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27 dicembre 2017

Ombra


Quella da due giorni, quella da cinque, quella da dieci in poi, a separarle lo spazio fisico proporzionale al tempo che passa tra una e l'altra, artisti norvegesi la venderebbero come design battezzandole Armadjieff Orizzuntili, l'unica cautela è non variare latitudine o farlo per un tempo sufficiente a dimenticare quella di provenienza.
mi offrono un incarico di responsabilità portare questa nave verso una rotta che nessuno sa, è la mia età a mezz'aria in questa condizione di stabilità precaria
Daniele mi chiede cosa deve avere la mia prossima terra per essere la mia prossima terra e chiude in quell'incarto i perché i silenziosi siano i migliori interlocutori, lo stimai anni fa quando su un divano vidi il silenzio di cui io non sono mai stato capace e dissi lui capirà, lui sta già capendo, lui un giorno spiegherà persino a me e oggi eccoti, ti aspettavo. 
Mi ferisce volutamente mostrandomi finto il sottile filo che in quel momento dopo non sa quanti anni mi ha portato vicina la famiglia e se sapesse quanto per me è resistente quel filo che al mondo appare sottile, scioccamente posticcio, saprebbe perché non sento il colpo, i silenziosi sanno essere cattivi ma mai gratuitamente, i nemici vanno scelti con più cura degli amici, a lui il lusso di colpirmi senza vedere i miei canini, lui può, sì è "invidia" la mia, quello che non sai è che nella volontà di schiacciarmi mi riveli che la mia ammissione è rimasta segreta e in quel momento ti vorrei abbracciare e dirti solo "Vorrei che la provassi anche solo per un istante" così che ne senta la bellezza e mai più la usi per colpire.
ipnotizzato dalle pale di un ventilatore sul soffitto mi giro e mi rigiro sul mio letto mi muovo col passo pesante in questa stanza umida di un porto che non ricordo il nome
il fondo del caffè confonde il dove e il come e per la prima volta so cos'è la nostalgia la commozione nel mio bagaglio panni sporchi di navigazione per ogni strappo un porto per ogni porto in testa una canzone
La scelta di non tornare se non necessario che sta caratterizzando ogni volta di più i miei viaggi rende la dimensione del bagaglio non più parametrata solo sui giorni ma anche sul pezzo di cuore che approfitto per portare, prendere, abbracciare.
Vado per fare l'amore e invece dormo, l'amore l'avevamo già fatto quello che non avevamo fatto era dormire e allora riempiamolo tutto con la novità questo tempo, dormiamo tanto, dormiamo tutto, svegliamoci per un secondo e non cerchiamo porte. 

è dolce stare in mare quando son gli altri a far la direzione senza preoccupazione soltanto fare ciò che c'è da fare e cullati dall'onda notturna sognare la mamma, il mare

Mi offrono un incarico di responsabilità mi hanno detto che una nave c'ha bisogno di un comandante mi hanno detto che la paga è interessante e che il carico è segreto ed importante
Nell'ultimo mese mi sono innamorato quattro volte, media stagionale, tutte e quattro impossibili, media esistenziale, negli anni sviluppata la vera eccellenza, olimpionica capacità di metterti le mani sotto il vestito soltanto pensandolo, il pensiero è più potente del gesto, il pensiero opposto più invalicabile di qualsiasi schiaffo, siamo ormoni che viaggiano, se c'è ossigeno nella distanza è perché viene lasciato, se viene lasciato non c'è muro, se non c'è muro il pensiero va e non trova ostacolo, sì quella cosa che mi hai letto negli occhi erano mani.
il pensiero della responsabilità si è fatto grosso è come dover saltare al di là di un fosso che mi divide dai tempi spensierati di un passato che è passato
Saltare verso il tempo indefinito dell'essere adulto. Di fronte a me la nebbia mi nasconde la risposta alla mia paura cosa sarò dove mi condurrà la mia natura?
La fallibilità rivelata alleggerisce e solleva, chiedere coordinate e vedere il timore nelle risposte, il dubbio che il me vendicativo stia recitando la parte del me smarrito solo per accelerare i processi di selezione del prossimo agnello, diffidenza e sospetto il premio di tappa e prendiamoli, ci pensa la mente che controlla spazio e tempo e quando necessario li sospende entrambi, se troppo carica sgancia e libera, l'effetto deresponsabilizzante del distacco dalla percezione del reale è arma a doppio taglio per chi è arrivato fin qui autoassolvendosi da tutto e allora si alzino gli argini e me li si mostrino perché io sono al punto in cui voglio tanti cammelli quante sono le monete comunque pagate, per il solo diritto di provarci, almeno, a farli passare per ogni singola cruna di ogni singolo ago che ogni singolo abbandono mi ha infilato negli occhi, la candela per questo gioco o è votiva o non è, atto di fede e l'ego te absolve.
la faccia di mio padre prende forma sullo specchio lui giovane io vecchio le sue parole che rimbombano dentro al mio orecchio "la vita non è facile ci vuole sacrificio un giorno te ne accorgerai e mi dirai se ho ragione"
Eccomi: avevi ragione.
Avrei solo speso qualche parola in più per contestualizzare il futuro e mostrarmi che il sacrificio sarei stato io, ma facciamo che tra le tante concessioni ti riconosco il diritto a una certa approssimazione.
Nei tuoi limiti rischia di essere stata persino una forma di delicatezza.
provare a immaginare cosa sarò quando avrò attraversato il mare portato questo carico importante a destinazione dove sarò al riparo dal prossimo monsone
Mi offrono un incarico di responsabilità domani andrò giù al porto e gli dirò che sono pronto a partire
Getterò i bagagli in mare studierò le carte e aspetterò di sapere per dove si parte quando si parte e quando passerà il monsone
Dirò levate l'ancora diritta avanti tutta questa è la rotta questa è la direzione questa è la decisione.

26 agosto 2017

Barricati

Mio padre amava bere bene ed era ammirato come Hemingway.

Mio fratello ama bere bene ed è abbracciato come Hemingway.


Io bevo qualsiasi cosa e di Hemingway ho solo letto un libro.

29 ottobre 2016

Non dirgli mai di come è stato bello quella notte al mare

Se questo fosse il vecchio blog stasera porterei tra queste righe tutti i suoi personaggi, per raccontare loro dei cerchi che mi hanno aiutato ad aprire, attraversare e qualche volta chiudere non sempre come avremmo voluto e a volte meritato, altre volte sì.
Mario l'altra sera era insieme a Mario Bros come spesso capita da quando Mario se n'è andato da Milano, il suo lavoro di supereroe sempre in viaggio gli ha insegnato che le distanze non esistono se non nella mente, ogni altra è solo una scelta, una voglia, un metro che puoi moltiplicare per un milione sempre un metro resta e il Per (enne) che fa variabile è quell'istante della vita in cui realizzi che fare un metro e non farlo sono scelte separate solo da un foglio con due colonne, nella prima gli errori commessi, nella seconda lo stesso elenco ma a forma di nomi e il titolo Amici persi per stupidità, perché da giovani ci si pensa capaci di tutto e bisognosi di nessuno e quanto quella sensazione sia il titolo della prima delle due colonne lo si scopre quando l'elenco non potrà mai essere recuperato per intero.
Torino e Milano sono un'unica città, in una vivo nell'altra esco la sera, chi l'avrebbe detto sei anni fa che mi sarei trovato oggi a prendere treni per passare le serate con mio fratello, un passaggio da lei oggi che quel passaggio non ha più un prezzo, accompagnare a casa l'amico dopo aver finalmente accettato i suoi mille inviti per la voglia di raccontarmi cosa fa oggi che ha scelto di fare il salto, andare a leggere nel mio pub abituale che in sei anni non è riuscito a farsi sostituire da analogo torinese e allora cosa si fa, non si può non uscire, si prende un treno e si va a bere una birra a Milano nel pub più familiare del mondo, la città è un'unica città molto grande come nei sogni di chi le progettò entrambe pensando che un giorno si sarebbero espanse così tanto da unirsi ed eccoci qua, è successo.
Mario Bros mi chiede perché non torni a Torino la sera finite le riunioni così risparmierei ristorante e albergo, gli rispondo che se non lavorassi per pagarmi quello che desidero non avrebbe senso il sacrificio che mi richiede e dato che quando esco con lui sto bene fermarmi dà un senso al mio lavoro, ne è felice e lo capisco perché non lo esterna, mezz'ora a offrirci mezzo bicchiere di rhum mi saluta e va a dormire, io mi fermo a godermi la bellezza; quindici anni fa i birilli era erano gli stessi ma disposti esattamente all'opposto, esternava la felicità di stare con me, non lo era, io capivo fischi e bevevamo insieme decine di fiaschi, non dormivamo, morivamo ogni notte e chi non ci riusciva salvava l'altro.
Chiamerei Mario Senior per raccontargli come stia andando il progetto, la fatica di tenere insieme i pezzi, di lavorare sugli altri per impedire che il necessario tempo sommato a quello prevedibilmente imprevisto si faccia distrazione, dissuasione o cambio di direzione, di fare riunioni in cui alzarmi in piedi e recitare il mio show così che l'avvocato sappia, il socio capisca, vedere che l'unica voce dell'elenco dei problemi sembra incredibilmente l'entusiasmo di chiunque arrivato a fine performance scopre che davvero non esista nulla di simile a me in tutta italia e allora chi ci mette i soldi no grazie voglio solo i suoi, chi vorrebbe metterci la sede no grazie dev'essere Torino, chi ci metterebbe la sua assistente e parliamone perché l'ho vista, non mi stava ascoltando mi stava sposando, e quanto cambierebbe idea Mario Senior se vedesse dove si possa arrivare anche senza aver studiato, senza aver avuto nessuno, diavolo davvero nessuno, vicino negli anni in ginocchio a dirmi che ce l'avrei fatta a fare almeno una cosa nella vita come non la fa nessun altro.
Chiamerei lei che queste righe tanti anni fa abitò a forma di violenza, odio, buio della ragione e paura, per farle sapere che il tempo ci ha già perdonati e spiegati, per chiederle se quella foto scattata quindici anni dopo nel suo oggi è il suo racconto di direzioni inevitabili quanto il non poter uscire mai più da corpi amati nell'unico modo possibile e cioè oltre quel buio, oltre quella paura, così oltre qualsiasi ostacolo da raggiungere un cuore che quando ha provato a battere a sincrono non può più smettere di farlo, a meno di farlo rimettendo in scena lo spettacolo o chiudere il sipario e salutare il pubblico.
E chiamerei il Grande Regista Superiore, il personaggio dei personaggi, per chiedergli se sa che così come il mio perdono è arrivato il giorno del mio compleanno, quella foto, l'ho realizzato oggi, è arrivata il giorno del suo.
Domanda inutile, certo che lo sa, non sarebbe altrimenti il Grande Regista Superiore che innegabilmente è.
Quanto sa essere strana la vita quando non vuole smetterla di essere un film, un romanzo, una guerra e una pace.

