“Non mi chiami Dottore, dammi pure del tu” rispose il Dottore
“Si, dicevo, dottore, vorrei che mi aiutasse a capire una cosa” ribatté lui.
“Dimmi”
“L’altra sera, anche l’altra sera, diciamo ultimamente, mi ritrovo a fare dei ragionamenti per chiudere i quali mi manca sempre e solo un punto” e proseguì “e ogni volta tutto torna finché non arrivo a quel punto, oltre il quale non riesco ad andare”
“Ragionamenti su cosa?”
“Sulle conseguenze dei traumi”
“Dimmi di più”
“Vede dottore, è che qualsiasi corrente di pensiero, sia che si occupi dell’aspetto mentale, che di quello fisico, dice sempre la stessa cosa” proseguì
“Cosa?” insistette il dottore
“Che i traumi, quando si possono chiamare tali, lasciano tracce, provocano disturbi sia fisici che mentali, a volte immediati, altre dopo un tempo a volte anche lungo”
“E…?” rispose il dottore.
“E che se per di più i traumi sono diversi, violenti e circoscritti in un lasso di tempo non così lungo da permettere di sfogare il precedente prima di subire il successivo, è matematico che un danno lo facciano”
“E tu questo non lo capisci?” si stupì il dottore
“No, no, lo capisco eccome, non è questo l’ostacolo che non riesco a superare” disse lui
“E qual è?” disse il dottore.
Lui, dopo un attimo di pausa, chiese
“Perché a me non è successo?”
29 marzo 2005
28 marzo 2005
Pasqua
Dire che questa è stata una bella pasqua, viene difficile pure a me che bevo solo da bicchieri mezzo pieni da circa trent’anni.
“Mi dispiace”
“Per cosa?”
“Per un sacco di cose”.
Ora immaginate questa frase detta da un marcantonio di fratello di 34 anni, che in 120 chilometri dice solo questa frase, per passare i successivi 80, chilometro più chilometro meno, diciamo da Torino, dove sei andato a (ri)prenderlo, fino a spanne a Novara, a singhiozzare non cercando nemmeno più di nascondersi, tanto è profondo il buco dal quale sei andato a riprenderlo.
Poi ditemi “Passata bene la pasqua?”
E accettate il mio “no” senza andare oltre.
Ma c’è la nonna.
Ma si, quella che ogni volta mi racconta un aneddoto di quando eravamo piccoli.
La nonna, insomma, come altro la puoi descrivere?
Quella che cucina?
Si, aspetta, la cucina, dopo.
L’aneddoto di questa volta racconta dell’asilo nido.
La nonna non sa che il compito pasquale di Mario è tipo elisoccorso, quello di mettere Mario Bros nel baule della macchina, tra le catene per non uscire di strada e le cartine senza le strade del ritorno, e difenderlo dai mostri fino a casa.
Cioè, casa per come la intende lui.
Cioè, come non la intende lui.
Cioè come nemmeno lei, come del resto lui, fino a oggi aveva mai capito di che casa si sta, da due anni, parlando.
Fine antefatto a testimonianza di bravura di nonna.
L’aneddoto:
Mario Bros venne iscritto al nido, come da anagrafe, un anno prima di Mario.
La nonna, come da storia, andava a prendere e portava Mario Bros ogni giorno al nido, e Mario poi lo riportava con lei a casa.
Mario Bros urlava.
Dice la nonna, da quando con la macchina imboccava la via del nido.
La riconosceva e urlava.
Lo tiravano giù dalla macchina e urlava.
Lo portavano dentro e urlava.
La bidella un giorno disse alla nonna
“Lei oggi non scende nemmeno dalla macchina così si abitua”
e la costrinse a restare in macchina.
Mario Bros urlava di più.
Un giorno poi anche Mario venne iscritto allo stesso nido.
Il giorno che Mario Bros entrò al nido con Mario, non pianse.
Non pianse più da quel giorno in poi.
Fine dell’aneddoto.
La cucina, dicevamo.
La nonna è quella che cucina come la nonna.
Sembra un controsenso ma solo perché è troppo perfetto per essere vero.
Si autoconferma, diciamo.
È inappellabile.
Cucina anche gli altri giorni figurati a pasqua.
Ma oggi non era pasqua e non si è mangiato tutto quello che lei aveva messo in tavola.
Si aveva poca fame e tanta fretta di tornare a casa.
E poi alla fine allora le scatole più grandi per tutti.
Le scatole sono quelle vaschette d’alluminio nelle quali ogni volta che pranzi dalla nonna lei impacchetta la possibilità di cenarci, anche.
Sono laboratori in miniatura per la clonazione dei pranzi della nonna.
Sono come il cilindro del mago.
lei ci mette un tovagliolo, quando tu le apri ci trovi un coniglio.
Come il suo congelatore, nel quale risiede, pagato con la sua sola (mai aumentata) pensione minima, cibo sufficiente per tutti gli amici che le porti, a sorpresa, a casa.
