vivere.
Non togliete al mio cuore la possibilità di amare, non impedite ai miei polmoni di farsi ancora canne, lasciate al mio fegato la possibilità di filtrare ancora un buon rhum cubano, una grappa morbida della Valtellina.
E se ve lo consentiranno, anche i miei capelli regalate, perché siano ancora una volta accarezzati.
La mia vita serve solo a rendere onore a tutto questo.
Ha senso solo se potrò avere tutto questo.
E a tutti quelli che diranno che solo dio dà la vita e solo dio può toglierla, tu, mamma, fatti guerriero per me.
Perché la vita me l’hai data tu, non dio.
E me l’hai data, non me l’hai prestata.
Ora è mia.
E io voglio farne ciò che ritengo giusto per me, non per la chiesa, non per la coscienza di cento, mille, centomila stronzi che domani, finita l’ennesima battaglia alla moda, a differenza di me potranno andare al mare a nuotare, potranno tenere in braccio il loro figlio, potranno scopare, potranno fare tutto ciò che secondo loro io dovrò solo immaginare da quel giorno in poi immobilizzato in un letto.
Nemmeno guardare.
Solo pensare.
Immaginare.
Ricordare.
Dio che condanna sarebbe.
Guardami quel giorno, se mai dovesse capitare.
Pensa a me, a tutto quello che hai letto di me, a tutte le emozioni grazie alle quali ho vissuto, alle mie donne, ai miei amici, al cibo, al buon vino, alle giornate al mare, alla tavola della nonna, ai natali in famiglia, a quando ballavo da piccolo, a quando ho pianto da grande, alle ginocchia sbucciate, ai treni presi, ai regali scartati, ai fiori comprati, alle battaglie combattute, alle paure sconfitte, alla chitarra suonata, ai bei voti presi a scuola, ai vestiti che mi andavano grandi.
Guardami quel giorno.
E ricordati che per me, vivere, vuol dire tutto questo.
Vuol dire pelle d’oca, vuol dire sapori, vuol dire profumi, vuol dire emozioni.
E se ti diranno che l’espressione che vedi sul mio viso è un sorriso, e quindi coscienza, rispondi loro che no.
Non è coscienza.
Quel sorriso, quel giorno, significherà soltanto ”Grazie”
Per quello che è stato.
E perché mi darai la possibilità di non soffrire più.
Quel sorriso sarà soltanto la certezza che tu, almeno tu, non mi costringerai a soffrire ulteriormente.
E per quel sollievo io sorriderò.
Perché saprò che almeno su di te potrò contare.
E perché saprò che la tua vicinanza significherà che tutto quell’orrenda vita starà finalmente per finire.
Non mi abbandonare, quel giorno.
Fai quello per cui mi hai creato.
Fammi felice.
Dammi un bacio sulla fronte e spegnimi come mi hai acceso.
Con amore.
Non chiedo altro.
Questo è un testamento biologico.
Scritto e salvato su un server attraverso password che solo io conosco.
E secondo le nuove leggi che regolano internet, se non sbaglio, ha valore legale.
19 marzo 2005
Dadi
Ogni anno, il 19 marzo, la stessa domanda.
L’avrai fatto apposta a farmi ricevere la telefonata che mi annunciava la tua dipartita proprio il giorno della festa del papà?
Non so, mi sembra tanto lo scherzo finale.
Troppo perfetto per essere casuale.
Così ogni anno, il 19 marzo, non so mai se essere triste perché non ci sei più o se essere incazzato perché ti se rubato la ricorrenza trasformandola in anniversario.
In ogni caso, sempre di più, sono convinto che il 1 aprile sarebbe stato più azzeccato.
Io stasera andrò a cena fuori con gli amici perché, sai, io sto bene.
Cioè, meglio.
Nel senso, risolto.
Insomma, elaborato.
Vabbè.
Auguri, papà.
Il vero scherzo, forse, sono io.
E infatti mi sono tanto simpatico.
Sapessi le risate.
Auguri.
O ciao.
Ogni anno lo stesso dubbio.
