Sei lontana.
Come quelle cartoline trovate sulle bancarelle dei mercatini d’antiquariato consumate da passaggi di mani non nostre, dietro le quali Maria scriveva a Mario “Presto ancora insieme” e leggendole provi per un attimo l’istinto di chiedere quanto costa, quella cartolina, quelle parole, quanto costa essere quel Mario che un giorno fu sogno per Maria, meta, orologio, calendario con il giorno del ritorno segnato da un cuore rosso e due piccole emme vicine, di nuovo, presto, ancora.
Maneggi quella cartolina cedendo al desiderio di far finta che davvero basterebbero pochi centesimi per trasformare quelle parole in parole per te, che non sei quel Mario, che non lo sarai presto e forse non lo sarai mai, che non puoi dire ancora, no tu oggi non lo puoi dire quell’ancora, a quella Maria che non diceva a te e nemmeno al passante dopo di te che con lo stesso tuo desiderio sognerà di comprarsi forse un figlio che lo saluta dal fronte, magari una nonna che dalla montagna abbozza un tremolante “Cari saluti al mio nipotino”.
Metti le mani in tasca sperando che il destino di non avere quei centesimi ti sollevi dalla scelta consapevole di sottrarti alla delusione di leggere parole non tue, immagini non tue, pensieri non tuoi.
Speri di non averli, quei centesimi.
Ma l’uomo della bancarella ti ha visto maneggiare quella cartolina e ha deciso di regalartela, non sapendo che così non ti fa affatto un favore.
Lui crede che tu desideri quella cartolina, magari pensa che le collezioni, ti considera un possibile esperto, forse anche di francobolli, e si sa, gli uomini delle bancarelle sanno investire e una sola cartolina regalata può significare tante cartoline comprate o forse solo i francobolli, qualche centesimo che il tempo trasforma i molti soldi, o soltanto in trasportatori di parole non nostre ma acquistabili sulla prima bancarella di un mercato di antiquariato.
Questo pensi tu mentre guardi il venditore attendere un tuo cenno.
“Mi ha scritto Maria! Mi ha scritto Maria!” urleresti ai tuoi amici il giorno stesso tutto gonfio di orgoglio con la tua cartolina in mano a testimonianza del fatto che tu puoi essere il suo Mario, che potresti essere la sua meta, il suo cuore sul calendario, il suo ancora.
Hai ancora le mani in tasca a cercare quei pochi centesimi che ti separano da lei e dalle sue parole quando un pensiero ti attraversa la mente, forse il cuore.
Perché quella cartolina è su quella bancarella?
Perché non è in una scatola, chiusa in un cassetto a casa di Mario, tra un fazzoletto profumato e un biglietto di un viaggio non timbrato?
E se fosse lì perché Mario non l’ha mai ricevuta?
E così in un istante quei pochi centesimi che per un attimo ti hanno fatto credere di poter avere, ancora, Maria, si trasformano in pochi centesimi che impedirebbero a quella cartolina di proseguire il suo viaggio, magari Mario è proprio il passante che dietro di te sta aspettando il suo turno per sfogliare le cartoline sulla bancarella, magari riconoscerebbe la calligrafia, magari scoprirebbe che la delusione che da anni si porta dentro da quell’ultima volta che la salutò ha dietro soltanto un indirizzo trascritto male.
Tu ci pensi, mentre le tue mani scoprono al tatto la presenza di monete sonanti in tasca, pronte a rubare quello e chissà quanti altri sogni, al suo legittimo proprietario.
Altro che centesimi, sono pesanti le monete che senti in tasca.
Accumulate in anni di precedenze concesse.
Ma tu non sei Mario, lo sai, e quel presto, quell’ancora, quell’insieme, non erano per te.
E non lo diventano nemmeno se li paghi.
Lo sai, anche se ogni tanto fai finta di dimenticarlo lo sai che Mario è il prossimo passante dietro di te, è il passante che se n’è appena andato con le sue belle cartoline non comprate ma ricevute, con il suo nome scritto bello chiaro accanto a quel “Presto ancora insieme”.
Di questo si, sei esperto.