Amici che mangiano sempre almeno un piatto di pasta fatta in casa, almeno un barattolo di peperoncini ripieni, almeno due cotolette, almeno un contorno caldo, almeno un dolce.
La gente non lo sa, ma i segreti di Fatima non sono solo tre.
Ce n’è un altro.
Mia nonna.
Quella delle scatole.
Quelle che ogni volta lei ce le consegna, noi non glie le riportiamo mai indietro, e la volta dopo quando pretendiamo la nostra scatola, alla sua, sempre finta, incazzatura “Non ho più contenitori! Ve li ho dati tutti e non me li riportate mai! Avete le case piene dei miei contenitori!” noi rispondiamo puntuali “Contenitori? Noi? Ma guarda che non li abbiamo!” senza mai essere usciti da casa sua con meno di dieci contenitori d’alluminio, senza mai esserci entrati con non dico due ma nemmeno uno pulito.
Un rito.
Antefatto: Mario sta per partire e allora dice
“No, nonna, metti solo la pasta, perché mangerò solo stasera e non voglio buttare la roba perché la lascio una settimana in frigo”
“Ma nemmeno due polpette?”
“No, nonna, davvero, tanto sono pienissimo e stasera la pasta andrà benissimo, lascerei il resto”
“Ma nemmeno un po’ di agnello?”
“No, nonna, sul serio, non insistere, lo dico davvero solo perché non li voglio buttare. Dalli a loro”
Il fatto:
Poi Mario arriva a casa, e ride un po’ al telefono con la nonna più giovane del mondo delle nonne.
Cioè, un po’, ci passa un’ora, diciamo.
E più lei racconta una cosa bella e più lui sorride.
E più lei parla e più lui si rasserena.
E più lei ride e più lui sente tornare la fame.
Ma le scatole erano quelle piccole di chi è un po’ triste e a lui dispiaceva perché adesso quelle due polpette le avrebbe mangiate volentieri, eccome.
Ma vabbè.
È lui che aveva rotto le palle.
“Andiamo a scaldare la pasta, vah”, pensò Mario.
Nella scatola:
Due dosi di pasta.
Quattro polpette.
Due pezzi d’agnello.
A nonna Mària.
Con due mani.
Come ci ha sempre mostrato.
“Mi dispiace”
“Per cosa?”
“Per un sacco di cose”.
Ora immaginate questa frase detta da un marcantonio di fratello di 34 anni, che in 120 chilometri dice solo questa frase, per passare i successivi 80, chilometro più chilometro meno, diciamo da Torino, dove sei andato a (ri)prenderlo, fino a spanne a Novara, a singhiozzare non cercando nemmeno più di nascondersi, tanto è profondo il buco dal quale sei andato a riprenderlo.
Poi ditemi “Passata bene la pasqua?”
E accettate il mio “no” senza andare oltre.
Ma c’è la nonna.
Ma si, quella che ogni volta mi racconta un aneddoto di quando eravamo piccoli.
La nonna, insomma, come altro la puoi descrivere?
Quella che cucina?
Si, aspetta, la cucina, dopo.
L’aneddoto di questa volta racconta dell’asilo nido.
La nonna non sa che il compito pasquale di Mario è tipo elisoccorso, quello di mettere Mario Bros nel baule della macchina, tra le catene per non uscire di strada e le cartine senza le strade del ritorno, e difenderlo dai mostri fino a casa.
Cioè, casa per come la intende lui.
Cioè, come non la intende lui.
Cioè come nemmeno lei, come del resto lui, fino a oggi aveva mai capito di che casa si sta, da due anni, parlando.
Fine antefatto a testimonianza di bravura di nonna.
L’aneddoto:
Mario Bros venne iscritto al nido, come da anagrafe, un anno prima di Mario.
La nonna, come da storia, andava a prendere e portava Mario Bros ogni giorno al nido, e Mario poi lo riportava con lei a casa.
Mario Bros urlava.
Dice la nonna, da quando con la macchina imboccava la via del nido.
La riconosceva e urlava.
Lo tiravano giù dalla macchina e urlava.
Lo portavano dentro e urlava.
La bidella un giorno disse alla nonna
“Lei oggi non scende nemmeno dalla macchina così si abitua”
e la costrinse a restare in macchina.
Mario Bros urlava di più.
Un giorno poi anche Mario venne iscritto allo stesso nido.
Il giorno che Mario Bros entrò al nido con Mario, non pianse.
Non pianse più da quel giorno in poi.
Fine dell’aneddoto.
La cucina, dicevamo.
La nonna è quella che cucina come la nonna.
Sembra un controsenso ma solo perché è troppo perfetto per essere vero.
Si autoconferma, diciamo.
È inappellabile.
Cucina anche gli altri giorni figurati a pasqua.
Ma oggi non era pasqua e non si è mangiato tutto quello che lei aveva messo in tavola.
Si aveva poca fame e tanta fretta di tornare a casa.
E poi alla fine allora le scatole più grandi per tutti.
Le scatole sono quelle vaschette d’alluminio nelle quali ogni volta che pranzi dalla nonna lei impacchetta la possibilità di cenarci, anche.