L’avrai fatto apposta a farmi ricevere la telefonata che mi annunciava la tua dipartita proprio il giorno della festa del papà?
Non so, mi sembra tanto lo scherzo finale.
Troppo perfetto per essere casuale.
Così ogni anno, il 19 marzo, non so mai se essere triste perché non ci sei più o se essere incazzato perché ti se rubato la ricorrenza trasformandola in anniversario.
In ogni caso, sempre di più, sono convinto che il 1 aprile sarebbe stato più azzeccato.
Io stasera andrò a cena fuori con gli amici perché, sai, io sto bene.
Cioè, meglio.
Nel senso, risolto.
Insomma, elaborato.
Vabbè.
Auguri, papà.
Il vero scherzo, forse, sono io.
E infatti mi sono tanto simpatico.
Sapessi le risate.
Auguri.
O ciao.
Ogni anno lo stesso dubbio.
1 marzo 2005
Auguri Vale
Il mio compito era occuparmi delle candeline.
Di fronte alla vetrina ho avuto difficoltà a ricordare quanti anni facevi.
Ho chiamato mamma e lei mi ha detto “Eh, uno più di te, no?”.
Ho capito perché ha chiesto a me di occuparmi delle candeline.
Solo che ho avuto difficoltà anche a ricordare i miei.
Ho tagliato corto e ho comprato tre numeri.
Tra l’altro così siamo a posto anche per il prossimo, il mio.
Io sono quello che ne ha uno in meno.
Trovo che i margini di errore siano l’invenzione del secolo.
Ho comprato le candeline
Hai detto “Che palle, anche le candeline”.
Ti ho comprato un lettore cd
Hai detto “io non ascolto cd ascolto solo la radio”.
Posso mai non essere serio quando ti dico che davvero non mi aspetto più un grazie per averti comprato una macchina, per averti pagato l’affitto per mesi, per averti pagato i conti nei bar, per averti staccato assegni in bianco per coprire i tuoi debiti, per averti mantenuto per anni?
Fidati, vederti star bene è diventato realmente l’unico desiderio.
Comunque, dovunque e con chiunque tu voglia star bene.
Auguri Vale.
Di fronte alla vetrina ho avuto difficoltà a ricordare quanti anni facevi.
Ho chiamato mamma e lei mi ha detto “Eh, uno più di te, no?”.
Ho capito perché ha chiesto a me di occuparmi delle candeline.
Solo che ho avuto difficoltà anche a ricordare i miei.
Ho tagliato corto e ho comprato tre numeri.
Tra l’altro così siamo a posto anche per il prossimo, il mio.
Io sono quello che ne ha uno in meno.
Trovo che i margini di errore siano l’invenzione del secolo.
Ho comprato le candeline
Hai detto “Che palle, anche le candeline”.
Ti ho comprato un lettore cd
Hai detto “io non ascolto cd ascolto solo la radio”.
Posso mai non essere serio quando ti dico che davvero non mi aspetto più un grazie per averti comprato una macchina, per averti pagato l’affitto per mesi, per averti pagato i conti nei bar, per averti staccato assegni in bianco per coprire i tuoi debiti, per averti mantenuto per anni?
Fidati, vederti star bene è diventato realmente l’unico desiderio.
Comunque, dovunque e con chiunque tu voglia star bene.
Auguri Vale.
17 febbraio 2005
Parì
L’altro giorno alla consierge mi hanno chiesto di te.
“’till Friday, Sir?”
Stamattina a colazione mi hanno chiesto di te.
“Juice, messiè?”
Stasera un cameriere mi ha chiesto di te.
“Espresso?”
Tutta Parigi mi chiede di te.
“’till Friday, Sir?”
Stamattina a colazione mi hanno chiesto di te.
“Juice, messiè?”
Stasera un cameriere mi ha chiesto di te.
“Espresso?”
Tutta Parigi mi chiede di te.