Di nuovo auguri, Angela.
A te a a lui.


18 febbraio 2016

Pupazzo di nave

Esaurita la carica accumulata nella vacanza-libri di ottobre, rispondo a un novembre/gennaio a dir poco delirante replicando una versione invernale a forma di una fuga in montagna tra alberi, tisane e ancora libri.
L'anno scorso negli stessi giorni avevo letto più del doppio, quest'anno mi distraggo e fisso il vuoto per ore inseguendo un milione di pensieri, non è vero, solo due.

Uno sei tu, che poi è il solito motivo per cui resta spazio per al massimo un altro, posto a tavola per l'occasione occupato da un pensiero colto poco prima di partire, raccontando all'amica tutti quelli legati alla riscrittura da capo del progetto di società, da resettare a causa del fatto che i milanesi incontrati sulla tratta Milano-Londra sono stati più dei londinesi.
Quei pensieri che paiono marginali e invece sono quelli tipicamente sottovalutati fino all'ultimo minuto, quando ci si ritrova costretti a compiere la classica scelta che ama realizzarsi con l'esatta forma della piena consapevolezza che verrà superata dalla sua versione migliore precisamente un minuto dopo il punto di non ritorno e cioè: come la chiamo?
La martellante ridondanza dei due indissolubili pensieri ospiti mi porta a vederli come fossero un commensale che mi guarda e si aspetta da me l'alzata del bicchiere per celebrare con un unico brindisi entrambe le soluzioni, che in una forma meno arzigogolata è un modo per dire che il nome che mi risolverebbe il secondo dilemma si ritrova a essere in maniera insistente lo stesso che mi risolverebbe il primo e cioè il tuo.
Quella che doveva essere risposta unica a un doppia domanda ottiene così il risultato opposto e cioè l'aggiunta a tavola di altri due nuovi pensieri che per la precisione sono:
Uno: non credo che "Diamole il nome di una donna, come fosse una barca!", nonostante sia stato in passato capace di vendere cose anche più azzardate, passerebbe filtri di un destino imprenditoriale che temo non sia il caso di sfidare oltre quanto già fatto.
Due: il giorno che dovrò giocarmi la carta con tuo padre, temo mi converrà scegliere esempi che il sospetto di follia lo moderino, invece di accentuarlo, e non avrò seconde possibilità.

Un libro che in qualche modo parla di mio padre, anche se quelli come lui la guerra l'hanno sempre combattuta dalla parte sbagliata della linea del bene.
Karim è l'unico italiano arruolatosi volontario nell'YPG, la milizia curda impegnata in Siria, alla quale ha voluto unirsi per combattere l'ISIS sul fronte di Kobane e così completare la sua formazione di uomo troppo grande per stare dentro le sole parole di una guerra fino a quel momento combattuta solo con quel se stesso che, orfano di un padre di guerra, lottava per prevalergli e così metterlo a confronto con quello sguardo orgoglioso e paterno che solo la scelta di andare oltre le parole avrebbe potuto decifrargli e, finalmente, regalargli.
Un diario, gelo sangue paura di morire coraggio e infine vita dell'amore di una donna grande quanto un piccolo biglietto conservato all'altezza del cuore e mai aperto, tutto in tre mesi, raccontati nell'unico modo in cui si può raccontare un viaggio non solo interiore di quella potenza e cioè con l'aiuto di un uomo che stava nello stesso mondo iniziando il viaggio peggiore che uomo possa fare e cioè quello che inizia il giorno dopo in cui il telefono squilla e lo informa che suo fratello non c'è più.
C'è, nella prima pagina del libro, una dedica la cui detonante potenza si comprende solo una volta giunti all'ultima pagina del libro.
Vale la pena leggerlo anche solo per quanto grande è ciò da cui si viene invasi quando si chiude quel cerchio, anche se in questo caso essere me ammetto avere un peso, nel senso letterale del termine.

Per un malinteso iniziale la cui soluzione mi avrebbe richiesto più fatica di quanta fin da subito ho capito me ne avrebbe richiesta il sopportarlo, l'unico amico che in questi dieci giorni mi sono fatto e cioè il pizzaiolo siciliano del posto dove cenavo, per dieci giorni mi accoglie ogni sera dal banco forno con un rumoroso "Ciao Calabria!" risultato di uno scambio a tema usato per conoscere un po' questo tipo strano che tutti i giorni entra e per ore se ne sta al tavolo da solo a leggere.
In altri posti e in altri tempi avrei risolto il primo giorno, ma sono in Val d'Aosta, regione per me nuova che mi regala due consapevolezze inattese: il suo essere una montagna meravigliosa e il suo apparire abitata da soli calabresi; la somma delle due rivelazioni mi suggerisce che mi trovo in quella che ha tutti i contorni per essere l'unica occasione nella quale chiamarmi "Calabria" può essere un vantaggio e per questo accetto il battesimo senza opporre resistenza né fastidio, se non nel momento in cui mi rendo conto che la sua dichiarata amicizia mi regala l'astio di tutte e tre le pornografiche tope gentilissime cameriere che muovendosi tra i tavoli hanno riempito per dieci giorni il mio immaginario erotico e che mai quanto dopo avermi visto eletto a suo amico fraterno è diventato tanto immaginario.

Un libro che in qualche modo parla di mio padre, anche se nella parte in cui è lo zio quello che conformista era in grado di esserlo solo a patto che tutti riconoscessero il compromesso.
Lo compro dopo averne sentito parlare da tutti per mesi e già questo avrebbe dovuto farmi intuire la sòla, ma la curiosità generata dalle sintesi dell'idea di base lette in giro è maggiore e decido che sarà in valigia.
Un'introduzione che sembra scritta dalla madre dell'autore tanto è elogiativa, mi informa che mi conviene allacciare le cinture di sicurezza perché cadrò dalla sedia dal ridere, le voci che avevo sentito trovano così conferma, andiamo.
A pagina venti mi chiedo se la sedia non sia troppo salda, a trenta mi chiedo se sia ancora nel capitolo scritto per partire con un'abile costruzione dell'hype, a quaranta scrivo all'amica personal-booker chiedendole entro quante pagine sono autorizzato a buttare via un libro per manifesto raggiro, mi autorizza alla quaranta, penso sia un modo per sminuire con gentilezza le mie qualità di usufruitore di letteratura di fama mondiale e accetto la sfida di altre venti pagine, ne reggo solo altre dieci prima di stabilire che l'assenza totale non solo di qualsiasi vibrazione alla sedia ma anche solo di impercettibili tensioni muscolari a uno degli ennecento muscoli della faccia è motivo sufficiente per non perdere un solo altro minuto della mia preziosa vacanza-lettura.
Meno male che pesa poco perché comunque decido che con me è arrivato e con me tornerà indietro, se non a farmici cadere magari in futuro può tornare utile per garantirla la stabilità delle sedie e così sentirò giustificati gli euro spesi.

L'hotel è una piccola bomboniera ai piedi del Monte Bianco, una di quelle isole felici in un luogo nel quale dietro ogni altra porta spendi per un panino quanto in hotel spendi per pernottare.
Gestito da una famiglia di monarchici che ci tengono a rendere nota la condizione inscatolandoti in pareti tappezzate di quadri autocelebrativi, si rivela essere tanto bello quanto ben gestito da persone che rispondono "Sì" a qualsiasi domanda, richiesta, desiderio.
Vecchio stile in contraddizione con un atteggiamento generale di un paese che come ogni montagna è un tantino roccioso con i forestieri, fa venir voglia di testare la tenuta facendo domande su domande, tranne l'unica che mi sono tenuto e cioè la possibilità di abbassare un po' un riscaldamento che per dieci giorni mi ha fatto dormire senza nemmeno la maglietta e fuori dalle coperte per riuscire a respirare un po', mentre fuori dalla finestra i pinguini bussavano per entrare.
Hotel per fidanzatini freddolosi di ritorno dalle terme, ogni mattina a colazione il buongiorno di un cuscino appoggiato sulla credenza che in qualche maniera mio ricorda mio padre, ma solo per non dire che in realtà è di te che mi parlava e così indispettire mezzo pianeta, quello che non vuole accettare che dove si è felici in due si è felici davvero.



Un libro che in qualche modo mi ricorda mio padre, come ogni libro di De Luca mi ricorda mio padre nello spessore di una pelle impenetrabile e nel mio averlo eletto miglior compagno di silenzi e di fughe da me stesso, nel  denudare pubblicamente il proprio isolamento dipingendolo con parole di viaggiatore per il quale ogni età è un luogo e ogni luogo è casa perché nessun luogo è casa, nei racconti che sono persone e non di persone, nello scrivere centinaia di pagine per dire cose che le persone davvero in pace con se stesse dicono con un bacio, uno sguardo, nella levità di un macigno, nel continuare a scrivere sempre lo stesso libro, sempre lo stesso racconto, quell'Io sussurrato che nulla chiede perché troppo desidera e a non esistere non è la risposta al desiderio ma chi è in grado di portarla in dote.
Ah no, questo non è mio padre, questo sono io, ma nessuno mi chieda di dare una dimensione alla differenza perché dovrei tirar fuori un altro libro di De Luca e usarlo come metafora dicendo "Mio padre è sempre stato i suoi libri" e alla domanda "I suoi di De Luca?" rispondere "Vai via".