Sono laboratori in miniatura per la clonazione dei pranzi della nonna.
Sono come il cilindro del mago.
lei ci mette un tovagliolo, quando tu le apri ci trovi un coniglio.
Come il suo congelatore, nel quale risiede, pagato con la sua sola (mai aumentata) pensione minima, cibo sufficiente per tutti gli amici che le porti, a sorpresa, a casa.
Amici che mangiano sempre almeno un piatto di pasta fatta in casa, almeno un barattolo di peperoncini ripieni, almeno due cotolette, almeno un contorno caldo, almeno un dolce.
La gente non lo sa, ma i segreti di Fatima non sono solo tre.
Ce n’è un altro.
Mia nonna.
Quella delle scatole.
Quelle che ogni volta lei ce le consegna, noi non glie le riportiamo mai indietro, e la volta dopo quando pretendiamo la nostra scatola, alla sua, sempre finta, incazzatura “Non ho più contenitori! Ve li ho dati tutti e non me li riportate mai! Avete le case piene dei miei contenitori!” noi rispondiamo puntuali “Contenitori? Noi? Ma guarda che non li abbiamo!” senza mai essere usciti da casa sua con meno di dieci contenitori d’alluminio, senza mai esserci entrati con non dico due ma nemmeno uno pulito.
Un rito.
Antefatto: Mario sta per partire e allora dice
“No, nonna, metti solo la pasta, perché mangerò solo stasera e non voglio buttare la roba perché la lascio una settimana in frigo”
“Ma nemmeno due polpette?”
“No, nonna, davvero, tanto sono pienissimo e stasera la pasta andrà benissimo, lascerei il resto”
“Ma nemmeno un po’ di agnello?”
“No, nonna, sul serio, non insistere, lo dico davvero solo perché non li voglio buttare. Dalli a loro”
Il fatto:
Poi Mario arriva a casa, e ride un po’ al telefono con la nonna più giovane del mondo delle nonne.
Cioè, un po’, ci passa un’ora, diciamo.
E più lei racconta una cosa bella e più lui sorride.
E più lei parla e più lui si rasserena.
E più lei ride e più lui sente tornare la fame.
Ma le scatole erano quelle piccole di chi è un po’ triste e a lui dispiaceva perché adesso quelle due polpette le avrebbe mangiate volentieri, eccome.
Ma vabbè.
È lui che aveva rotto le palle.
“Andiamo a scaldare la pasta, vah”, pensò Mario.
Nella scatola:
Due dosi di pasta.
Quattro polpette.
Due pezzi d’agnello.
A nonna Mària.
Con due mani.
Come ci ha sempre mostrato.
25 marzo 2005
LaVale
Che io non abbia link è cosa nota.
Che a me non interessi il gioco dei link, è cosa altrettanto nota.
Che io non sopporti “Io ti linko tu mi linki” per incrementare accessi, è ancora più noto.
E allora mi posso permettere il lusso di scriverci un post, quando incontro qualcuno che merita di essere suggerito.
Senza che nessuno chieda niente e offra niente.
Così, come quando sostieni un candidato politico e senza chiedere soldi in cambio ti piazzi nei giorni del mercato all’inizio della via con un grande cartello appeso al collo con su scritto
“Ho incontrato tre figli e una (gran) mamma”
e tutti ti guardano e ti dicono
“Ma non ti senti scemo, vestito così?”
e tu rispondi
“Ma tu l’hai mai sentita parlare?”
è fantastica.
non ha nemmeno il contatore di accessi.
cazzo, esisono i blog senza contatore di accessi.
Io mi sento scemo solo perché sono certo di essere l’unico che ancora non l’aveva mai letta.
Non può essere altrimenti.
Infatti ritengo questo post assolutamente inutile.
Ma magari invece nemmeno tu la conoscevi.
E se prima eravamo in due a ballare l’alli-galli,
adesso siamo in tre a ballare l’alli-galli.
Tre più una (gran) mamma.
Scemo per scemo…
Tanto vale sbracare.
ma non le dite che vi ho mandati io.
non ditele nulla.
va tutto bene così com'è.
Che a me non interessi il gioco dei link, è cosa altrettanto nota.
Che io non sopporti “Io ti linko tu mi linki” per incrementare accessi, è ancora più noto.
E allora mi posso permettere il lusso di scriverci un post, quando incontro qualcuno che merita di essere suggerito.
Senza che nessuno chieda niente e offra niente.
Così, come quando sostieni un candidato politico e senza chiedere soldi in cambio ti piazzi nei giorni del mercato all’inizio della via con un grande cartello appeso al collo con su scritto
“Ho incontrato tre figli e una (gran) mamma”
e tutti ti guardano e ti dicono
“Ma non ti senti scemo, vestito così?”
e tu rispondi
“Ma tu l’hai mai sentita parlare?”
è fantastica.
non ha nemmeno il contatore di accessi.
cazzo, esisono i blog senza contatore di accessi.
Io mi sento scemo solo perché sono certo di essere l’unico che ancora non l’aveva mai letta.