11 febbraio 2005
Bambini
Tra le tante conseguenze oltre le (mie) aspettative, del post di ieri, tra le quali non manco di ricordare l’aver colorato le pareti di una casa che prima o poi mi auguro di visitare (avrei potuto scrivere “della casa di una persona che prima o poi mi auguro di visitare” ma sono certo che avrei generato uno scomodo malinteso lessicale), c’è che la storia della lavatrice, grazie alla maestra C. si è trasformata in una domanda fatta ai bimbi di una seconda elementare.
Data l’importanza dell’evento mi permetto di sottolineare per un attimo solo, la cosa.
Lo sapevate che la storia della lavatrice si è trasformata in una domanda fatta ai bimbi di una seconda elementare?
La maestra C.:
“TU che tipo di bambino sei?”
I risultati:
“Le femmine sono bambine radio, lavagna, finestra, spugna, comodino.
I maschi sono bambini robot, missile, macchina da corsa, vasca da bagno, telefonino.
La vasca da bagno è il bambino più attualmente amato nel senso di ricercato dalle femmine.
Mi chiedevo da tempo che cosa avesse che le attirasse tanto...
Gli altri confermano velocità, trasformazione, energia ,appendici allungabili che arrivano fin sulla Luna quali attinenze maschili.
Le femmine appaiono contenitori, assorbenti, tabule rase, chiusure apribili...”
Come ho risposto a lei, vasca da bagno ha del genio in sé.
Secondo me ha anche ammiccato mentre rispondeva.
Proviamo a fare un atro gioco.
Radio è seduta in terza fila.
Lavagna ha i capelli lisci legati.
Spugna dimostra meno dell’età che ha.
Comodino non parla volentieri.
Robot ascolta sempre la lezione.
>Missile scrive bene i temi.
>Macchina da corsa ha gli occhiali.
Vasca da bagno, sul mito non si aggiunge nulla.
Telefonino ricorda bene solo due cose su dieci spiegate.
Come sono andato?
Ma la maestra C. è andata avanti nel gioco.
“Non so se ti serva, ma la "seconda" è giunta a queste conclusioni. Dopo aver letto metà racconto ho posto questa domanda:
COME MAI "LAVATRICE" NONOSTANTE L'IMPEGNO NON RIUSCIVA A LAVARE BENE?
COSA AVREBBE POTUTO FARE?
Queste le risposte.
1- Doveva impegnarsi ancora di più.
2- Doveva riposarsi un po' di più.
3- Aveva troppa fretta.
4- Si doveva far vedere da un dottore.
5- Aveva troppa paura che i panni non gli venissero puliti.
6- Non sapeva regolare la velocità.
7- Aveva paura di rovinare la sua lavatrice.
8- Sbagliava a mischiare le cose da lavare.
9- Era una macchina rotta, mal funzionante e l'impegno non bastava.”
Certo che mi serve.
Come si dice… La voce dell’innocenza.
Data l’importanza dell’evento mi permetto di sottolineare per un attimo solo, la cosa.
Lo sapevate che la storia della lavatrice si è trasformata in una domanda fatta ai bimbi di una seconda elementare?
La maestra C.:
“TU che tipo di bambino sei?”
I risultati:
“Le femmine sono bambine radio, lavagna, finestra, spugna, comodino.
I maschi sono bambini robot, missile, macchina da corsa, vasca da bagno, telefonino.
La vasca da bagno è il bambino più attualmente amato nel senso di ricercato dalle femmine.
Mi chiedevo da tempo che cosa avesse che le attirasse tanto...
Gli altri confermano velocità, trasformazione, energia ,appendici allungabili che arrivano fin sulla Luna quali attinenze maschili.
Le femmine appaiono contenitori, assorbenti, tabule rase, chiusure apribili...”
Come ho risposto a lei, vasca da bagno ha del genio in sé.
Secondo me ha anche ammiccato mentre rispondeva.
Proviamo a fare un atro gioco.
Radio è seduta in terza fila.
Lavagna ha i capelli lisci legati.
Spugna dimostra meno dell’età che ha.
Comodino non parla volentieri.
Robot ascolta sempre la lezione.
>Missile scrive bene i temi.
>Macchina da corsa ha gli occhiali.
Vasca da bagno, sul mito non si aggiunge nulla.
Telefonino ricorda bene solo due cose su dieci spiegate.