Quando nonna ha compiuto ottant'anni, quindi esattamente otto anni fa dato che l'altro giorno abbiamo spento le ennesime fortunate ultime candeline, come le chiama lei vestendole di un pessimismo ormai cronico che però a quest'età inizia a essere guidato anche da una quota di realismo che sarebbe ingiusto non iniziare a considerare tra le prove di una lucidità mai persa, decise di celebrare il traguardo prendendo un foglio, una penna e scrivendo una lettera.
Quando mi raccontò per la prima volta l'aneddotto, nel senso che non ha perso la lucidità ma la memoria sì e quindi abbiamo un carnet di una decina di aneddoti che a cicli settimanali mi racconta sempre come fosse la prima volta e questo è uno di quelli, arrivati a "scrissi una lettera" pensai a un amante lontano, un perdòno mai chiesto, una lettera al papa dal quale tutt'ora attende la guarigione miracolosa per mio fratello, quelle stazioni insomma che sono adeguate alla solennità del traguardo.
Macché, scrisse alla Findomestic, della quale era stata cliente per decenni e dalla quale, avendo sempre pagato tutto senza mai saltare né un'ora né un centesimo come ogni appartenente alla generazione dei dignitosi, continuava a ricevere depliants e proposte di prestiti.
Scrisse per ringraziarli.
Per ringraziarli di averle permesso di raggiungere gli ottant'anni senza dover mai chiedere niente a nessuno, per averle permesso di dotarsi di tutto ciò di cui una vedova di quarant'anni con due bimbe a carico aveva disperato bisogno perché nessuno tranne lei subisse una vita di mancanze, per averle dato una cinquecento con cui portarci all'asilo, una cucina nella quale accoglierci tutti a natale, una lavatrice con cui mandarci tutti in giro per il mondo con la testa alta di chi pulita non aveva solo l'anima, per ringraziarli di averle permesso di dare a quelli intorno a lei una vita senza le privazioni che a lei il destino aveva imposto.
- Ti hanno mai risposto?
- No, però da quel giorno non mai più ricevuto depliants, quindi almeno so che l'hanno letta.
Ecco io lo vorrei conoscere quello che l'ha ricevuta, solo per chiedergli come abbia fatto a non rispondere, a non venire investito dalla voglia di andarla a conoscere, una donna capace di una lettera tanto bella.
- Vabbé nonna, prima di sparecchiare il solito amarino?
- Sì è nel mobile
- Nonna è finito, c'è solo whisky qui dentro
- Va bene il whisky.

Un libro che in qualche modo mi ricorda mio padre e quei percorsi di vita che partono da una casa di fantasmi e a una casa di fantasmi arrivano, in quel personaggio che torna nella campagna natìa sulla sua auto fiammante di lavoratore che ce l'ha fatta così tanto che tiene testa ai cinesi e senza cartina né bussola si ritrova proprio di fronte a quella porta, non un'altra, e senza sapere perché la sente sua.
Il perché lo scoprirà solo dopo aver attraversato il proprio inferno interiore fatto a forma di sette ponti.
Ora non so se il fatto di aver capito come si sarebbe svolta l'intera storia più o meno a pagina dieci dipenda dal fatto che è un racconto proprio semplice (prima o poi andrà affrontata questa ormai diffusa abitudine di vendere libri stampati in corpo 50 interlinea 60 e margini di quattro centimetri per lato solo per poter chiamare "Libro" racconti che stanno su due A4) o dal suo essere l'esatto racconto della mia vita, sta di fatto che alla fine di ogni pagina sapevo esattamente come sarebbe iniziata la successiva e via così, per l'intero libro, fino all'ultima pagina nella quale sapevo avrei letto cosa avrei fatto io al posto del protagonista e infatti.
Ora uno dirà che i libri hanno proprio questo di bello, ciascuno può vederci dentro la propria storia, e io dirò che lo so, sono un lettore amatoriale ma non sono stupido, la so fare la tara ai vorrei e ai condizionamenti.
Poi però ci sono gli incubi e quelli non li racconti letterali se quei sette ponti non li hai passati nello stesso modo, ma soprattutto c'è una casa riconoscibile per una particolarità del tetto che la rende diversa dalle altre, la rende riconoscibile.
Lui si propone di comprarla per rifarla a partire da quel tetto un po' strano, gli occupanti gli dicono che il tetto va lasciato così com'è.
Torno a casa e, come un tempo facevo spesso, apro Gùgol maps per andare a rivedere quella casa e sognare un po' come se ci volassi sopra insieme a Campanellino.
Non ero pronto al fatto che quelli di gùgol aggiornano le mappe con ciclicità e che quindi non avrei visto la stessa casa dell'ultima volta.
Nelle mappe delle case vedi il tetto, l'unica cosa che chi la abita ha deciso di cambiare.
Vado in streetview, voglio vedere cos'altro hanno cambiato.
Niente, solo il tetto, quel libro parla di noi e non solo perché alla fine i cinesi, del libro come della vita, hanno ottenuto ciò che volevano.

Ho una tua foto nel telefono.
Sì lo so non dovrei, è sbagliato.
E' sbagliato perché non te l'ho chiesta e nella stessa maniera in cui mi sento sbagliato quando qualcuno mi fa leggere parole personali non scritte da me o a me, sento che quella foto è una violazione.
E' che mi fai sentire così tanto perdonato per ciò che sono, che quella piccola violazione ai miei stessi princìpi mi sembra in qualche modo una conferma, per essere perdonato bisogna aver sbagliato ma io con te non ho sbagliato per assenza di occasione più che per bravura e ti vorrei così tanto che vorrei persino poter sbagliare solo per potermi vantare con il mondo del tuo perdòno e allora mi confeziono violazioni dedicate che solo tu mi perdoneresti, lo so, te lo leggo in quello sguardo nella foto.
Solo che una violazione è e resta una violazione e allora l'ho sì confezionata perché fosse tale, ma poi essendo appunto tale il senso di colpa mi porta a non guardarla mai per non reiterare il reato e non abusare del tuo non saperlo.
Ciao sono Bruno e sono in perfetto possesso del mio equilibrio mentale.
Che non significa che sia IN equilibrio, ma solo che del suo stato attuale sono in perfetto possesso e, fidati, è una cosa che non si incontra così spesso.
Solo che ancora meno spesso si incontra qualcuno in grado di perdonarlo quell'equilibrio, ed è questo che rende quella foto la cosa più preziosa che abbia mai rubato in vita mia.
Mi perdoni?

Un libro che in qualche modo mi ricorda mio padre, vuoi perché l'associazione tra le parole Torino + Casa + Nostra mi riporta a un plurale che salta indietro nel tempo di quarant'anni, vuoi perché le zone che racconta con più affetto sono quelle in cui si passeggiava insieme, vuoi perché le zone che più invoglia a visitare sono quelle che io meno pratico per non farlo anche fisicamente il salto nel tempo e così rimanere impigliato nell'unica ragnatela che trasferendomi qui mi sono ripromesso di evitare con tutto me stesso e cioè quella delle vie crucis.
Un libro che restituisce a Torino quella bellezza che persino molti torinesi ignorano e per questo un libro che in ogni pagina mi ha fatto pensare che solo un torinese che ci è cresciuto possa apprezzarlo per il libro che è.
Per tutti gli altri, me compreso, una lonelyplanet non di ciò che si trova oggi, ma di quanto è impresso nei muri, nel selciato, nelle finestre, nella storia di una città che prima o poi dovrò iniziare anche a vivere e non solo abitare.

Un problema fisico che ogni tanto si riaffaccia e che prima o poi dovrò indagare e magari, bum, persino curare, mi ha concesso nell'ultimo mese un'autonomia di movimento che non andava oltre le due ore lontane da un luogo chiuso e comodo nel quale resettarmi.
Essendo rispuntato nello stesso mese della mia vacanza, mi ha impedito di dare libero sfogo alle mie note doti atletiche che in montagna avrebbero certamente dato prova di essere tutt'ora all'altezza dei traguardi di età più verdi.
Ora io sono uno che se fa tre gradini ha il fiatone, ma per un misterioso insieme di elementi che solo quando perfettamente incastrati mi fanno indossare una potenza che lèvati, quando si tratta di camminare all'aperto sono capace di scalare, letteralmente, le montagne e così l'unica attività diversa dal muovere i muscoli delle dita per girare le pagine che mi sono concesso in questa vacanza è stato il camminare nei boschi per ore e dislivelli con cartelli Alert che nemmeno in fila alle montagne russe sono così minacciosi e scoprire, grazie alla facilità con la quale mi muovo quando intorno c'è silenzio e aria e alberi, che il mio futuro è il trekking!
Allora vado all'ufficio del turismo e chiedo la mappa dei sentieri, la tizia al banco mi guarda, indossa lo sguardo di chi ha di fronte un espertissimo ma il tono di voce di chi pensa "Ecco un altro che tra due ore dobbiamo andare a cercare con l'elicottero" e mi informa che in inverno non ci sono sentieri affrontabili da solo, aggiungendoci nel silenzio dei suoi pensieri "cazzone".
Deluso dall'impossibilità di offrire al pubblico la manifestazione delle mie doti sportive, torno in hotel e compenso cercando in rete informazioni, siti, notizie, come si fa lo zaino, cosa devo comprare, cosa serve sapere per non perdersi, come mi devo vestire, come si accende un fuoco, come si caccia per mangiare, come si potabilizza l'acqua, insomma tutto quello che serve per confezionare con tutto l'entusiasmo che ogni volta ci metto l'ennesima cosa che non farò mai perché lavoro troppo.

Se il libri precedenti mi hanno in qualche modo ricordato mio padre, qui siamo direttamente alla stenografia della nostra storia e sfido chiunque, chiunque di quelli che a ogni "un libro che in qualche modo..." precedenti mi hanno commiserato, a negare l'evidenza.
Abbiamo un padre mai vissuto, abbiamo un figlio che non ha mai smesso di averlo accanto, abbiamo ricordi intimi e confidenziali di amici offerti post e usati come matite per delineare i contorni di un vuoto non colmabile con le sole informazioni pubbliche mediate, abbiamo una voce registata come unica forma di contatto con quel suono troppo spesso soltanto sognato, abbiamo ore, giorni, mesi, anni di incontri immaginati come fossero un film con dialoghi, luoghi, abbracci, scoperte, abbiamo un figlio il cui vuoto più grande è l'impossibilità di mostarsi uomo oggi che l'esserlo sarebbe finalmente quella somma di speranze da bambino solo ipotizzabili e persino accusabili come mancanze prima ancora di avere il tempo di provare a esserne all'altezza, abbiamo domande con risposte autoprodotte in eterna assenza di conferma.
Abbiamo un Veltroni di indubbia delicatezza e amore, che non chiede di fare la storia della letteratura ma solo di dare forma a un'anima che volente o nolente una forma la pretende e la chiama ogni giorno, in ogni azione, in ogni passo.
C'è un motivo se una centrifuga assatanata come la politica italiana ha espulso figure come Veltroni o Prodi e quel motivo è che ci sono piani di vita che non saranno mai compatibili con la bontà d'animo e compromessi con la propria storia che non si sarà mai in grado, prima che disposti, ad accettare.
C'è una foto di suo padre negli studi tv insieme ai suoi colleghi che per lui rappresenta il conosciuto e lo sconosciuto di un uomo del quale gli mancavano persino i lineamenti, in quella foto per lui indecifrabili.
Quando mio padre scomparve, dalla scatola delle poche cose che riuscimmo a recuperare saltò fuori una foto di lui negli studi tv insieme ai suoi colleghi, ha uno sguardo che non sono mai riuscito a decifrare ma era lui come non l'avevo mai visto.

