27 gennaio 2007

Il senso della misura

Ok, lo ammetto, ho anch'io il problema della lunghezza.
In questo momento per esempio vorrei tanto due braccia lunghiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiissime per svegliarti con una carezza.
E invece non le ho e mi tengo l'invidia del bene di chi può.

18 gennaio 2007

CogNome

Non è finita, non è nemmeno a metà, il cammino.

Si, certo, è un passo avanti che viene da chiedersi perché mai ci abbiano messo così tanto a fare, ma non è finita, non si fermino, non ora che è stato fatto il passo.
Non è un gioco per chi vuol fare il nobile, questa legge che autorizza il doppio cognome è di più, ma è una porta, non l’arrivo.
Ed è una di quelle battaglie così difficili da far passare che ora che è passata bisogna approfittare dello spiraglio per portare oltre l’ostacolo il resto, quel resto che manca per far sì che il percorso sia completo.
Perché manca, ho guardato, ho controllato subito, sono andato immediatamente a cercare per sapere se c’era e invece non c’è e allora mi sono detto che ancora non è finita, non basta, non si sono guardati intorno abbastanza.

Si, certo, applauso al traguardo raggiunto, ma non si sono guardati intorno abbastanza, come sempre prima non hanno chiesto, non si sono informati e così come sempre non l’hanno fatta per tutti.
Questa nuova legge consente ai genitori di scegliere se lasciare come da tradizione il solo cognome paterno o se aggiungergli quello materno.
La prima proposta è stata l’obbligatorietà del doppio cognome, ma poi qualcuno deve aver (giustamente) fatto notare che un cambiamento come questo, in un settore così influenzato dalle tradizioni popolari, non poteva essere reso immediatamente obbligatorio e quindi hanno proposto e accettato la modifica che rende la scelta facoltativa e così oggi quando nasce un bambino, i genitori possono scegliere quale strada seguire, se quella tradizionale o quella nuova del doppio cognome.
Gran legge.
Ma si sono dimenticati una bella fetta di popolazione: i figli già nati.

Ma si, lo so che tutti sono “figli già nati”, lo so, non sono mica scemo.
Non sto dicendo che questa legge è monca perché andrebbe estesa a tutti, dico che è monca perché non ha incluso tra quelli che ne potranno usufruire una categoria che è molto più che un gruppetto irrilevante di persone: i figli di divorziati.
E non è una dimenticanza da poco perché dimostra che dietro questa legge manca tutto un pezzo di ragionamento che al contrario meritava di essere fatto.
Io sono contento del mio cognome e non lo cambierei.
Ma il cognome di mia madre, per una lunga sequenza di figlie femmine in famiglia, è finito, non verrà portato avanti da nessuno.
Cosa c’entrano i figli dei divorziati con questo discorso, verrebbe da chiedere, ce ne sono migliaia di cognomi che non hanno discendenti maschi a tramandarli.
Si, giusto, ok, vero, ma.

Nelle famiglie di divorziati c’è una caratteristica che le rende diverse da tutti gli altri “cognomi destinati a finire” ed è il fatto che nella maggior parte dei casi a crescere i figli è solo uno dei due genitori, nel mio caso mia madre, mia nonna, mia zia, tutte col cognome che scomparirà.
E mia madre un giorno mi disse che le sarebbe piaciuto aggiungerci il suo cognome, per poterlo portare avanti noi, ma ci informammo e la legge impediva questa scelta o la sconsigliava vivamente a causa della trafila che avrebbe richiesto senza peraltro garantire il successo.
E invece sarebbe giusto, perché io mi porto dentro l’intera famiglia di mia madre, è grazie a loro che siamo cresciuti bene, è grazie a loro se non ci è mai mancato niente, è grazie a loro se l’assenza di un padre ha avuto effetti solo sui sentimenti e non sul cibo in tavola, non sulla scuola, non sulla serenità.
E di famiglie di uno dei due genitori che si fanno interamente carico del ruolo lasciato vacante dell’altro, di nonne e di zie che suppliscono, che diventano il padre andato a comprare le sigarette, ce ne sono migliaia in Italia e se questa legge fosse stata pensata davvero intorno al valore di un cognome e non solo intorno ad una (comunque apprezzatissima) bandierina del progresso generico e non pensato, avrebbero capito che il minimo che si possa fare è farsi portatori di quel cognome che fino a ieri non aveva alcun valore se non sul citofono e nemmeno su tutti.
Avrebbero dovuto darla anche ai figli cresciuti da uno solo dei genitori, la possibilità di scegliere quale cognome affiancare alla propria vita, perché in quel cognome c’è una salvezza, c’è un’infanzia felice anche tra mille difficoltà, ci sono i regali di natale sotto l’albero e i compiti al pomeriggio, ci sono vestiti puliti e educazione, ci sono valori e c’è amore, amore a mille, amore a pacchi pur di non far sentire l’assenza dell’altra metà di amore.
E tutto questo nel mio caso, come in quello di migliaia di figli cresciuti da un solo genitore, è chiuso in un cognome al quale oggi una legge ha finalmente dato valore legale MA non per me, che sono già nato.