Del togliere le mani dalla tasca fingendo di non aver trovato nemmeno spiccioli scusandoti con il venditore per avergli fatto perdere del tempo e scusandoti per aver occupato per un attimo uno spazio non tuo con il passante prima di te e quello dopo di te, che a differenza tua non vestono la certezza di non essere i destinatari di quella cartolina e che per questo meritano di provare a prenderla tra le mani, a poggiarci sopra gli occhi, per vedere se riconoscono la calligrafia, se la associano a biglietti di natale, a tovaglioli di carta lasciati accanto al caffè con un “Buongiorno amore” scritto di corsa prima di uscire mentre tu dormivi con un sorriso ebete sulla faccia figlio di una notte di ancora, di insieme, a biglietti di auguri per il compleanno, a promesse scritte sul vetro dell’oblò di una nave, a un “Ti amo” scritto con il rossetto sullo specchio del bagno che ancora, dopo anni, nonostante la pulizia decisa si intravede quando si appanna, per consentirti di confrontarlo con le cartoline di ogni bancarella di ogni mercatino dell’antiquariato di ogni piccolo paese del mondo.
Ma il venditore ti guarda, capisce che stai per allontanarti, che stai per rinunciare e ti porge la cartolina dicendoti “La prego, la prenda lo stesso, glie la regalo, basta che me la tolga da questo banco”
“Non posso” gli dici “Non sono io Mario”.
“Lo so” ti risponde lui “sono io”.
Che stupidi, noi uomini.
E tu che bella che sei, Maria.
28 giugno 2006
23 giugno 2006
non ho tempo
Sarai ogni mio quelli lì.
Un giorno faremo colà.
Ovunque vada vedo.
E il respiro e i battiti e la musica.
La lontananza sai è come il vento.
Cerbiatti rondini e 'sta cippa.
Un giorno faremo colà.
Ovunque vada vedo.
E il respiro e i battiti e la musica.
La lontananza sai è come il vento.
Cerbiatti rondini e 'sta cippa.
9 giugno 2006
Compleanni
“Zohn Ahl fa parte del genere di giochi detti “Croce e cerchio”, da cui derivano infinite varianti usate dagli indiani Nord americani. È parente dello Sho-Li-We (gioco delle canne) che veniva usato nella tribù degli Zuni del Nuovo Messico per predire il futuro. Zohn Ahl viene ora giocato per puro divertimento dalle donne della tribù Kjowa, nell’Oklahoma. Il cerchio con le punte della croce viene disegnato per terra o ricamato su tessuto o su cuoio”.
L’ultima volta avevo dovuto rubare.
Fu una passeggiata prolungata fino al limite del consentito, ti posso abbracciare, si certo, e vetrine di biancheria intima e andiamo ancora avanti e parlami di te e facciamo che questa mattina non finisca mai più no, non mi salutare o dimmi che ti rivedrò soltanto chiedendolo, l’ho chiesto, non c’eri, ti avevo rubata.
Si viene puniti, se si ruba.
La condanna di non vederti, di saperti, di ricordare il colletto di una camicia bianca tu seduta su un muretto e una rivista in tedesco tra le mani che parlava di chissà cosa in tedesco io non lo parlo il tedesco non mi piace il tedesco mi piacevi tu, ich piaceven danke signorina tanz automatic come fare per oltrepassare quello strato di epidermide che ti copre il cuore, come dirti che avrei attraversato l’Oklahoma stretto in quell’abbraccio per portarti dove le donne disegnano su cuoio cerchi con le punte di un tacco che porta le tue labbra all’altezza di quella soglia sopra la quale gli occhi hanno davanti un futuro che si svolge nella frazione di secondo successiva, decidi Bruno, non esitare Bruno, fallo Bruno, nessuna donna porta i propri occhi così vicini ai tuoi se non vuole che i tuoi si chiudano per lasciare spazio a un cuore rivestito di cuoio sopra il quale le donne della tribù Kjowa disegnavano cerchi con le punte con incisioni che lasciavano intravedere oltre il cuoio cuciture di cicatrici di passeggiate rubate al costo di un silenzio lungo un anno interrotto da un ingresso che cambia il corso del tempo e i discorsi si fanno inutili e le luci si abbassano e un cavo d’acciaio ti solleva dov’è appeso l’altro capo non lo sai, ti sembra al cielo, no, troppo