Una vita non basta per smettere di essere così fragili.




4 febbraio 2016

Non pensare che t'abbiam dimenticato

Un antico maestro, Akivà, disse: "Una siepe intorno alla saggezza è il silenzio". Forse il suo era così, una siepe, ma un silenzio sbagliato arrugginisce il ferro dentro il sangue. Chi per insufficienza tace, è condannato a ripetere nel vuoto delle sere le parole di risposta che non vennero in tempo.
[...]
Nelle sere in cucina, seduto al nostro tavolo deserto, mastico la mia cena occhi nel piatto e inghiotto le mancanze di cui sono composto.

Il più e il meno
Erri De Luca.

25 dicembre 2015

Qui e domani

Se la stremante fatica fatta per arrivare fin qui mi ha lasciato come unica possibilità l'ingoiare umiliazione per non rovinare un natale per gli altri di gioia, allora non è il qui che credevo valesse quella fatica.
Nel Qui che il depliant della Candle Game SpA. indicava come premio, le parole che la rabbia urla non vengono zittite per inefficacia, le mani non si devono prendere di nascosto per dire cose che quando nascoste muoiono un istante dopo invece di farsi vita da lì in poi, le risposte che il cuore invia alla bocca non vengono intercettate dalla dignità che per salvarsi le veste da inutile ironia.
Se nel Qui trovato all'arrivo le lacrime di natale non sono di gioia, allora vuol dire che nei bivi lungo il percorso gli errori sono stati più delle scelte giuste e che quindi è il percorso intero che è stato compromesso, che il Qui a destinazione non sia quello sognato non ne è che colpevole conseguenza.
Tre minuti all'anno di emozione ricacciata in gola per non far male a nessuno non fanno una vita e non li salvano davvero tutti quelli che si amano.
Uno lo sacrificano, senza nemmeno fargli intravedere un prossimo Qui a rendere anche questo un bivio in cui sperare di fare la scelta giusta mentre intorno il mondo ti dice che se c'è una cosa che non hai mai saputo fare è proprio riconoscere che forma abbia, una scelta giusta.
So fare dei bellissimi segnaposto, ma non è che l'elenco delle qualità vada poi molto oltre se non possono permettersi di essere a forma di cuore a meno di essere pronto a passare il prossimo natale da solo, dicono che l'importante sia imparare ad accontentarsi ma che cazzo di regola è se in cima c'è il nulla.
A nonna ho regalato un pacco di Gratta&Vinci non per portarla in un vizio mai avuto ma perché dice sempre che una delle emozioni che non si è mai potuta permettere è l'azzardare.
Io l'ho fatto un sacco di volte nonna e guarda dove sono oggi.
A te basta una telefonata per essere felice, a me basta non poterla fare per chiedermi che senso abbia tutto e non avere una risposta che non sia che alla fine io posso ancora vedermi portare un telefono dall'altra parte del quale c'è la voce di una madre e a te, amico che non puoi più, è andato per questo l'unico mio pensiero di cuore che ieri abbia chiesto di non restare chiuso dentro i confini della mia casa.
Quello a mio fratello a parte naturalmente, l'unica risposta che mi tiene dritto di fronte alla domanda sul senso di un tutto che, non avessi lui, farei davvero fatica a trovare.
Se Ebenezer Scrooge esistesse davvero, ieri notte avrebbe chiesto ai tre spiriti di aspettarlo un attimo perché doveva farmi una telefonata per dirmi che il prossimo natale sarà bello, l'aria oggi è un po' questa.
Mi mancano tutte cose che non ho e sì, lo so anch'io che è così che funziona l'assenza ma nel mio caso è diverso, io ho scelto di non averle e che fatica che si fa certe notti a guardarsi allo specchio e vedersi giusto, quando l'intero elenco dei tuoi anni di errori prende vita in un'unica sera e nemmeno si ferma per darti il tempo di contarli per almeno rassicurarti che siano quelli già noti, lasciandoti solo quello necessario per attutire l'impatto della visione di quanto sia spaventosamente grande la somma.




22 settembre 2015

O la va

Scrivo il progetto cercando di farlo stare dentro il minor numero di pagine possibile, mi sono ripromesso una pagina per ogni voce di sintesi, le voci sono cinque e le pagine al momento sei, la fatica che il prolisso che è in me sta facendo non si racconta, vorrei dire tutto, vorrei essere capace di apparire meno cialtrone improvvisato di quanto in realtà sia e mi impegno in ogni virgola, uso termini pomposi per incartare immagini orgogliose e quella piccola parte di fottuta paura di farla giusta al primo colpo che poi è anche l'unico.
Giovedì mattina sono convocato a un'orario che sarebbe presto persino se abitassi ancora a Milano ma non è il caso di fare questioni tanto non dormirò comunque, è il giorno, vogliono chiudere la fase parole ed entrare in fretta in quella operativa, vogliono fare, vogliono esserci, aumentano quelli che vogliono esserci e io non ho posto per tutti perché la voce si è sparsa e vogliono entrarci persone tra loro concorrenti, disposte a diventare amici se solo serve per essere anche loro della partita.
Ricevo lusinghe, ricevo insistenza, ricevo tentativi di persuasione sotto forma di uffici a disposizione, fondi, c'è chi vuole esserci così tanto da avermi messo a disposizione una villa "poco fuori Londra per quando andrai là, quando vuoi" e mi chiedo se stia accadendo davvero.
Vedo persone intorno crederci addirittura più di quanto ci creda io e passo continuamente dall'esaltazione a chi si domanda se non sia troppo, perché poi a queste persone qualcosa in cambio bisogna darlo e quel qualcosa era solo una mia idea, non pensavo che qualcuno mi avrebbe seguito davvero fino a questo punto.
Non è vero, lo sapevo, una cosa buona ho fatto in vita mia e quella cosa è il lavoro e almeno quello, almeno quello, lo so.
Scrivo il progetto cercando di farlo stare nelle poche pagine che giovedì mattina avremo tempo di leggere insieme, misuro le virgole perché a fine lettura l'eventuale sarà il sigillo che stabilirà che ciò che avrò dimenticato non ci sarà e ciò che avrò inserito non sarà più eliminabile, ho paura di perdere pezzi, ho avuto l'intera estate per scrivere cinque pagine e mi sono ridotto a farlo le due notti prima, non sono mai stato capace di fare le cose nel momento giusto, con il tempo giusto e il margine sufficiente per contare fino a dieci prima di.
Scrivo con negli occhi l'immagine di persone che a ogni parola mi dicono Sì, sì, ma adesso firmiamo e mi sembra irreale, mi chiedo se andrà davvero così, se davvero quella fila è fatta di persone che se chiedo dieci mi danno dieci e se chiedo mille mi danno mille e mi dico di Sì, sì, ma adesso firmiamo e allora ripenso alla persuasione, a ciò che mi mettono in mano pur di esserci e penso che allora qualsiasi cosa passerà, posso davvero imporre condizioni perché sembra non attendano altro che sentirmi potente così da sentire giusti i soldi che mi metteranno in mano e fino a oggi ogni volta che ne ho comunicata una mi è stato detto Sì, sì ma firmiamo e allora è facile perché non sono nemmeno più considerabili condizioni ma motivi per chiudere un'epoca e consegnarmi al resto della vita, basta scriverli dentro le cinque pagine e diverranno realtà, sembra un sogno e invece è un foglio di carta con il potere magico di materializzare ciò che in queste due notti ci ho messo sopra e allora se dev'essere scommessa lo sia, se vogliono qualsiasi cosa allora sia qualsiasi cosa, se davvero, ma davvero, sono pronti a qualsiasi richiesta io a pagina quattro ho inserito una piccola riga, ci ho pensato bene, l'ho riscritta mille volte perché non si intravedesse che contiene l'intera mia vita.
Quella vita che se passa quella sola unica riga potrò dire finalmente davvero realizzata.
Se di fronte a quella riga diranno Sì, sì ma firmiamo, allora avrò davvero vissuto e l'unico potere che potrò a quel punto dire mancarmi è quello di far percepire a lui in ogni millimetro cosa avevo nel cuore quando ho deciso di dedicargliela e su quella unica singola riga giocarmi tutto ciò che avrei potuto essere e forse saremo.

(e tu e averti accanto in questo cammino che meritava di essere accompagnato da quella mano che non potrò mai).