Come sono andato?
Ma la maestra C. è andata avanti nel gioco.
“Non so se ti serva, ma la "seconda" è giunta a queste conclusioni. Dopo aver letto metà racconto ho posto questa domanda:
COME MAI "LAVATRICE" NONOSTANTE L'IMPEGNO NON RIUSCIVA A LAVARE BENE?
COSA AVREBBE POTUTO FARE?
Queste le risposte.
1- Doveva impegnarsi ancora di più.
2- Doveva riposarsi un po' di più.
3- Aveva troppa fretta.
4- Si doveva far vedere da un dottore.
5- Aveva troppa paura che i panni non gli venissero puliti.
6- Non sapeva regolare la velocità.
7- Aveva paura di rovinare la sua lavatrice.
8- Sbagliava a mischiare le cose da lavare.
9- Era una macchina rotta, mal funzionante e l'impegno non bastava.”
Certo che mi serve.
Come si dice… La voce dell’innocenza.
9 febbraio 2005
La lavatrice
Mario era un bambino fatto a forma di lavatrice.
Quadrato, con un vuoto in mezzo, una finestra di vetro che mostrava i panni sporchi, i tasti per accenderlo e spegnerlo, il pomello per scegliere il programma preferito, il filtro per le impurità.
Tutti gli altri bambini erano fatti a forma di aquilone, a forma di palla, a forma di caramella, a forma di triciclo, a forma di automobile, a forma di orsacchiotto, a forma di videogioco.
Lui era fatto a forma di lavatrice e non sapeva funzionare bene.
E ogni volta che provava non ci riusciva e allora lasciava sempre le cose da lavare nel cestino delle cose da lavare perché diceva che prima o poi sarebbe diventato una bravissima lavatrice e avrebbe lavato tutto più bianco che bianco non si può anche lo sporco impossibile.
E intanto le cose da lavare crescevano e si accumulavano e lui intanto sbagliava i tasti e tutti ridevano perché vedevano attraverso la sua finestra che le cose bianche diventavano colorate e lui diceva “Ma non è uno sbaglio!” e tutti ci credevano ma lui no perché lo sapeva che non erano colorate quando entravano e allora non era contento perché lui voleva che le cose che entravano uscivano più pulite ma uguali.
Le cose colorate le voleva più pulite ma voleva che rimanessero colorate, le cose bianche le voleva più pulite ma voleva che rimanessero bianche, le cose nere le voleva più pulite ma voleva che rimanessero nere, le cose morbide le voleva più pulite ma voleva che rimanessero morbide.
Ma non era ancora tanto bravo e anche se si impegnava certe volte le cose morbide uscivano tutte infeltrite e quelle bianche uscivano tutte colorate e quelle nere uscivano bianche e lui non lo sapeva perché.
E tutti quelli fuori gli dicevano che lui faceva giusto perché guardavano solo la finestra di vetro e dentro si vedevano i panni sporchi che giravano e giravano sempre velocissimi e poi si fermavano e aspettavano il sapone e poi ricominciavano a girare e poi si fermavano ad asciugarsi e tutti dicevano che era così che doveva funzionare e lui allora continuava ma non sapeva perché allora quella maglietta lì non usciva mai bella come quando era entrata e quando gli altri vedevano uscire i panni dalla finestra di vetro ridevano perché lui non era capace.
E intanto gli altri bambini erano tutti diventati grandi e il triciclo era diventato una moto grandissima e l’aquilone era diventato un aereo che volava alto alto, e la caramella era diventata una pasticceria che faceva i dolci buonissimi, e la palla era diventato un pianeta lontanissimo dove andavano le astronavi.
E lui intanto continuava a lavare i suoi panni che continuavano ad essere sempre lì perché ancora non era diventato bravo e lui faceva rumore quando girava e girava e dalla sua finestra certe volte usciva anche l’acqua perché non la aveva chiusa bene come si deve fare quando non si vuole fare uscire niente e l’acqua allagava tutta la casa e tutti ridevano perché dicevano che lui non era tanto bravo come lavatrice ma lui lo sapeva che un giorno sarebbe diventato la lavatrice più brava del mondo.