Ancora un passo, su.
Fate quest’altra piccola modifica prima che il papa si accorga che si sta cercando di dare più valore al ruolo della donna nella famiglia e cominci a sbavare bile e a spaccare il cazzo pure su questa cosa bloccando ogni altro sviluppo, ché sia mai che lui permetta che uomo e donna vengano parificati, siamo mica nel 2007.
Fatelo adesso che la porta è aperta o non lo si farà mai più.
Io quel cognome non lo vorrei solo perché altrimenti finisce.
Certo, anche per quello, perché in parte glie lo devo e sarebbe un buon modo per onorarli e ringraziarli.
Ma lo vorrei soprattutto perché sarebbe naturale portarlo.
Come i capelli lunghi, come questa casa, come il mio lavoro, come la mia educazione, come i miei amici.
Sono tutti scritti dentro quel cognome lì.
Sono tutti frutto di quella famiglia lì.
L’altro, il mio, è del tizio che è andato a comprare le sigarette e a scrivere libri lontano lontano.
Belli, niente da dire, ma non ci han dato da mangiare né ci hanno mandati a scuola.

Ancora un passo, su.
Per molti questa cosa è molto di più della solita bandierina dell'ennesimo progresso di facciata senza pensiero, per molti è molto più importante, per molti è un'attesa di anni.
Ancora un passo, su.
Ancora un passo.

15 gennaio 2007

l'allegro

L’allegro chirurgo è un gioco semplice, una sola regola: osservare le forme, un solo obiettivo: star bene.

Banale, verrebbe da dire.
Cosa mai ci troverà un bambino, in un gioco così poco stimolante, verrebbe da dire.
Eppure è stato per anni un successo, quasi le leve che muove fossero semplici quanto universali.
Star bene, guarire, allontanare il malessere.

Una figura sdraiata, piccole porte distribuite lungo il corpo per entrarvi, un filo che unisce chi ha il male e chi deve trovare i punti per guarirlo, condizione necessaria per vincere: la mano di chi guarisce dev’essere ferma, decisa, certa, non sono permessi errori, la posta è alta.

Il gioco consiste nel guardare il corpo, riconoscere la forma delle porte e individuare ciò che con sicurezza vi si deve riporre all’interno per far si che la macchina riprenda a funzionare.

C’è la porta a forma di osso, dalla cui sagoma può passare solo un osso, c’è la porta a forma di farfalle nello stomaco, dalla cui sagoma può passare solo una farfalla nello stomaco, c’è la porta a forma di cuore, dalla cui sagoma può passare solo un altro cuore.
Se dalla porta a forma di cuore si prova a far entrare l’osso, si toccheranno i sensori e si perderà.
Se dalla porta a forma di farfalla nello stomaco si proverà a far entrare il cuore, si toccheranno i sensori e si perderà.
Si può vincere solo in un modo: lasciando entrare le farfalle nello stomaco, facendo entrare dalla porta a forma di cuore, il cuore.

Il filo che unisce i due giocatori non trasmetterà più sconfitta, non si sentiranno campanelli d’allarme, non si accenderà la luce.
Il gioco più vecchio del mondo, il gioco del dottore.



Il corpo, per gli indiani (ma quali indiani, quelli dell’india?), ha dei centri di energia, piccole porte distribuite lungo il corpo che danno accesso al suo interno.
Bisogna individuarli, bisogna conoscerli.
Una volta conosciuti, su di essi si agirà per guarire qualsiasi male.
C’è il centro dei mali allo stomaco, c’è il centro dei mali al cuore.
Ma non solo gli organi.