1 maggio 2015

Fase 2 #2 - Del ridere e dell'emozione

Ma davvero, per noi?
Sì davvero, per voi.
Perché con nessuno e con noi sì?
Perché quando sono con voi non sento il bisogno di stare da solo dopo due giorni
Si alza, si risiede, si muove, gesticola, non riesce a crederci, gli erano arrivate voci ma non le credeva possibili, pensava Nessuno riuscirà mai a fermarlo, quando gli ho detto Voi gli si è illuminato il viso e in quell'istante vent'anni hanno trovato un senso perché quella era la gioia che avevo solo potuto immaginare, erano progetti, era futuro diverso da quello che fino a quando gli ho chiesto di darmi dieci minuti non credeva possibile, toccava oggetti, li rimetteva giù, tratteneva emozione, la parte che riusciva a trattenere e che bello, rideva in quel modo in cui si ride quando l'emozione supera il confine, quando si ride con gli occhi e poi, dopo, con la bocca, come quando vai a un concerto e quello a cui assisti ti emoziona così tanto che ridi.
Lui non sa che le mie riflessioni durano mesi solo perché le verbalizzo soltanto quando pronto a mantenerle ma nella realtà sono un istante, la scintilla che cambia la direzione a tutto e mi indirizza verso una scelta, qualsiasi sia ma la scintilla mi condanna alla scelta di seguirla o di decidere di no, ma mai di ignorarla, quell'istante in cui capisci che un ciclo si è chiuso, non puoi chiedere di più e se sei uno che deve chiedere di più l'unica maniera è chiudere il ciclo esaurito e aprirne un altro che parta da zero così da poter di nuovo chiedere di più, chiedere uno, quando raggiunto chiedere due, quando raggiunto chiedere tre, chiedere di più, quando se non quando hai raggiunto il massimo chiedibile e allora o ti fermi e ti spegni o ringrazi te stesso per tutto quanto fin lì e, semplicemente, cambi di nuovo vita.
Ma allora potremo fare questo e possiamo provare a fare quell'altro, ma potremmo anche perché no fare quell'altro ancora, è bellissimo, ma davvero, con noi, continua a ridere e io penso Questo, per questo sì, davvero voi.
Ma non per soldi, ché non me li potreste mai dare quelli che porto a casa da solo e quindi ci rinuncio io per un'idea mia che si farà possibile solo grazie voi e solo se.
Solo se?
Condizioni.
Quali?
La sede di Londra.
Ma tu abiti a Torino.
Quella è la seconda condizione: tre giorni alla settimana.
Rideva mentre mi diceva Facciamo presto e io con lui ma dentro.

Ce l'ho fatta a smettere di essere uno che ce l'ha fatta.
Vado dove posso ripartire dal punto in cui non sono nessuno e c'è una vita intera dentro queste trenta righe e queste che non sembra ma sono lacrime di gioia.
Tutto nel cestino, si riparte in un nuovo altrove, cazzo uau e Stay tuned



26 dicembre 2014

Noella



Calore di una nonna che ride fino alle lacrime e fino alle due di notte per forse la terza volta in vita sua.
Calore di una famiglia che si allarga e si stringe come un abbraccio a seconda di quanti hanno bisogno di quell'abbraccio.
Calore di bambini che come tutti i bambini mi detestano perché li prendo in giro come fossero adulti e per lo stesso motivo mi cercano per darmi il biglietto disegnato a mano per me.
Calore di un contatore che salta e per un istante restano le candele che mi fanno pensare "Lasciamo tutto così" per quanto era bella l'immagine di un natale che essendo di non detti sarebbe stato perfetto se fosse stato anche di non visti.
Calore del primo Babbo Natale vero di questa mia vera casa.
Calore di un pensiero a chissà se mi pensi.
Calore di cibo di ognuno per ognuno.
Calore di un "Mi mancherà", di un "Anche a me".
Calore di una tavola finale notturna e solitaria con vino arachidi e il profumo delle persone ancora addosso.
Calore di segnaposto con dediche non scritte e nemmeno dette, solo sorrise e altro non serve per ascoltare le parole che non ti ho detto.
Calore di un citofono che alle tre di notte suona di nuovo per l'ultima ostrica e un whiskey della buonanotte.
Calore di ospiti felici di ospite felice.
Calore della voce contenta di un fratello lontano.
Calore di canzoni sciocche di natale.
Calore di bambini che ricevono telefonate di padri lontani e andate in qualsiasi stanza volete per parlargli meglio, mai come in quell'istante mi casa es tu casa perché sì, yo soy pagliaccios e di quella lacrima di makeup quando sarai grande anche tu andrai orgogliosos.
Calore di mani solo guardate o solo sfiorate.
Calore di prove d'orgoglio nelle confidenze di una sigaretta sul balcone.
Calore del silenzio dell'istante in cui non serve dirsi la bellezza di famiglia che sapremmo creare, calore di un ", se solo..." se solo quel ", se solo..." non l'avessi solo pensato.





9 dicembre 2014

L'Oro due

Quando un figlio unico dice Amore parla di una cosa che ha conosciuto solo in parte.
Solo chi non ha fratelli può pensare sia incredibile morire d'infarto al funerale del proprio.



14 novembre 2014

Nel bene e nel male

Sono esattamente ventiquattro ore che mi sto chiedendo perché abbia rivelato uno dei miei tre segreti, da ieri sera due.
Non è una domanda che nasce da sensazione di pentimento ma di reale curiosità.
Cosa accade quando una cosa tanto intima e pesante da meritare anni di protezione, di conservazione dentro un bunker talmente blindato da riuscire a superare anni di tentazioni di cedere ad affetti profondi, amori saldati con la colla della sincerità estrema, relazioni basate sulla estrema confidenza, familiari ai quali si è offerta la rivelazione di momenti della propria storia paradossalmente più pesanti, più duri, più violenti, improvvisamente e senza motivo apparente scardina le cerniere di quel bunker ed esce così, inserendosi tra racconti di tacchi a spillo e gli anni della scuola?
Quale leva ha aperto la porta blindata da talmente tanti anni che ormai sembrava non essere più apribile più per un tempo ormai scaduto che per reale bisogno di perpetrata protezione?
Viene da pensare che possa essere il bisogno di liberarsi di zavorra ormai legata a una vita precedente di mille anni fa, la necessità di ridurre il carico sulle ruote, invece no.
Perché rivelare un segreto che si è visto offrire la fatica del silenzio di anni non significa liberarsi di quel segreto ma, all'opposto, riattivarlo.
Tenere una cosa chiusa nel profondo del proprio intimo, decidere un giorno di sigillarlo nel chiuso della scatola delle cose sulle quali non ci si porrà mai la questione dell'opportunità di riestrarlo è una scelta che solo apparentemente lo renderà pesante, nella realtà è un processo di sepoltura che ne disinnescherà gli effetti per tutti gli anni di occultamento, lo renderà parte di un passato ormai chiuso e con lui i suoni, i sudori freddi, la durezza e la paura.
Riaprire quel sarcofago non è una maniera per liberarsi, ma per liberarlo.
Sei di nuovo l'uomo che tanti anni fa fece quella cosa, non sei più leggero di quanto lo fossi prima di aprire la scatola, sei al contrario di nuovo pesante, anche solo per il tempo del racconto tu torni pesante come piombo e quel peso lo senti tutto, di nuovo.

Io non sono moralista per cultura, sono moralista per necessità, da quando a sette anni da solo ho dovuto decidere cosa sarebbe stato giusto e cosa sbagliato da quel momento in poi e per il resto della mia vita, sapendo che a quell'età non potrai che improvvisare e per questo, per ridurre al minimo le possibilità di errore, dovrai essere deciso e determinato nello scegliere e poi, qualsiasi scelta tu abbia fatto, portarla avanti da quel giorno in poi e per sempre, perché l'effetto protettivo della tua nuova morale non sarà dato dalla correttezza della scelta ma dal fatto che ne avrai fatta una, una qualsiasi.
Non che non avessi esempi accanto, ma un intuito già in grado di capire quanto quegli esempi fossero peggiori della mia più azzardata improvvisazione mi fece capire la necessità di scegliere da solo e sperare di averci preso.
Magari sbagliare è una licenza che una persona può concedersi in cambio dell'eliminazione della certezza di farlo.
Io sono un moralista, fiero.
Ho bisogno di sapere ogni giorno in quale esatto punto risieda il giusto e in quale lo sbagliato.
Non conta se siano davvero lì né conta praticarne solo uno o solo l'altro, è importante per me sapere che sono in un punto preciso entrambi perché questo si traduce nella quotidiana certezza che siano in punti diversi, opposti, che non sono nello stesso, non sono sovrapposti e quando pratico la parte sbagliata voglio saperlo, dev'essere una colpa, quando pratico quella giusta voglio saperlo, dev'essere un merito.
"Fai del bene dimentica, fai del male ricorda" dice nonna con la solita tranciante saggezza di chi sintetizza in una frase decenni di tentativi di arrivarci da solo oggi consegnatami con la speranza che sappia farne buon uso.
Perché ci sono momenti della vita nei quali senza accorgertene Giusto e Sbagliato iniziano progressivamente a spostarsi dal punto in cui stanno silenti e, come attratti, si fanno via via più vicini tra loro, più abbassi la soglia d'attenzione e più si avvicinano, più si avvicinano più il confine tra loro si assottiglia, più si assottiglia più smetti di vederlo nitidamente, non puoi, stai pensando ad altro, a respirare, aria buona o cattiva smette di essere una distinzione importante e respirare, qualsiasi cosa, diventa l'unica priorità, fare, uscire, smettere.
Il punto esatto nel quale Giusto e Sbagliato si toccano assumendo la stessa identica forma si chiama Disperazione, un istante in cui la sovrapposizione fa sì che il Giusto appaia sbagliato e lo Sbagliato assuma l'innegabile forma del giusto.
In quel punto esatto si diventa capaci di qualsiasi cosa.
Qualsiasi cosa.

Ecco cos'è stato ieri sera, ecco la risposta alla domanda iniziale arrivata come sempre a colpi di flusso di coscienza.
Sto facendo buon uso di quella nuova saggezza consegnatami.
Se fai del male ricordalo, ecco cos'è stato, accidenti.
Un segreto è un non ricordo, un non ricordo è una amnistia.
Rivelarlo è un indulto.
Sei libero uguale, più di prima, ma senza più l'ansia di esserlo cancellando il reato che solo l'amnistia dell'oblìo ti ha fino a oggi garantito.
Perché quando Giusto e Sbagliato si sovrappongono ciò che si genera non deve necessariamente essere pagato tutta la vita.
Ricordato sì, però.
E non sempre, non solo, con se stessi.



8 novembre 2014

Quindici giorni di solitudine


Occhi dentro occhi e prova a dirmi se
Un po' mi riconosci o in fondo un altro c'è sulla faccia mia
Che non pensi possa assomigliarmi un po'

Puse
Se n'è già parlato, adesso dateci tempo.