Passarono gli anni e mentre gli altri volavano alto alto e correvano forte forte e esploravano lo spazio intergalattico lui a furia di provare non era diventato la lavatrice più brava del mondo però provando e provando aveva finito di lavare tutti i panni sporchi che aveva lasciato nel cestino.
E quando ebbe finito tutti tornarono nella loro casa e il pilota scese dall’aereo e tornò nella sua casa di pilota e il motociclista scese dalla moto e tornò nella sua casa di motociclista e l’astronauta scese dall’astronave e tornò alla base spaziale e tutti si tolsero la tuta che avevano addosso e si accorsero che era tutta sporca perché loro avevano fatto tante cose ma non avevano mai imparato a lavarla e allora la pubblicità disse loro “Ehi! Compra la lavatrice più brava del mondo! Costa poco!” ma non avevano i soldi perché la benzina dell’aereo costava tantissimo e la benzina della moto costava tantissimo e la benzina dell’astronave costava tantissimo e allora tutti andarono da lui e gli chiesero se poteva lavare la loro tuta perché lui era diventato capace e loro no e che non avevano i soldi perché li avevano spesi tutti per la benzina e allora lui disse loro si perché tanto non aveva più panni sporchi suoi da lavare perché era diventato capace e allora gli lavò le tute e loro per ringraziarlo lo portarono un giorno a fare una corsa in moto un giorno a volare in alto e un altro giorno nello spazio intergalattico.
E così lui quando diventò grande disse a suo figlio di non vergognarsi se tutti guardavano le cose che non riusciva a lavare dalla finestra di vetro che aveva addosso, e che doveva continuare a provare lo stesso a imparare a lavarle perché quelli che fuori lo guardavano e ridevano un giorno sarebbero tornati da lui e in cambio di quello che aveva imparato lo avrebbero fatto volare, lo avrebbero fatto correre in moto e gli avrebbero fatto vedere lo spazio intergalattico.
Che era per quello che non servivano i soldi per volare sull’astronave intergalattica.
Che bastava trovare un amico astronauta.
A Mario Bros.
A quando si è convinto che per avere i vestiti bianchi bisogna comprarli.
A quando si è dimenticato che anche senza soldi noi avevamo i vestiti sempre bianchi.
A quando bastava lavarli per vestirci in due con una tutina sola.
Agli amici sbagliati.
Quelli che non sanno lavare.
Quelli che non sanno volare se non hanno la tuta nuova addosso.
Quelli che l’astronave glie l’ha comprata papà.
Quadrato, con un vuoto in mezzo, una finestra di vetro che mostrava i panni sporchi, i tasti per accenderlo e spegnerlo, il pomello per scegliere il programma preferito, il filtro per le impurità.
Tutti gli altri bambini erano fatti a forma di aquilone, a forma di palla, a forma di caramella, a forma di triciclo, a forma di automobile, a forma di orsacchiotto, a forma di videogioco.
Lui era fatto a forma di lavatrice e non sapeva funzionare bene.
E ogni volta che provava non ci riusciva e allora lasciava sempre le cose da lavare nel cestino delle cose da lavare perché diceva che prima o poi sarebbe diventato una bravissima lavatrice e avrebbe lavato tutto più bianco che bianco non si può anche lo sporco impossibile.
E intanto le cose da lavare crescevano e si accumulavano e lui intanto sbagliava i tasti e tutti ridevano perché vedevano attraverso la sua finestra che le cose bianche diventavano colorate e lui diceva “Ma non è uno sbaglio!” e tutti ci credevano ma lui no perché lo sapeva che non erano colorate quando entravano e allora non era contento perché lui voleva che le cose che entravano uscivano più pulite ma uguali.
Le cose colorate le voleva più pulite ma voleva che rimanessero colorate, le cose bianche le voleva più pulite ma voleva che rimanessero bianche, le cose nere le voleva più pulite ma voleva che rimanessero nere, le cose morbide le voleva più pulite ma voleva che rimanessero morbide.