“Secondo il Vedānta, il corpo fisico e il corpo sottile (Suksma Śarira: le emozioni, pensieri, percezioni, stati di coscienza) formano un insieme. Questi due corpi sono collegati a livello dei chakra, quindi agendo sul corpo fisico si produrrà un effetto su quello sottile e viceversa.” (Fonte: Wikipedia)

Con la giusta forza, con la giusta volontà, il filo che unisce i punti restituirà equilibrio al corpo e alla mente, non si sentiranno più allarmi, si accenderà la candela delle grandi occasioni.

Secoli di storia.
Il pensiero più vecchio del mondo, le porte del benessere.


Ci sono posti dove i bambini giocano e parlano indiano.
Nell'aria di quei posti si sfiorano punti di energia, i fili uniscono, gli stomaci guariscono,  l'equilibrio si forma.

Bisogna solo pensare come i bambini efe ifil cuoforefe tofornafa afal sufuofo pofostofo.

Una sola regola: Ci sono cose giuste e ci sono cose sbagliate, quelle che fanno star bene sono quelle giuste, quelle che fanno star male sono quelle sbagliate.
Condizione necessaria per vincere: pensarlo al plurale.

5 gennaio 2007

TVB e quindi ROTFL

Sono preoccupato, non rido più.
No, aspetta, l’ordine è inverso: non rido più, sono preoccupato.
(ché altrimenti si pensa che non rida più perché sono preoccupato e invece sono preoccupato del fatto che non rido più).

No, per dire, ci pensavo poco fa mentre leggiucchiavo blog qui e là e come sempre pure i commenti e mi sono reso conto che sotto un sacco di post che di divertente non hanno nulla (per me) ci leggi una pioggia di “LOL! LOL! LOL!” “Mi sono ribaltato dalle risate!” “Non riesco a fermare i lacrimoni smettila di scrivere questi post!” “ROTFL!” “Ti prego basta non posso farmi vedere dai colleghi così!” “Mi sto pisciando sotto dal ridere!” e via così, che poi io penso sempre di non aver letto bene e mi rileggo il post e continuo a non trovarci nulla non solo di ribaltante, ma nemmeno di vagamente comico e allora sempre più spesso mi chiedo “Ma sono io?”.
Cioè, è mio il problema?
Lo chiedo seriamente, eh.

Perché la cosa non è strettamente legata ai blog, qui si mostra semplicemente di più perché c’è più presenza umana e quindi più campioni d’esempio, ma in realtà la cosa è estesa.
Non ricordo l’ultima volta che ho visto un film veramente divertente, uno spettacolo di quelli da non trattenere le risate, se mi si chiede quale sia stato l’ultimo cabarettista che mi ha fatto ridere di gusto francamente ho davvero difficoltà a fare un nome e per lavoro ne vedo diversi, soprattutto quelli sempre in voga, visto che sono quelli che di volta in volta ci viene chiesto di usare, quindi ogni volta che un cabarettista diventa famoso noi cominciamo a vederlo mille volte e io ogni volta mi chiedo come cazzo facciano a piacere così tanto.
Lo stesso vale per i programmi tv, non ricordo una battuta fulminante, se escludo Gene Gnocchi e il Mago Forrest, per me dovrebbero tutti essere spediti a casa e invece sono lì, fanno spettacoli da tutto esaurito, scrivono libri che riempiono le librerie e io li ascolto con le guance assolutamente immobili ma nemmeno impegnandomi riesco a trovarli divertenti.
E pure con le persone con le quali parlo, per esempio al bar, la sera.
Interminabili pipponi del tizio di turno che vuole a tutti i costi che tu lo ascolti mentre ti bevi la tua birra perché deve tener banco nel bar intero e fare il suo piccolo show di quartiere e raccontare a tutti i costi quella storiella là, che devi troppo ascoltarlo sei scemo se te la perdi e lo ascolto e vedo che gli altri in effetti ridono a volte pure di gusto e io un cazzo, ma nemmeno pagato e mi chiedo ma sarò io?
No la domanda è seria, perché me lo sto chiedendo da un po’.