Mani dentro mani e prova a stringere
Tutto quello che non trovi
Negli altri ma in me
Quasi per magia
Sembra riaffiorare tra le dita mie


Il bar delle grandi speranze - J.R. Moehringer
Regalo di Elena, là dove la parola regalo riempie per intero il suo significato.
Ché poi lo so che uno come me che non ha letto niente in vita sua si ritrova con la puntuale sensazione del capolavoro ogni volta che si ritrova in mano qualcosa di rilegato per il solo fatto di maneggiare una propria scoperta, una propria crescita, ma no, questo processo poteva andar bene per i primi, alla fine possiamo anche darla per superata questa cosa e metterci lì dove stanno le persone che sanno discernere, che adesso due contorni li hanno, gli strumenti ancora no ma nemmeno a secco del tutto, dai.
Ci pensavo l'altro giorno mentre via mail rispondevo a una serie di "Hai letto questo? E di questo autore cosa hai letto?" domandatimi da chi sta decidendo quale sarà il prossimo regalo (non mi basterà una vita per ricambiarli tutti, mannaggia a voi) infilando un po' di titoli che nemmeno io ricordavo, perché poi io ho anche questo difetto della memoria che mi fa cancellare ogni volta tutto e per questo sono l'equivalente di uno che non ha mai letto un libro non perché sia effettivamente così ma perché non ne saprei raccontare nemmeno uno di quelli letti, li rimuovo puntualmente come rimuovo tutto, dai trent'anni in poi ho smesso di memorizzare e quindi vivo una lunga sequenza di morti e rinascite quotidiane, ma ricostruendo la sequenza per rispondere alla mail mi sono reso conto che accidenti, ne ho letti un sacco, è che me li dimentico, sia come contenuto che come numero.
O meglio, non diciamo un sacco, diciamo che nel mondo nel quale sono cresciuto io la media annua è circa un decimo di quanti ne abbia letti io e quindi alla fine questo mio essere a digiuno di libri, diamoci anche una pacca sulla spalla ogni tanto, era vero fino a un po' di tempo fa oggi è più che altro una leggenda che io stesso continuo ad alimentare solo perché di fatto a domanda non saprei descriverne nemmeno uno e quindi ne abbia letti cento o nessuno il risultato a livello di bagaglio personale è lo stesso.
Per esempio in uno di quelli letti in questi quindici giorni si facevano riferimenti a Il Grande Gatsby, libro che ho letto l'estate scorsa ma del quale non ricordo assolutamente nulla e per questo quei riferimenti erano per me ignoti.
Cioè mi ricordo che racconta di uno che viveva da solo in una casa nella quale dava grandi feste, ma di più non saprei raccontare e nessuno potrà mai capire quale razza di handicap sia questo, perché non è solo lo sforzo di leggere, di trovare il tempo di farlo e nel caso non ci fosse riuscire a inventarselo fino al punto di andare anche in vacanza con la ferma volontà di non conoscere nessuno così da garantirmi quella solitudine necessaria per tuffarmi in una pila di libri che da mesi volevo leggere, ma è il farlo sapendo che quel tempo non lascerà traccia nella memoria ma solo nei piaceri al pari del ricordarsi di aver fatto sesso una volta in maniera molto particolare ma non ricordare con chi, ricordo che ogni volta sono felice di farlo, ma è un piacere che non colma lacune, non riempie alcun recipiente se non quello dell'inconscio piacere e finisce lì, di tutto ciò che ho letto non mi rimane in mente assolutamente nulla.
Il bar delle grandi speranze, al quale le cento righe precedenti vogliono dare i contorni di uno dei libri più belli che abbia mai letto, fa eccezione per un motivo molto semplice: la storia che racconta non la devo memorizzare successivamente al libro perché è preesistente in me prima della lettura.
Io ho vissuto ogni singola parola di quel libro nel senso che l'ho vissuta prima, quando vivevo la mia età memorizzata, quella fino ai miei trent'anni.
Ho fatto tutti quei passaggi, ho attraversato tutte quelle lacerazioni, quelle separazioni, quei rapporti sbilanciati, ho vissuto quel legame con l'incredibile microcosmo che solo un bar ti può far vivere e dentro quel microcosmo ho toccato le vette più alte di me stesso così come i pozzi più bui e profondi; con il bar, quel bar, ho vissuto la più complessa opera di recisione con me stesso che sia riuscito a completare contro ogni aspettativa di successo, mia prima di tutti.
Uscire (e mai più rientrare) da un microcosmo che tanto in alto mi aveva portato è stata una delle sfide più innaturali e insieme necessarie che abbia portato a termine in vita mia e per questo di quel libro io conosco ogni parola, ne conosco proprio il suono, l'odore, la fatica, l'immane fatica.
Fin dall'inizio ho percepito che mi avrebbe trapassato da parte a parte, ma sbagliavo nell'identificare la lama nella storia con il padre e con la madre che apre il libro, solo una volta entrato davvero nel libro ho visto quale sarebbe stata la lama più affilata delle tre che quel libro brandisce e resomi conto che sarebbe stata il bar ho capito il peso di ciò che stavo maneggiando, di ciò in cui stavo rientrando.
E' incredibile per me pensare che ciò che altri percepiranno come null'altro che la formale cornice di una storia di famiglia, per me che ho una storia di famiglia così complicata e dolorosa, è in realtà il vero contenuto incorniciato in una storia familiare così sovrapponibile alla mia.
Per questo per questo è uno dei libri più belli che abbia mai letto, perché mi ha ridotto quello che per me è il fantasma più grande, la famiglia, a pura cornice di qualcosa di mio ancora più grande e non l'avevo mai ascoltato così chiaramente, così profondamente, così perfettamente.
Grazie Elena.
Quando dicevo che il prossimo sarà una bella sfida è chiaro che estremizzavo un risultato oggettivamente irraggiungibile e non per colpa.
Un libro più mio di questo non è materialmente possibile che sia stato scritto.
Ce ne saranno mille belli altrettanto e certamente altri mille ancora più belli, ma nessuno potrà mai essere così millimetricamente mio nella cornice come nella tela sia che si consideri l'una cornice e l'altra tela che viceversa.
E' Escher che mi fa il ritratto senza perdere un gradino, senza lasciare indietro una sola porta, senza perdere mai l'equilibrio se non negli esatti punti in cui lo persi anch'io, irripetibile.

Potessi trattenere il fiato prima di parlare
Avessi le parole quelle giuste per poterti raccontare
Qualcosa che di me poi non somigli a te

I figli della Repubblica. Un'invettiva - Maurizio Maggiani
Sessanta pagine scritte belle grandi con margini che arrivano quasi a metà pagina (ma basta però 'sta storia) perché non ne uscissero le venti che sono in realtà, quei libri che in due ore birra compresa fai fuori perché sono scritti per essere letti così, tutti d'un fiato e con una birra.
Ci sono libri che sono scritti per esser tali e altri che sono evidentemente poco più che la stampa di un po' di appunti su un quaderno che periodicamente chi è sotto contratto tira fuori per spuntare il ritmo richiesto, uno sfogo personale, la possibilità che solo alcuni autori hanno di vedersi pubblicare anche semplicemente dei pensieri estemporanei senza un fine preciso se non quello di sfruttare il lusso guadagnato di poterli esprimere a una platea più estesa di quella che ciascuno di noi vorrebbe avere a disposizione quando sotto una doccia più lunga del solito ci abbandoniamo a soliloqui che sentiamo solleverebbero pandemoni e ovazioni se solo non ci fossimo solo noi, in quella doccia, ma noi e tutti quelli che ascoltano qualsiasi fiato di Maggiani, io tra questi.
Quant'è bello Maurizio Maggiani.
Non bravo, è proprio bello, l'ho sempre trovato un uomo bello nel senso sofisticato e insieme semplice del termine.
Sarà che chi ha scritto E' stata una vertigine per me potrebbe scrivere qualsiasi cosa e farmi leggere qualsiasi cosa, sarà che io gli uomini sottili quanto carta velina ma col peso specifico di un'incudine li vorrei tutti padre, li vorrei solo per me, ma quando è di Maurizio Maggiani che si parla io nemmeno guardo il titolo, leggo il nome dell'autore e compro.
Anche scrivesse il classico libro che il giudizio "Questo avrei potuto scriverlo anch'io" lo rende oggettivo, non arrivo a dire che sia questo il caso perché io no ma ne conosco diversi che senza fatica potrebbero scriverne uno uguale e anche migliore, per me resterà sempre un libro di Quello che ha scritto E' stata una vertigine e questo chiude qualsiasi cerchio.
Non esprimo nemmeno giudizi su ciò che leggo, non serve, è Maggiani, sta lassù perché sta lassù come persona, facesse il gelataio farebbe i gelati migliori del mondo anche quando così non è, ci sono uomini che hanno quella forma e lui è tra questi.

Potessi trattenere il fiato prima di pensare
Avessi le parole quelle grandi
Per poterti circondare
Di quello che di me
Bellezza in fondo poi non è

Che tu sia per me il coltello - David Grossman
Che fatica, accidenti.
Ok, lo ammetto, ci sono libri che per me si fanno muro e questo è uno di quelli.
Ho provato a iniziarlo tre volte e tre volte a un certo punto l'ho chiuso, sempre per lo stesso motivo: mi toglie l'aria.
La prima volta mi sono arreso quasi subito ma avevo dalla mia parte la scarsità di tempo e un libro precedente che mi faceva l'occhiolino, la seconda volta mi sono dato più tempo perché chi me l'ha consigliato non sbaglia mai mira e quindi sapevo essere un muro che dovevo valicare per trovare il punto in cui avrei detto "Ah ecco, ora capisco", ma anche lì a un certo punto mi è mancata l'aria.
Quando si è trattato di mettere in valigia gli unici compagni di questa mia vacanza selezionandoli sapendo che non avrei dovuto sbagliarli perché andavo dove non ne avrei trovati altri, ho deciso di accettare definitivamente la sfida contando sul fattore tempo questa volta a favore del libro.
Come sentissi inconsciamente che la responsabilità era mia e per questo dovevo impegnarmi, dovevo riprovarci una terza volta in assenza di alibi.
Questa volta sono riuscito ad arrivare a pagina cento, avevo riconfermato la sensazione di soffocamento già all'inizio anche la terza volta ma questa volta mi sono imposto di andare avanti, di andare oltre, perché dentro quel libro ci dev'essere qualcosa di grande se tutti quelli che più o meno direttamente ne sono collegati sono per me persone di così alto valore, eppure non ce l'ho fatta nemmeno questa volta.
Non la so spiegare la sensazione che provo leggendolo, se non con l'immagine di due mani al collo che stringono e stringono forte e il collo non è il mio ma è quello della donna alla quale scrive, solo che l'aria manca a me, che per tutte e tre le volte mi sono chiesto se io sia così, così drammaticamente inumano come il protagonista di quel libro.
Ditemi di no, ditemi che oltre pagina cento si scopre che lei è una sua proiezione, che non è davvero un intero libro di sue lettere, lettere così asfissianti, così totalizzanti, alle quali esiste davvero una donna così peggiore di lui da rispondere davvero.
Ditemi che a pagina centouno si scopre che lui è in carcere, un carcere vero e non quello che si è autoinflitto, con vere sbarre e vera sodomìa nei bagni, e allora gli darò una quarta possibilità.
In alternativa no, non ci rientro là dentro.
Colpa mia, ignoranza mia, debolezza mia, tutto quello che volete ma no, respiro piano, faccio fatica a volte, ma respiro e l'amore per me non ha nulla a che fare con quello psicomondo deviato.
Almeno alla fine si ammazza con quel coltello?
O non ha nemmeno quel coraggio lì?