Non può essere altrimenti.
Infatti ritengo questo post assolutamente inutile.
Ma magari invece nemmeno tu la conoscevi.
E se prima eravamo in due a ballare l’alli-galli,
adesso siamo in tre a ballare l’alli-galli.
Tre più una (gran) mamma.
Scemo per scemo…
Tanto vale sbracare.
ma non le dite che vi ho mandati io.
non ditele nulla.
va tutto bene così com'è.
24 marzo 2005
Smell
Il profumo era buono.
Lo ricordava così, uguale, dalla volta prima.
Aveva memoria, lui, per i profumi.
Gli piacevano.
Le forme, nella sua mente, venivano catalogate per profumi.
Sentiva un profumo e si ricordava perfettamente la forma.
Le persone, nella sua mente, avevano un profumo, non un nome.
Era per questo che lui amava i profumi.
Lo aiutavano a ricordare.
Quella sera scoprì il trucco dei profumi.
Fu un attimo, un lampo,
e tutto gli fu chiaro.
Scoprì che i profumi non servivano a migliorare il durante.
quello era solo un effetto secondario.
Si rese conto che il loro vero compito lo svolgevano dopo.
Quando, tornato a casa, alla fine della serata, si mise a letto
e, appoggiandole sul cuscino, involontariamente, avvicinò le mani al viso.
Niente altro al mondo avrebbe avuto quell’effetto lì.
Lo ricordava così, uguale, dalla volta prima.
Aveva memoria, lui, per i profumi.
Gli piacevano.
Le forme, nella sua mente, venivano catalogate per profumi.
Sentiva un profumo e si ricordava perfettamente la forma.
Le persone, nella sua mente, avevano un profumo, non un nome.
Era per questo che lui amava i profumi.
Lo aiutavano a ricordare.
Quella sera scoprì il trucco dei profumi.
Fu un attimo, un lampo,
e tutto gli fu chiaro.
Scoprì che i profumi non servivano a migliorare il durante.
quello era solo un effetto secondario.
Si rese conto che il loro vero compito lo svolgevano dopo.
Quando, tornato a casa, alla fine della serata, si mise a letto
e, appoggiandole sul cuscino, involontariamente, avvicinò le mani al viso.
Niente altro al mondo avrebbe avuto quell’effetto lì.
22 marzo 2005
Testamento biologico
Se ne parla, in questi giorni.
La cronaca porta a parlarne, il cinema porta a parlarne, le notizie portano a parlarne.
Però si tende a spersonalizzarlo, se mi è concesso il termine.
Per paura, per scaramanzia.
Il più delle volte solo perché si pensa che non sia bello parlarne su se stessi, perché spunterebbe subito chi dice
“Eh… porta sfiga!” oppure “Ma no, a me non può succedere”.
E invece può succedere.
E allora per una volta faccio un uso vero di questo inutile mezzo.
E metto nero su bianco una cosa che magari, chissà, domani potrei non poter dire.
Perché checchè se ne dica, domani potrei non poterlo esprimere.
E so che mi pentirei di non aver approfittato di quest’occasione per farlo.
Di che si parla?
Di eutanasia.
Nelle prossime righe metto nero su bianco quello che voglio, quello che penso, quello che chi mi ama dovrà fare per me, se mai mi trovassi a non poter dire ciò che desidero.
Per questo motivo chi si è connesso sperando di trovare “Io stamattina alzato e fatto colazione ke figa quella tipa” non vada oltre.
Oggi dico una cosa che, anche se sembra triste, è una cosa che una sola volta nella vita, in stato di coscienza e lucidità tutti dovrebbero fare.
Oggi dirò cosa fare se.
E se questa cosa rattristerà qualcuno, me ne fotto.
Quello che pagherei io, nel caso ci fossero un giorno dubbi sulla mia volontà, non è nulla in confronto.
Staccate la spina.
E se non ve lo consentiranno inciampate nel filo.
E se non ve lo consentiranno fate lo sgambetto al medico facendolo cadere sul filo.
E se vi controlleranno a vista appoggiatevi al letto come per farmi una carezza e premete col gomito il tubo della flebo il tempo necessario, una frazione di secondo, per formare nel flusso del liquido una piccolissima ma definitiva bolla d’aria.
E fatelo per me.
E fatelo sapendo che è quello che desidero.
E se in quel momento cortei di persone si metteranno a confondervi le idee inscenando veglie di preghiera per me, fottetevene.
E se decine di persone si incerotteranno la bocca per convincervi che solo Dio può decidere di togliermi la vita, dite loro di impegnare il loro tempo nei loro affari, nelle loro menate quotidiane, nell’educazione dei loro figli, nell’estinzione del loro mutuo, nel nascondere i loro scheletri.
Qualsiasi cosa basta che non si facciano i cazzi miei.
Non date loro la possibilità di farmi impersonare l’alibi per i loro errori.
Non permettete loro di interessarsi a me, perché quella che per loro è una battaglia ideologica dello stesso valore della difesa della pelliccia delle foche, per me significherà sofferenza.