banale, forse solo al soffitto, certo arriva dall’alto perché ti solleva ti trascina rende superflue le gambe e ti porta tra due braccia che si spalancano per dirti “Eccomi. Sono qui. Sono qui per te. Ho attraversato l’Oklahoma” scusate amici, scusate se in quell’istante siete scomparsi tutti, lo so, non è giusto, non è bello, eravate lì per me, ma mi aveste sentito il cuore avreste capito, mi avreste perdonato, foste stati le mie mani tra i suoi capelli avreste capito mi avreste perdonato, avreste festeggiato con me il compleanno di due occhi grandi quanto tutte le mie speranze non di un futuro, no, di un istante, quell’istante nel quale ricordi di nuovo che la vita sono quelle mani che si possono toccare dalle quali non vorresti mai più staccare le tue e non riesci per questo a staccarle, scusami anche tu, ti ho rubata di nuovo, ti ho violata, non ti ho dato respiro, sempre questo mio bisogno di tenere, di toccare, di unire, ho mangiato quello che stavi mangiando ho bevuto quello che stavi bevendo dio mio ma di cosa sei fatta, cos’è, non è pelle quella che indossi, si sente che non è solo pelle, non può essere solo pelle, dalla pelle ci si stacca da te no, non riuscivo, disegnavo cerchi con le mani sulle tue gambe e dentro stelle per vedere se coincidevano e si, coincidevano e ancora cerchi e ancora stelle e ancora coincidevano, impossibile fermarmi, impossibile alzarmi, impossibile lasciarti le mani, impossibile lasciarti gli occhi, impossibile togliere le mani dai capelli, mai più un altro anno senza, mai più un altro mese senza, mai più un altro giorno senza, mai più un’altra ora senza, mai più un altro minuto senza, mai più un altro secondo senza, mai più un altro istante senza le tue mani da tenere, dammi istanti da godere, dammi ancora le tue braccia che si aprono, dammi ancora quel sorriso tra la folla, dammi ancora la possibilità di mostrare a chi mi vuole bene che anch’io posso essere felice come lo sono stato stasera, come lo ero stato un anno fa, come vorrei esserlo da domani.
Grazie a chi ha voluto esserci.
L’ultima volta avevo dovuto rubare.
Fu una passeggiata prolungata fino al limite del consentito, ti posso abbracciare, si certo, e vetrine di biancheria intima e andiamo ancora avanti e parlami di te e facciamo che questa mattina non finisca mai più no, non mi salutare o dimmi che ti rivedrò soltanto chiedendolo, l’ho chiesto, non c’eri, ti avevo rubata.
Si viene puniti, se si ruba.
La condanna di non vederti, di saperti, di ricordare il colletto di una camicia bianca tu seduta su un muretto e una rivista in tedesco tra le mani che parlava di chissà cosa in tedesco io non lo parlo il tedesco non mi piace il tedesco mi piacevi tu, ich piaceven danke signorina tanz automatic come fare per oltrepassare quello strato di epidermide che ti copre il cuore, come dirti che avrei attraversato l’Oklahoma stretto in quell’abbraccio per portarti dove le donne disegnano su cuoio cerchi con le punte di un tacco che porta le tue labbra all’altezza di quella soglia sopra la quale gli occhi hanno davanti un futuro che si svolge nella frazione di secondo successiva, decidi Bruno, non esitare Bruno, fallo Bruno, nessuna donna porta i propri occhi così vicini ai tuoi se non vuole che i tuoi si chiudano per lasciare spazio a un cuore rivestito di cuoio sopra il quale le donne della tribù Kjowa disegnavano cerchi con le punte con incisioni che lasciavano intravedere oltre il cuoio cuciture di cicatrici di passeggiate rubate al costo di un silenzio lungo un anno interrotto da un ingresso che cambia il corso del tempo e i discorsi si fanno inutili e le luci si abbassano e un cavo d’acciaio ti solleva dov’è appeso l’altro capo non lo sai, ti sembra al cielo, no, troppo banale, forse solo al soffitto, certo arriva dall’alto perché ti solleva ti trascina rende superflue le gambe e ti porta tra due braccia che si spalancano per dirti “Eccomi. Sono qui. Sono qui per te. Ho attraversato