Bocca dentro bocca e non chiederti perché
Tutto poi ritorna
In quel posto che non c'è dove per magia
Tu respiri dalla stessa pancia mia

La manomissione delle parole - Gianrico Carofiglio
Qui non è questione di mia memoria che resetta, sono certo di non aver mai letto nulla di filologìa, eppure questo libro mi aveva attirato proprio per il titolo che, a istinto, mi comunicava esattamente ciò che poi ci ho trovato dentro e cioè proprio filologìa.
Tanto concreto quanto, paradossalmente visto il tema, (per me) semplice.
Un po' troppo politico e un po' troppo inquinato dalla costante tentazione, puntualmente soddisfatta, di utilizzare il tema per espirmere giudizi politici sull'attuale momento storico, giudizi che pur rispecchiando fedelmente i miei ho trovato francamente fuoriposto al confine con la banalizzazione.
Come se certe analisi che per essere tali hanno necessariamente bisogno di volare molto alto, sentissero ogni tanto la necessità di precipitare nel fango di Berlusconi, sporcarsi un po', farsi sciocche, per poi riprendere il volo e tornare lassù tra Aristotele Primo Levi e la Arendt a riprendere il filo dove l'avevano lasciato prima di andare giù in piacchiata e chissà perché, chissà quale necessità risolve, non capisco.
Vergogna.
Il capitolo che più mi ha preso di peso e mi ha portato lassù con lui è stato quello sulla Vergogna.
Incredibile quanto si possa entrare dentro quella parola, quanto contenga quella parola.
Io l'ho sempre detto che con le parole si fa girare il mondo nel verso che si desidera o che comunque saperle maneggiare e conoscere è fondamentale per vivere almeno quando lo è mangiare, dormire, trovare qualcuno che meriti tutto il nostro mondo e che abbia voglia di portarci nel suo.
Non ho mai letto nulla di filologìa ma uscito dall'ultima pagina ho fatto una cosa che non mi era mai capitata, anzi due: mi sono letto l'intera parte dei riferimenti bibliografici, a sua volta altre venti pagine, e ho aperto un file di word intitolato "Libri da comprare".
Senza rendermi conto del totale se non alla fine, ne ho elencati almeno una decina, a star bassi.
Significa che non mi è piaciuto il libro in quanto tale, mi è piaciuto il mo(n)do in cui mi ha portato.

Potresti raccontarmi un gusto nuovo per mangiare giorni
Avresti la certezza che di me in fondo poi ti vuoi fidare
Quel posto che non c'è
Ha ingoiato tutti tranne me

I fantasmi di pietra - Mauro Corona
Corona è uno di quegli autori che ogni volta che lo ascoltavo pensavo "Prima o poi devo leggere qualcosa di quest'uomo" e questa vacanza è stata l'occasione.
Bisogna dire che entrare in un autore scegliendo come porta d'ingresso un libro da trecento pagine non è quel che si dice dare una possibilità, diciamo che gran parte della fiducia l'aveva evidentemente già conquistata come persona, però tant'è, trecento pagine filate, ho passato periodi nei quali non le leggevo complessivamente in un anno e adesso guardalo lì che ometto, dagli una birra, il tavolo di un bar, di un ristorante, di una spiaggia, di un aereo, e si fa portare a spasso per Erto come nulla fosse chiedendo di visitare anche la prossima casa e poi quella dopo e poi ancora e ancora dopo, no dai, già finito.
Il bello dei testi di Corona, diciamo secondo me il trucco che lui sa bene (di) usare, è che prima conosci lui come persona e poi lui come testi e questo fa sì che, essendo lui così caratteristico e unico, i testi non vengano letti ma vengano ascoltati come fossero recitati, li leggi sentendo proprio la sua voce e non la tua come avviene in genere quando leggi qualsiasi altro libro.
E allora non è più la solitaria lettura di un libro ma l'ascolto di storie raccontate davanti a un camino da una persona dalla quale ascolteresti qualsiasi storia, comprese e forse soprattutto quelle che non racconterà mai.
Ci sono autori sui quali ho la ferma convinzione che abbiano un inconfessabile segreto, quell'inconfessabile segreto.
Uno è De Luca, oggi lo penso anche di Corona.
Dai su, è stampato in ogni loro pagina.

Dovresti disegnarmi un volto nuovo e occhi per guardarmi
Avresti la certezza che non è di me che poi ti vuoi fidare 
In quel posto che non c'è
Hai mandato solo me

19 ottobre 2014

Capita soprattutto ai migliori

Come vuoi che sia andata, è andata così:



Ché poi un giorno parleremo anche di questa cosa che ha a che fare con il perfezionismo, con l'assoluto, con l'intransigenza, con la professionalità.
Questo fatto che io e l'altro responsabile siamo usciti dalla regia con il nervoso a mille, i nervi a fior di pelle, l'incazzatura di rara tensione per un lavoro che stava uscendo perfetto e negli ultimi dieci minuti ha svoltato nella tragedia per un incidente in diretta che in un istante ha invertito il mondo catapultandoci di colpo al confine con la perdita del cliente, lo stesso cliente che per tutte le due ore successive nelle quali noi eravamo in macchina verso casa inventando tra noi le più sincere scuse che avremmo dovuto tirar fuori da lunedì in poi per discolparci e giustificarci, ci manda sms a catena sull'onda dell'entusiasmo di risposta ricevuto dagli ospiti durante il pranzo successivo e allora una catena di "Il miglior evento della nostra storia" e "Vi riportiamo i grazie di tutti quelli in sala per un evento al quale non avevano mai assistito" e noi in macchina sempre più increduli, sempre più zitti, sempre più convinti che tra noi e quelli che guardano ciò che facciamo esista una distanza di aspettative con la quale prima o poi dovremo fare i conti e della quale soprattutto dovremo prendere coscienza anche quando noi stessi siamo convinti di aver fatto un buon lavoro.
Perché o il cliente si aspetta meno di quanto noi chiediamo a noi stessi anche quando noi crediamo di aver fatto un buon lavoro, oppure l'approfittare di quella distanza per scrollarsi di dosso la consapevolezza di aver fatto un disastro ci porterà in un lampo oltre il confine dell'accontentarsi, anche noi, che una vita così delirante non la sapremo mai più fare il giorno che smetteremo di entusiasmarci solo quando noi, non loro, ci diciamo bravi, ci diciamo capaci, ci stringiamo tra noi la mano e ci diciamo grazie.
Sono stato anche bravino questa volta, non semplice, regia in doppia lingua perché fonico e fonico di palco erano francesi e che casino un lavoro fatto di duecento comandi al minuto da splittare separando quelli per l'audio per dedicare loro apposito spazio per il mio inglese arraffazzonato che i miei altri tecnici italiani nemmeno parlano e riuscire a farlo arrivando sempre all'istante giusto, si parla di secondi, con il comando giusto per il tecnico giusto, quasi un lavoro da traduttore simultaneo, splittare il cervello per fare una regia su doppio binario tenendoli sempre coincidenti temporalmente al minuto, ne esci stremato come gli interpreti che proprio per la fatica che fa la mente a operare quel processo lì non lavorano mai più di venti minuti consecutivi e poi si danno il cambio mentre tu lo devi fare per cinque ore continue senza pausa e che fatica accidenti, che fatica.
Sono stato anche bravino ma non bravo, questa volta le lacune che solitamente riesco a dissimulare si sono fatte più evidenti e non saranno gli abbracci e i baci e i grazie entusiasti del cliente alla fine, i soliti abbracci e baci e grazie di ogni fine lavoro, a cancellare la netta consapevolezza che questa volta no, questa volta non l'abbiamo fatto un buon lavoro proprio per niente.
Che sia piaciuto a loro non significa che sia stato un lavoro fatto come siamo capaci di farlo, ma solo che l'asticella minima dei clienti per i quali lavoriamo e la nostra sono parecchio distanti tra loro e noi lo sappiamo, non sappiamo prenderci in giro, che questa volta quella distanza ha salvato il nostro prossimo lavoro ma non il nostro senso di colpa e la nostra consapevolezza di non essere stati all'altezza, alla nostra altezza.
Essere professionisti non significa essere esenti da errori, siamo umani come tutti e come tutti siamo soggetti al caso, al venerdì diciassette, alle dinamiche di gruppi sempre nuovi ogni volta e quindi sempre soggetti agli incidenti da non confidenza e non coincidenza di tempi, di modi, di procedure.
C'è una quota errore umano che è inclusa e concessa anche a noi come a tutti, l'operazione è tecnicamente riuscita ma il paziente è morto, l'aereo era a posto e il pilota più che esperto ma il fulmine ha colpito proprio l'ala, ma quella quota non comprende l'evitabile ed essere professionisti significa poter sbagliare ma non là dove si è in grado di non farlo e le condizioni permettono di non farlo.
Questa volta io ho commesso errori che ero in grado di evitare e che le condizioni mi permettevano di evitare ma che ugualmente ho commesso perché ho voluto tirare troppo la corda, ho voluto spingermi al tempo estremo, ho voluto utilizzare ogni secondo prima della messa in onda per un lavoro che avrei potuto fare meno elaborato e quindi meno lungo da fare utilizzando il tempo rimanente per riverificarlo, pur sapendo a quale rischio mi esponevo scegliendo di farlo elaborato al punto che non avrei avuto tempo di controllarlo perché l'avrei concluso un istante prima della proiezione.
Mi esponevo al rischio dell'errore non verificato e quindi possibile e quello ho commesso.
Essere professionisti non significa non sbagliare, significa essere consapevoli di poter sbagliare come tutti e quindi valutare il tempo a disposizione sapendo che una parte deve sempre essere dedicata al controllo di quanto fatto perché noi andiamo in diretta e una volta sugli schermi non c'è modo di riparare il danno.
Quando si ha troppa fiducia in se stessi si finisce col dimenticarsi che anche noi sbagliamo e così a dimenticarsi di quanto importante sia il tempo della verifica, del controllo, che si finisce col considerare superfluo.
Avevo a disposizione tempo 10 e invece che assegnare tempo 8 al lavoro e 2 alla verifica, per fare un lavoro più bello ho rischiato dedicandogli tutto il 10 che avevo fino al secondo prima della messa in onda.
E il mio errore è andato in onda.
E a nulla valgono i grazie del cliente che di quella virgola se ne frega, a nulla vale la pacca sulla spalla dei colleghi che di errori ne commettono più di me, vale solo che l'unico che in sala se n'è accorto e ha chiesto conto all'agenzia di quanto apparso si è sentito rispondere che non c'è stato nessun errore perché Bruno di errori come quello non ne commette e quella risposta è partita senza prima chiedermi di verificare se effettivamente l'avessi commesso.
Chi mi paga ha fiducia in me più di quanta ne abbia io stesso e questo è uno scollinamento che non deve mai accadere perché uno dei due che mantenga alto il cancello dell'errore dietro l'angolo deve sempre esserci, a turno si deve poter rischiare sapendo di avere intorno persone che ti imporranno la consapevolezza della fallibilità e quindi della verifica, se si salta tutti dalla scogliera non ci sarà nessuno a riva a tirarti la cima quando sbagli il tuffo e a quel punto diventa davvero solo questione di caso, unica variabile alla quale affidarsi, unico confine tra gli azzardati e i professionisti.
Ho sbagliato, sono andati tutti a festeggiare, io sono uscito da solo, sono andato al porto e mi sono regalato una lunga riflessione sul vetro di un bicchiere di birra solitario e consapevole.
Quello che là sopra, probabilmente abituato e condizionato dalla mia solita baldanza, hai scambiato per la foto di un brindisi è in realtà il riflesso di una colpa.
Io quell'errore potevo non commetterlo e non è morto nessuno, la felicità intorno ne è uscita intonsa, la gioia collettiva è esplosa come ogni altra volta, ma se io quell'errore ero in grado di evitarlo quell'errore diventa l'unica cosa con la quale io torno a casa, perché il mio primo cliente sono io, il mio primo giudice sono io e se voglio sapermi obiettivo quando mi dico bravo, devo non smettere mai di esserlo anche quando c'è da non darsela affatto quella pacca sulla spalla solo perché tutti intorno te la danno.