Non date loro la possibilità di firmare col mio nome il loro biglietto per il paradiso.
E se fior di teologi impegneranno i loro preziosi giorni in dibattiti televisivi il cui unico scopo è infilare il loro credo anche nella mia vita, nonostante io l’abbia spesa per tenerli al di fuori, impediteglielo con tutte le vostre forze.
Dite loro che non mi interessa il loro parere.
Dite loro che non ho chiesto il loro aiuto.
Spegnetemi.
Non lasciate che la mia vita diventi merce di scambio.
Non condannatemi a guardare il soffitto di una stanza per il resto della mia vita.
E se per caso il dilemma riguardasse il fatto che l’eventuale malattia mi avrà tolto l’uso dei muscoli ma non quello della coscienza, se per caso il mio essere malato non riguarderà la lucidità mentale, allora sappiate che per me la sofferenza sarà doppia.
E se loro diranno che ancora sorrido, se diranno che non muovo più un muscolo ma il cervello ancora funziona, ancora di più combattete per spegnermi.
Perché per me la condanna sarà ancora più dura.
Perché vorrà dire che avrò la capacità di rendermi conto che sto vivendo quella che non sarà una vita.
E io quella vita non la voglio vivere.
E non titubate di fronte ai miei occhi.
Se vi troverete a dover interpretare il mio battito di palpebre, se dovrete scegliere se chiudendole avrò detto “Si” oppure “No” oppure “grazie”, sappiate che quelle palpebre staranno dicendo solo “basta”.
E se le chiuderò un’altra volta vi starò dicendo anche “per favore” oltre che “basta”.
E non fatevi scrupoli.
Sarà proprio il mio essere cosciente, il motivo per il quale dovrete scegliere di spegnermi.
Non obbligatemi a rendermi conto per uno, dieci, venti anni, che il mio mondo sarà circoscritto nell’area di un lenzuolo.
Non condannatemi a tanto.
Quella sarebbe la vera sofferenza.
E se per caso non dovessi nemmeno essere cosciente, allora ancora di più, spegnetemi.
Perché amo chi mi starebbe accanto.
E alle persone che amo io non vorrei mai regalare anni di sofferenza.
E non mi interessa avere qualcuno che mi fa fare ginnastica per gambe che comunque non userò mai.
E non voglio che la fine della mia vita sia la fine anche della vita delle persone che amo.
Vivete.
Spegnetemi e vivete al posto mio.
Non voglio che il salotto della casa dove sono cresciuto si trasformi in una stanza d’ospedale per il resto della mia vita.
Metteteci una mia foto, al massimo, e ricordatemi quando correvo, quando pattinavo, quando sorridevo, quando amavo.
E se per caso qualche pezzo di me dovesse risultare ancora utilizzabile, non esitate a regalarlo.
E quello che avanza riducetelo in polvere.
Perché io non sono un’anima che si porta in giro un corpo.
Io sono un corpo.
Io sono le mie mani, io sono il mio cuore, io sono i miei occhi.
E le mie mani sono cresciute toccando, penetrando, graffiando, non possono vivere altrimenti.
E il mio cuore è cresciuto emozionandosi, scoppiando, rallentando, sanguinando, non potrebbe vivere altrimenti.
E i miei occhi hanno visto il mondo, hanno pianto per amore, si sono gonfiati per l’emozione, hanno cercato la bellezza in ogni stronzissimo battito di ciglia, non vogliono altro.
E se io non sarò più in grado di portarli in giro per il mondo, che sia qualcun altro a farlo.
Non togliete anche a loro la possibilità di vivere.
Non togliete al mio cuore la possibilità di amare, non impedite ai miei polmoni di farsi ancora canne, lasciate al mio fegato la possibilità di filtrare ancora un buon rhum cubano, una grappa morbida della Valtellina.
E se ve lo consentiranno, anche i miei capelli regalate, perché siano ancora una volta accarezzati.
La mia vita serve solo a rendere onore a tutto questo.
Ha senso solo se potrò avere tutto questo.
E a tutti quelli che diranno che solo dio dà la vita e solo dio può toglierla, tu, mamma, fatti guerriero per me.
Perché la vita me l’hai data tu, non dio.
E me l’hai data, non me l’hai prestata.
Ora è mia.
E io voglio farne ciò che ritengo giusto per me, non per la chiesa, non per la coscienza di cento, mille, centomila stronzi che domani, finita l’ennesima battaglia alla moda, a differenza di me potranno andare al mare a nuotare, potranno tenere in braccio il loro figlio, potranno scopare, potranno fare tutto ciò che secondo loro io dovrò solo immaginare da quel giorno in poi immobilizzato in un letto.
Nemmeno guardare.
Solo pensare.
Immaginare.
Ricordare.
Dio che condanna sarebbe.
Guardami quel giorno, se mai dovesse capitare.