l’Oklahoma” scusate amici, scusate se in quell’istante siete scomparsi tutti, lo so, non è giusto, non è bello, eravate lì per me, ma mi aveste sentito il cuore avreste capito, mi avreste perdonato, foste stati le mie mani tra i suoi capelli avreste capito mi avreste perdonato, avreste festeggiato con me il compleanno di due occhi grandi quanto tutte le mie speranze non di un futuro, no, di un istante, quell’istante nel quale ricordi di nuovo che la vita sono quelle mani che si possono toccare dalle quali non vorresti mai più staccare le tue e non riesci per questo a staccarle, scusami anche tu, ti ho rubata di nuovo, ti ho violata, non ti ho dato respiro, sempre questo mio bisogno di tenere, di toccare, di unire, ho mangiato quello che stavi mangiando ho bevuto quello che stavi bevendo dio mio ma di cosa sei fatta, cos’è, non è pelle quella che indossi, si sente che non è solo pelle, non può essere solo pelle, dalla pelle ci si stacca da te no, non riuscivo, disegnavo cerchi con le mani sulle tue gambe e dentro stelle per vedere se coincidevano e si, coincidevano e ancora cerchi e ancora stelle e ancora coincidevano, impossibile fermarmi, impossibile alzarmi, impossibile lasciarti le mani, impossibile lasciarti gli occhi, impossibile togliere le mani dai capelli, mai più un altro anno senza, mai più un altro mese senza, mai più un altro giorno senza, mai più un’altra ora senza, mai più un altro minuto senza, mai più un altro secondo senza, mai più un altro istante senza le tue mani da tenere, dammi istanti da godere, dammi ancora le tue braccia che si aprono, dammi ancora quel sorriso tra la folla, dammi ancora la possibilità di mostrare a chi mi vuole bene che anch’io posso essere felice come lo sono stato stasera, come lo ero stato un anno fa, come vorrei esserlo da domani.
Grazie a chi ha voluto esserci.
5 giugno 2006
La Lo'
E allora chiudi gli occhi.
E portami con te su una collina di mulini a vento tienimi accanto e insegnami il passaggio da vortici d’aria a pane caldo la mattina, di un giorno qualunque, di un mese qualunque, di un anno dei nostri, quelli fatti di ciupa ciupa e stupore negli occhi e nelle mani nelle mani e sogni da condividere nel tempo di un una canzone a memoria e di un sorriso malizioso di un contratto a progetti, erreessevupì le faremo sapere, le faremo sentire, le faremo vedere a tutti quelli che non credono che.
E allora chiudi gli occhi.
E portami con te a Las vegas, la terra di due strade di un bivio di una scelta, dove il mondo si divide in chi crede possa essere solo rosso o nero e se non è uno dei due può solo essere zero e chi invece ci crede e ne approfitta per sposarsi al primo sguardo in vasche di cuori frizzanti e occhialoni sperluccicanti parrucche azzurre e zeppe anni settanta che ti fan guardare tutto dall’alto e un prete vestito da Elvis che ci canta di luci nel deserto e scommesse col destino il banco vince e tu di là, io di qua, signorina scusi avete qualcosa per me, no, grazie, ripasso, bel negozio comunque.
E allora chiudi gli occhi.
E aprimi la bocca, come i gatti di notte che rubano l’anima, non ti denuncerò, ti ringrazierò perché mi dimostrerai di nuovo che c’è, falle fare un giro nella tua, portala in gita pranzo al sacco, un tramezzino succo di frutta una mela e ualà tutto ciò che serve è nel sacco, di baci, ci sediamo in fondo, si canta, ci son due coccodrilli ed un orangU tangU due piccoli serpenti io te e la mela due piccoli peccati e l’aquila io no, ma dammi ali io ho le penne e i fogli e le parole per te, pennarelli pastelli a cera quello nero consumato per anni sul foglio basta un chiodo un ferro a punta io ne ho tanti tu li usi gratti via e ualà un cielo di notte con le stelle e la luna l’una la sola l’asola scusi signorina posso attaccare bottone posso premere bottone nella stanza, dei bottoni, premi play parte un disco trentatré giri per puntina quel chiodo dei pastelli della notte con le stelle.
E allora chiudi gli occhi.