Ma non era ancora tanto bravo e anche se si impegnava certe volte le cose morbide uscivano tutte infeltrite e quelle bianche uscivano tutte colorate e quelle nere uscivano bianche e lui non lo sapeva perché.
E tutti quelli fuori gli dicevano che lui faceva giusto perché guardavano solo la finestra di vetro e dentro si vedevano i panni sporchi che giravano e giravano sempre velocissimi e poi si fermavano e aspettavano il sapone e poi ricominciavano a girare e poi si fermavano ad asciugarsi e tutti dicevano che era così che doveva funzionare e lui allora continuava ma non sapeva perché allora quella maglietta lì non usciva mai bella come quando era entrata e quando gli altri vedevano uscire i panni dalla finestra di vetro ridevano perché lui non era capace.
E intanto gli altri bambini erano tutti diventati grandi e il triciclo era diventato una moto grandissima e l’aquilone era diventato un aereo che volava alto alto, e la caramella era diventata una pasticceria che faceva i dolci buonissimi, e la palla era diventato un pianeta lontanissimo dove andavano le astronavi.
E lui intanto continuava a lavare i suoi panni che continuavano ad essere sempre lì perché ancora non era diventato bravo e lui faceva rumore quando girava e girava e dalla sua finestra certe volte usciva anche l’acqua perché non la aveva chiusa bene come si deve fare quando non si vuole fare uscire niente e l’acqua allagava tutta la casa e tutti ridevano perché dicevano che lui non era tanto bravo come lavatrice ma lui lo sapeva che un giorno sarebbe diventato la lavatrice più brava del mondo.
Passarono gli anni e mentre gli altri volavano alto alto e correvano forte forte e esploravano lo spazio intergalattico lui a furia di provare non era diventato la lavatrice più brava del mondo però provando e provando aveva finito di lavare tutti i panni sporchi che aveva lasciato nel cestino.
E quando ebbe finito tutti tornarono nella loro casa e il pilota scese dall’aereo e tornò nella sua casa di pilota e il motociclista scese dalla moto e tornò nella sua casa di motociclista e l’astronauta scese dall’astronave e tornò alla base spaziale e tutti si tolsero la tuta che avevano addosso e si accorsero che era tutta sporca perché loro avevano fatto tante cose ma non avevano mai imparato a lavarla e allora la pubblicità disse loro “Ehi! Compra la lavatrice più brava del mondo! Costa poco!” ma non avevano i soldi perché la benzina dell’aereo costava tantissimo e la benzina della moto costava tantissimo e la benzina dell’astronave costava tantissimo e allora tutti andarono da lui e gli chiesero se poteva lavare la loro tuta perché lui era diventato capace e loro no e che non avevano i soldi perché li avevano spesi tutti per la benzina e allora lui disse loro si perché tanto non aveva più panni sporchi suoi da lavare perché era diventato capace e allora gli lavò le tute e loro per ringraziarlo lo portarono un giorno a fare una corsa in moto un giorno a volare in alto e un altro giorno nello spazio intergalattico.
E così lui quando diventò grande disse a suo figlio di non vergognarsi se tutti guardavano le cose che non riusciva a lavare dalla finestra di vetro che aveva addosso, e che doveva continuare a provare lo stesso a imparare a lavarle perché quelli che fuori lo guardavano e ridevano un giorno sarebbero tornati da lui e in cambio di quello che aveva imparato lo avrebbero fatto volare, lo avrebbero fatto correre in moto e gli avrebbero fatto vedere lo spazio intergalattico.
Che era per quello che non servivano i soldi per volare sull’astronave intergalattica.
Che bastava trovare un amico astronauta.
A Mario Bros.
A quando si è convinto che per avere i vestiti bianchi bisogna comprarli.
A quando si è dimenticato che anche senza soldi noi avevamo i vestiti sempre bianchi.
A quando bastava lavarli per vestirci in due con una tutina sola.
Agli amici sbagliati.
Quelli che non sanno lavare.
Quelli che non sanno volare se non hanno la tuta nuova addosso.
Quelli che l’astronave glie l’ha comprata papà.
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