Pensa a me, a tutto quello che hai letto di me, a tutte le emozioni grazie alle quali ho vissuto, alle mie donne, ai miei amici, al cibo, al buon vino, alle giornate al mare, alla tavola della nonna, ai natali in famiglia, a quando ballavo da piccolo, a quando ho pianto da grande, alle ginocchia sbucciate, ai treni presi, ai regali scartati, ai fiori comprati, alle battaglie combattute, alle paure sconfitte, alla chitarra suonata, ai bei voti presi a scuola, ai vestiti che mi andavano grandi.
Guardami quel giorno.
E ricordati che per me, vivere, vuol dire tutto questo.
Vuol dire pelle d’oca, vuol dire sapori, vuol dire profumi, vuol dire emozioni.
E se ti diranno che l’espressione che vedi sul mio viso è un sorriso, e quindi coscienza, rispondi loro che no.
Non è coscienza.
Quel sorriso, quel giorno, significherà soltanto ”Grazie”
Per quello che è stato.
E perché mi darai la possibilità di non soffrire più.
Quel sorriso sarà soltanto la certezza che tu, almeno tu, non mi costringerai a soffrire ulteriormente.
E per quel sollievo io sorriderò.
Perché saprò che almeno su di te potrò contare.
E perché saprò che la tua vicinanza significherà che tutto quell’orrenda vita starà finalmente per finire.
Non mi abbandonare, quel giorno.
Fai quello per cui mi hai creato.
Fammi felice.
Dammi un bacio sulla fronte e spegnimi come mi hai acceso.
Con amore.
Non chiedo altro.
Questo è un testamento biologico.
Scritto e salvato su un server attraverso password che solo io conosco.
E secondo le nuove leggi che regolano internet, se non sbaglio, ha valore legale.
La cronaca porta a parlarne, il cinema porta a parlarne, le notizie portano a parlarne.
Però si tende a spersonalizzarlo, se mi è concesso il termine.
Per paura, per scaramanzia.
Il più delle volte solo perché si pensa che non sia bello parlarne su se stessi, perché spunterebbe subito chi dice
“Eh… porta sfiga!” oppure “Ma no, a me non può succedere”.
E invece può succedere.
E allora per una volta faccio un uso vero di questo inutile mezzo.
E metto nero su bianco una cosa che magari, chissà, domani potrei non poter dire.
Perché checchè se ne dica, domani potrei non poterlo esprimere.
E so che mi pentirei di non aver approfittato di quest’occasione per farlo.
Di che si parla?
Di eutanasia.
Nelle prossime righe metto nero su bianco quello che voglio, quello che penso, quello che chi mi ama dovrà fare per me, se mai mi trovassi a non poter dire ciò che desidero.
Per questo motivo chi si è connesso sperando di trovare “Io stamattina alzato e fatto colazione ke figa quella tipa” non vada oltre.
Oggi dico una cosa che, anche se sembra triste, è una cosa che una sola volta nella vita, in stato di coscienza e lucidità tutti dovrebbero fare.
Oggi dirò cosa fare se.
E se questa cosa rattristerà qualcuno, me ne fotto.
Quello che pagherei io, nel caso ci fossero un giorno dubbi sulla mia volontà, non è nulla in confronto.
Staccate la spina.
E se non ve lo consentiranno inciampate nel filo.
E se non ve lo consentiranno fate lo sgambetto al medico facendolo cadere sul filo.
E se vi controlleranno a vista appoggiatevi al letto come per farmi una carezza e premete col gomito il tubo della flebo il tempo necessario, una frazione di secondo, per formare nel flusso del liquido una piccolissima ma definitiva bolla d’aria.
E fatelo per me.
E fatelo sapendo che è quello che desidero.
E se in quel momento cortei di persone si metteranno a confondervi le idee inscenando veglie di preghiera per me, fottetevene.
E se decine di persone si incerotteranno la bocca per convincervi che solo Dio può decidere di togliermi la vita, dite loro di impegnare il loro tempo nei loro affari, nelle loro menate quotidiane, nell’educazione dei loro figli, nell’estinzione del loro mutuo, nel nascondere i loro scheletri.
Qualsiasi cosa basta che non si facciano i cazzi miei.
Non date loro la possibilità di farmi impersonare l’alibi per i loro errori.
Non permettete loro di interessarsi a me, perché quella che per loro è una battaglia ideologica dello stesso valore della difesa della pelliccia delle foche, per me significherà sofferenza.
Non date loro la possibilità di firmare col mio nome il loro biglietto per il paradiso.
E se fior di teologi impegneranno i loro preziosi giorni in dibattiti televisivi il cui unico scopo è infilare il loro credo anche nella mia vita, nonostante io l’abbia spesa per tenerli al di fuori, impediteglielo con tutte le vostre forze.
Dite loro che non mi interessa il loro parere.
Dite loro che non ho chiesto il loro aiuto.
Spegnetemi.
Non lasciate che la mia vita diventi merce di scambio.
Non condannatemi a guardare il soffitto di una stanza per il resto della mia vita.
E se per caso il dilemma riguardasse il fatto che l’eventuale malattia mi avrà tolto l’uso dei muscoli ma non quello della coscienza, se per caso il mio essere malato non riguarderà la lucidità mentale, allora sappiate che per me la sofferenza sarà doppia.