E chiedimi ogni giorno di che colore sono, aprili d’amblè, l’impatto di scoprirli ancora e scoprire che li so ancora, non uno solo, li so entrambi, uno guarda qui, l’altro guarda qui e insieme la profondità, lo spazio, lo dice l’ottica, dietro il banco del negozio, ha qualcosa per me, no, grazie, ripasso ancora, sempre un bel negozio comunque, con lenti, senza lenti, con balli, con belli, i tuoi occhi aperti su di me trasparente, m’attraversi in una sera d’estate e m’insegni a riflettere, fumè se c’è il sole, fumò una sera vedendo paradisi artificiali e elefanti che volavano e nuotavano e si amavano ma com’è possibile, sono pesanti, eppure volavano, li vedevo, sembrava d’essere a Las Vegas, li ricordo come luci, rosa, azzurre, spumosi marshmallows per quella torta un bicchiere di martini piatti colorati e bicchieri disegnati di una festa di compleanno a cadenza annuale, sempre tu, cadenza quotidiana e allora chiudi gli occhi e indovina quanti sono quelli passati, quanti sono oggi, dimmi quanti sono quelli futuri e apri i miei.
E portami con te su una collina di mulini a vento tienimi accanto e insegnami il passaggio da vortici d’aria a pane caldo la mattina, di un giorno qualunque, di un mese qualunque, di un anno dei nostri, quelli fatti di ciupa ciupa e stupore negli occhi e nelle mani nelle mani e sogni da condividere nel tempo di un una canzone a memoria e di un sorriso malizioso di un contratto a progetti, erreessevupì le faremo sapere, le faremo sentire, le faremo vedere a tutti quelli che non credono che.
E allora chiudi gli occhi.
E portami con te a Las vegas, la terra di due strade di un bivio di una scelta, dove il mondo si divide in chi crede possa essere solo rosso o nero e se non è uno dei due può solo essere zero e chi invece ci crede e ne approfitta per sposarsi al primo sguardo in vasche di cuori frizzanti e occhialoni sperluccicanti parrucche azzurre e zeppe anni settanta che ti fan guardare tutto dall’alto e un prete vestito da Elvis che ci canta di luci nel deserto e scommesse col destino il banco vince e tu di là, io di qua, signorina scusi avete qualcosa per me, no, grazie, ripasso, bel negozio comunque.
E allora chiudi gli occhi.
E aprimi la bocca, come i gatti di notte che rubano l’anima, non ti denuncerò, ti ringrazierò perché mi dimostrerai di nuovo che c’è, falle fare un giro nella tua, portala in gita pranzo al sacco, un tramezzino succo di frutta una mela e ualà tutto ciò che serve è nel sacco, di baci, ci sediamo in fondo, si canta, ci son due coccodrilli ed un orangU tangU due piccoli serpenti io te e la mela due piccoli peccati e l’aquila io no, ma dammi ali io ho le penne e i fogli e le parole per te, pennarelli pastelli a cera quello nero consumato per anni sul foglio basta un chiodo un ferro a punta io ne ho tanti tu li usi gratti via e ualà un cielo di notte con le stelle e la luna l’una la sola l’asola scusi signorina posso attaccare bottone posso premere bottone nella stanza, dei bottoni, premi play parte un disco trentatré giri per puntina quel chiodo dei pastelli della notte con le stelle.
E allora chiudi gli occhi.
E chiedimi ogni giorno di che colore sono, aprili d’amblè, l’impatto di scoprirli ancora e scoprire che li so ancora, non uno solo, li so entrambi, uno guarda qui, l’altro guarda qui e insieme la profondità, lo spazio, lo dice l’ottica, dietro il banco del negozio, ha qualcosa per me, no, grazie, ripasso ancora, sempre un bel negozio comunque, con lenti, senza lenti, con balli, con belli, i tuoi occhi aperti su di me trasparente, m’attraversi in una sera d’estate e m’insegni a riflettere, fumè se c’è il sole, fumò una sera vedendo paradisi artificiali e elefanti che volavano e nuotavano e si amavano ma com’è possibile, sono pesanti, eppure volavano, li vedevo, sembrava d’essere a Las Vegas, li ricordo come luci, rosa, azzurre, spumosi marshmallows per quella torta un bicchiere di martini piatti colorati e bicchieri disegnati di una festa di compleanno a cadenza annuale, sempre tu, cadenza quotidiana e allora chiudi gli occhi e indovina quanti sono quelli passati, quanti sono oggi, dimmi quanti sono quelli futuri e apri i miei.
Etichette:
a te che sei,
Questo era il vecchio blog
Iscriviti a:
Post (Atom)