La realtà è che sono un caterpillar e tengo ritmi che nemmeno un esercito di sherpa, non cedo, non mi lamento, non mollo, tiro dritto qualunque cosa accada e qualsiasi sia la strada da fare per arrivare e proprio per questo quando mi dico stanco è perché il limite è stato davvero raggiunto e quando quel limite viene raggiunto si sbaglia dove mai si sarebbe sbagliato, quell'esatto punto in cui si smette di essere professionisti e quando si smette di essere professionisti si smette di essere bravi come lo sono io e nessun altro in Italia.
Nessun altro in Italia.
Io sono l'unico in Italia che fa ciò che faccio io come lo faccio io e non è un'iperbole, non sto in giro trecentosessantacinque giorni l'anno perché mi piace fare cose vedere gente fare tanti chilometri e dormire in un letto diverso ogni notte, ma perché quando serve uno come me posso andare solo io perché uno come me nel mio settore non esiste, sono l'unico in Italia nel vero senso della parola, posso dirlo in senso oggettivo, è una responsabilità enorme ed è una corona enorme e anche per questo uno sbaglio che fatto da altri è piccolo se fatto da me diventa uno sbaglio enorme, perché non sarei l'unico in Italia se non fossi uno che quando commette un piccolo errore la gente intorno non ci crede al punto che garantisce sul mio non averlo commesso senza nemmeno chiedermelo prima, io nella percezione comune non faccio nemmeno quelli piccoli e quindi quando faccio quelli piccoli diventano enormi, si chiama responsabilità della riuscita del lavoro di tutti, c'è chi ci rischia il mutuo sui miei errori, non è perfezionismo, è che proprio io giro sulle dita la vita delle persone che da me vedono dipendere il prossimo lavoro.
Ma sono l'unico in Italia ancora per poco perché una cosa così è un traguardo sul quale chiunque metterebbe la firma aggiungendo zeri ai preventivi e altrettanti ai consuntivi sui quali nessuno fiata mentre per me è un'assurda gabbia perché è vero che se chiedo la luna ormai c'è chi me la porta, ma è anche vero che il prezzo è che io non posso più dire di no a nessuno di quelli che si rivolgono a me perché se arrivano a me è perché hanno un bisogno che sono l'unico in Italia a poter risolvere e quindi questa cosa, ormai raggiunta bravo clap clap, può andare a far parte di quelle fatte e chiuse, ora si cambia si riportano indietro gli zeri sui consuntivi a una cifra che non avrò più vergogna di raccontare a persone alle quali voglio bene e che la schiena se la spezzano davvero per non prendere in un mese quanto io prendo in un giorno e si torna là dove non sono l'unico in Italia e ci penso io, così come sono stato capace di diventarlo sono capace di smettere di esserlo, ma di questo racconterò quando rientrato dalle vacanze darò il via alla fase due della mia vita professionale con una cosa che dire grande è dire poco per ottenere la quale, pensa l'importanza, ciò che ho messo sul piatto io è il mio guadagnare un terzo di quanto guadagni oggi che posso guadagnare davvero quello che voglio.
Qualcuno direbbe un matto, io dico uno al quale dei soldi non è mai fregato nulla e per questo non li ha mai fatti e ha distribuito in giro tutti quelli che gli son passati tra le mani, io voglio solo stare bene e che quelli intorno a me stiano bene, solo che non parlo in senso economico e quindi dei soldi me ne faccio oggettivamente ben poco in assenza di tutto il resto che non si può comprare, come per esempio la libertà di dire no o anche, semplicemente, di essere accanto a chi amo quando ne ha bisogno.
A me oggi manca quella e quella ora vado a riprendermi.
Ho raggiunto una tale libertà di decidere che non ho più la possibilità di farlo, che accidenti di paradosso.
E se pensi che sia uno che crede molto in me, non hai conosciuto quelli con i quali lavoro e che si sono detti disposti a, pur di rubare a tutti gli altri il mio essere l'unico in Italia.
Quando mi han detto cosa hanno bloccato in attesa di conoscere la mia decisione non ci credevo nemmeno io.
Così tanto non ci credevo nemmeno io ed è tutto dire, che cosa enorme per il mio cuoricino stanco.
E' davvero servito ogni singolo giorno di tutti questi assurdi e incredibili venti anni, comprese le cadute, le lotte e le scelte pagate, tutte a caro prezzo, una per una, sempre da solo e sempre rialzandomi e ripartendo.
Ma dio se sto raccogliendo oggi e quanto è lunga la fila di quelli ai quali lo potrei sbattere in faccia.
Uno, è lunga uno e non servirà nemmeno sbatteglielo in faccia, il non aver bisogno di farlo sarà l'ultima vittoria finale perché quel non bisogno è un non bisogno intimo, non tecnico, è un essere risolto, un non aver più la necessità di dimostrare nulla a nessuno e questa è la più grande linea che si possa raggiungere nella vita intima e personale, il momento in cui che gli altri sappiano dove sei arrivato è marginale e ininfluente, lo so io e tanto basta per sapere che la fatica è valsa, che avevo ragione io, che ho fatto bene a non smettere mai di crederci nemmeno quando è stato proprio fango e merda senza identificabili uscite a portata di mano, magari lontane ma visibili e invece non c'erano nemmeno quelle e in quel momento tocchi lo smarrimento vero, la disperazione vera e io lo stesso a non smettere di credere che l'avrei trovata un giorno e quanta vita c'è dentro il "Lo sapevo" dell'istante in cui la trovi o la costruisci ma in ogni caso e contro ogni aspettativa, soprattutto contro ogni aspettativa e previsione di quelli intorno eccitati dal loro percepirti finito perché tale appari, ne esci a testa alta, distrutta da anni di somatizzanti stabili malditesta ma alta e vaffanculo, per abbattere me mi devi proprio sparare, meno di quello vinco io qualsiasi guerra.


Adesso mi fermo e me ne vado là dove tutti hanno bisogno di andare una volta all'anno e io invece me le salto a cicli di ogni tre, là dove l'unico impegno sarà decidere cosa leggere dedicandomi finalmente a tutti i libri che le persone splendide che siete mi hanno regalato e che stanno lì ad attendere quella volta ogni due anni che ho più di due ore consecutive spensierate, decidere cosa bere tra una birra ghiacciata e l'altra, su quale culo fare le fantasie delle ore successive come unica attività neuronale, dove andare a mangiare il pesce più buono dell'isola per stasera, e poi per domani sera, e poi per la sera dopo e per tutte le quattordici che passerò lontano da quest'Italia nella quale sono unico.
Non mi pare vero che stia per andare davvero in vacanza.
Poi torno e cambio per l'ennesima volta vita, questa possiamo dirla giunta al traguardo massimo raggiungibile e sedersi non è cosa per quelli come me che sono unici.

Potevi essere al mio fianco anche nella prossima, potevi far parte di una vita meravigliosa che chiede solo di essere condivisa perché tutto questo nella mia sola non ci sta, hai preferito altro, tecnicamente si dice in bocca al lupo, ci vedremo quando avremo settant'anni, quando non avrai altro da dirmi che "Ho sbagliato" incartato in un rimpianto del quale io mi sarò liberato decenni prima e io non avrò altro da rispondere che "Capita anche ai migliori, pensa che una volta ho sbagliato persino io. Perdònati, io l'ho fatto".