E se loro diranno che ancora sorrido, se diranno che non muovo più un muscolo ma il cervello ancora funziona, ancora di più combattete per spegnermi.
Perché per me la condanna sarà ancora più dura.
Perché vorrà dire che avrò la capacità di rendermi conto che sto vivendo quella che non sarà una vita.
E io quella vita non la voglio vivere.
E non titubate di fronte ai miei occhi.
Se vi troverete a dover interpretare il mio battito di palpebre, se dovrete scegliere se chiudendole avrò detto “Si” oppure “No” oppure “grazie”, sappiate che quelle palpebre staranno dicendo solo “basta”.
E se le chiuderò un’altra volta vi starò dicendo anche “per favore” oltre che “basta”.
E non fatevi scrupoli.
Sarà proprio il mio essere cosciente, il motivo per il quale dovrete scegliere di spegnermi.
Non obbligatemi a rendermi conto per uno, dieci, venti anni, che il mio mondo sarà circoscritto nell’area di un lenzuolo.
Non condannatemi a tanto.
Quella sarebbe la vera sofferenza.
E se per caso non dovessi nemmeno essere cosciente, allora ancora di più, spegnetemi.
Perché amo chi mi starebbe accanto.
E alle persone che amo io non vorrei mai regalare anni di sofferenza.
E non mi interessa avere qualcuno che mi fa fare ginnastica per gambe che comunque non userò mai.
E non voglio che la fine della mia vita sia la fine anche della vita delle persone che amo.
Vivete.
Spegnetemi e vivete al posto mio.
Non voglio che il salotto della casa dove sono cresciuto si trasformi in una stanza d’ospedale per il resto della mia vita.
Metteteci una mia foto, al massimo, e ricordatemi quando correvo, quando pattinavo, quando sorridevo, quando amavo.
E se per caso qualche pezzo di me dovesse risultare ancora utilizzabile, non esitate a regalarlo.
E quello che avanza riducetelo in polvere.
Perché io non sono un’anima che si porta in giro un corpo.
Io sono un corpo.
Io sono le mie mani, io sono il mio cuore, io sono i miei occhi.
E le mie mani sono cresciute toccando, penetrando, graffiando, non possono vivere altrimenti.
E il mio cuore è cresciuto emozionandosi, scoppiando, rallentando, sanguinando, non potrebbe vivere altrimenti.
E i miei occhi hanno visto il mondo, hanno pianto per amore, si sono gonfiati per l’emozione, hanno cercato la bellezza in ogni stronzissimo battito di ciglia, non vogliono altro.
E se io non sarò più in grado di portarli in giro per il mondo, che sia qualcun altro a farlo.
Non togliete anche a loro la possibilità di vivere.
Non togliete al mio cuore la possibilità di amare, non impedite ai miei polmoni di farsi ancora canne, lasciate al mio fegato la possibilità di filtrare ancora un buon rhum cubano, una grappa morbida della Valtellina.
E se ve lo consentiranno, anche i miei capelli regalate, perché siano ancora una volta accarezzati.
La mia vita serve solo a rendere onore a tutto questo.
Ha senso solo se potrò avere tutto questo.
E a tutti quelli che diranno che solo dio dà la vita e solo dio può toglierla, tu, mamma, fatti guerriero per me.
Perché la vita me l’hai data tu, non dio.
E me l’hai data, non me l’hai prestata.
Ora è mia.
E io voglio farne ciò che ritengo giusto per me, non per la chiesa, non per la coscienza di cento, mille, centomila stronzi che domani, finita l’ennesima battaglia alla moda, a differenza di me potranno andare al mare a nuotare, potranno tenere in braccio il loro figlio, potranno scopare, potranno fare tutto ciò che secondo loro io dovrò solo immaginare da quel giorno in poi immobilizzato in un letto.
Nemmeno guardare.
Solo pensare.
Immaginare.
Ricordare.
Dio che condanna sarebbe.
Guardami quel giorno, se mai dovesse capitare.
Pensa a me, a tutto quello che hai letto di me, a tutte le emozioni grazie alle quali ho vissuto, alle mie donne, ai miei amici, al cibo, al buon vino, alle giornate al mare, alla tavola della nonna, ai natali in famiglia, a quando ballavo da piccolo, a quando ho pianto da grande, alle ginocchia sbucciate, ai treni presi, ai regali scartati, ai fiori comprati, alle battaglie combattute, alle paure sconfitte, alla chitarra suonata, ai bei voti presi a scuola, ai vestiti che mi andavano grandi.
Guardami quel giorno.
E ricordati che per me, vivere, vuol dire tutto questo.
Vuol dire pelle d’oca, vuol dire sapori, vuol dire profumi, vuol dire emozioni.
E se ti diranno che l’espressione che vedi sul mio viso è un sorriso, e quindi coscienza, rispondi loro che no.
Non è coscienza.
Quel sorriso, quel giorno, significherà soltanto ”Grazie”
Per quello che è stato.
E perché mi darai la possibilità di non soffrire più.
Quel sorriso sarà soltanto la certezza che tu, almeno tu, non mi costringerai a soffrire ulteriormente.
E per quel sollievo io sorriderò.
Perché saprò che almeno su di te potrò contare.
E perché saprò che la tua vicinanza significherà che tutto quell’orrenda vita starà finalmente per finire.
Non mi abbandonare, quel giorno.
Fai quello per cui mi hai creato.
Fammi felice.
Dammi un bacio sulla fronte e spegnimi come mi hai acceso.
Con amore.
Non chiedo altro.
Questo è un testamento biologico.
Scritto e salvato su un server attraverso password che solo io conosco.
E secondo le nuove leggi che regolano internet, se non sbaglio, ha valore legale.
19 marzo 2005
Dadi
Ogni anno, il 19 marzo, la stessa domanda.
L’avrai fatto apposta a farmi ricevere la telefonata che mi annunciava la tua dipartita proprio il giorno della festa del papà?
Non so, mi sembra tanto lo scherzo finale.
Troppo perfetto per essere casuale.
Così ogni anno, il 19 marzo, non so mai se essere triste perché non ci sei più o se essere incazzato perché ti se rubato la ricorrenza trasformandola in anniversario.
In ogni caso, sempre di più, sono convinto che il 1 aprile sarebbe stato più azzeccato.
Io stasera andrò a cena fuori con gli amici perché, sai, io sto bene.
Cioè, meglio.
Nel senso, risolto.
Insomma, elaborato.
Vabbè.
Auguri, papà.
Il vero scherzo, forse, sono io.
E infatti mi sono tanto simpatico.
Sapessi le risate.
Auguri.
O ciao.
Ogni anno lo stesso dubbio.
L’avrai fatto apposta a farmi ricevere la telefonata che mi annunciava la tua dipartita proprio il giorno della festa del papà?
Non so, mi sembra tanto lo scherzo finale.
Troppo perfetto per essere casuale.
Così ogni anno, il 19 marzo, non so mai se essere triste perché non ci sei più o se essere incazzato perché ti se rubato la ricorrenza trasformandola in anniversario.
In ogni caso, sempre di più, sono convinto che il 1 aprile sarebbe stato più azzeccato.
Io stasera andrò a cena fuori con gli amici perché, sai, io sto bene.
Cioè, meglio.
Nel senso, risolto.
Insomma, elaborato.
Vabbè.
Auguri, papà.
Il vero scherzo, forse, sono io.
E infatti mi sono tanto simpatico.
Sapessi le risate.
Auguri.
O ciao.
Ogni anno lo stesso dubbio.
1 marzo 2005
Auguri Vale
Il mio compito era occuparmi delle candeline.
Di fronte alla vetrina ho avuto difficoltà a ricordare quanti anni facevi.
Ho chiamato mamma e lei mi ha detto “Eh, uno più di te, no?”.
Ho capito perché ha chiesto a me di occuparmi delle candeline.
Solo che ho avuto difficoltà anche a ricordare i miei.
Ho tagliato corto e ho comprato tre numeri.
Tra l’altro così siamo a posto anche per il prossimo, il mio.
Io sono quello che ne ha uno in meno.
Trovo che i margini di errore siano l’invenzione del secolo.
Ho comprato le candeline
Hai detto “Che palle, anche le candeline”.
Ti ho comprato un lettore cd
Hai detto “io non ascolto cd ascolto solo la radio”.
Posso mai non essere serio quando ti dico che davvero non mi aspetto più un grazie per averti comprato una macchina, per averti pagato l’affitto per mesi, per averti pagato i conti nei bar, per averti staccato assegni in bianco per coprire i tuoi debiti, per averti mantenuto per anni?
Fidati, vederti star bene è diventato realmente l’unico desiderio.
Comunque, dovunque e con chiunque tu voglia star bene.
Auguri Vale.
Di fronte alla vetrina ho avuto difficoltà a ricordare quanti anni facevi.
Ho chiamato mamma e lei mi ha detto “Eh, uno più di te, no?”.
Ho capito perché ha chiesto a me di occuparmi delle candeline.
Solo che ho avuto difficoltà anche a ricordare i miei.
Ho tagliato corto e ho comprato tre numeri.
Tra l’altro così siamo a posto anche per il prossimo, il mio.
Io sono quello che ne ha uno in meno.
Trovo che i margini di errore siano l’invenzione del secolo.
Ho comprato le candeline
Hai detto “Che palle, anche le candeline”.
Ti ho comprato un lettore cd
Hai detto “io non ascolto cd ascolto solo la radio”.
Posso mai non essere serio quando ti dico che davvero non mi aspetto più un grazie per averti comprato una macchina, per averti pagato l’affitto per mesi, per averti pagato i conti nei bar, per averti staccato assegni in bianco per coprire i tuoi debiti, per averti mantenuto per anni?
Fidati, vederti star bene è diventato realmente l’unico desiderio.
Comunque, dovunque e con chiunque tu voglia star bene.
Auguri Vale.
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