E’ colpa mia che non riesco più a divertirmi o il livello di ironia della gente è davvero sceso così in basso da essere definibile ironia solo se sei un cerebroleso?
Una volta l’ironia era sintomo di intelligenza, quando la trovavi ti divertivi anche perché dietro ci leggevi un’arguzia e una ricerca che testimoniavano davvero uno spessore che meritava il tuo applauso.
Perché alla fine una battuta efficace non ottiene il tuo sorriso per la battuta in sé ma per quello che evidenzia esserci dietro, come ricerca di un punto debole dell’obiettivo della battuta, di una falla di un ragionamento, per l’intelligenza che chi fa quella battuta dimostra di aver speso per arrivare a produrla, la battuta, non per la battuta in sé.
Oggi mi ritrovo a vedere gente che scrive/dice di essersi piegata dalle risate per delle puttanate al confronto delle quali la barzelletta di Pierino e del fantasma formaggino sono alta scuola.
E però mi rendo conto della differenza di quantità, nel senso che mi rendo conto di essere molto isolato, in questo, contro una grandissima quantità di persone che in effetti trova divertenti e in molti casi sottopisciantemente divertenti delle robe di uno squallido (banale) che a me pare così evidente che mi chiedo come si possa spontaneamente dichiararsi divertiti, quindi rimbambiti almeno quanto chi la puttanata l’ha prodotta, invece che guardarsi bene dall’associare il proprio livello di esigenza in fatto di ironia a quel livello offerto, e allora mi chiedo se il problema non sia mio.

Che poi il più delle volte non me la prendo nemmeno con chi parla, ma con chi ride, perché in certe situazioni leggo/ascolto reazioni di gente che dice di pisciarsi sotto dal ridere per cose che secondo me non nascono loro per prime, per ottenere quel risultato.
Questo mi capita soprattutto nei blog, dove sotto certi post che secondo me lo stesso autore non voleva avessero necessariamente quell’effetto lì, spuntano puntuali i commenti di gente che chiede per favore di ridurre un po’ il livello di comicità perché non respira più dal ridere e in quei casi secondo me lo stesso autore si ritrova a dire “Boh, ma sta parlando del mio post?”, ma in molti di questi casi la spiegazione me la sono data e va indicata nel fatto che molti di questi autori spesso sono le famose “star” e molti di quei commentatori spesso in realtà con quei commenti di esagerato apprezzamento vorrebbero solo trasferire la loro prenotazione al pompino, offerto nel caso di star uomo, auspicato nel caso di star donna, ma vabbé questo è un altro capitolo, torniamo al discorso comicità scomparsa.

Capita solo a me?
Sono io che non mi so più divertire?
Ditemi di si, per favore.

2 gennaio 2007

Cinema

La storia è di quelle mai raccontate.

Praticamente c’è questo qui che è uno stronzo cinico incapace di amare, spietato e squalo negli affari abituato a silurare i suoi stessi amici e attaccato solo al dio denaro ottenuto a qualsiasi prezzo.
Ah si, dimenticavo, è scapolo ed è bello.
Il regista non sapeva come rappresentarlo perché il ruolo effettivamente era difficile da riassumere in un personaggio solo, vista la molteplicità di aspetti innovativi, ma durante la riunione con gli autori quella organizzata per scrivere bene bene il soggetto, uno degli aiutanti avviati verso un sicuro futuro successo deve avergli detto “Facciamogli fare il pubblicitario!”.

A quel punto il regista deve avergli detto “Ma no, ché poi lo scambiano per uno dei film di Pieraccioni, uno qualsiasi” e quindi hanno optato per il broker e già lì era da chiedere il rimborso del biglietto, ma vabbé non rompiamo i coglioni ché io erano mesi che non andavo al cinema magari ho perso io l’abitudine adesso succederà qualcosa di incredibilmente inatteso e io potrò dire il tanto atteso “Orpo! ‘Sticazzi! Uau!”.
E infatti da lì a poco arriva la svolta, lui eredita da un lontano zio una grossa tenuta nella quale aveva passato le sue estati, unici momenti nella sua vita dove era stato attraversato da uno straccio di sentimento.
Si, lo zio, quello che nessuno ha mai usato per rappresentare l’eredità inattesa, altro sicuro apporto del collaboratore di cui sopra durante la riunione per il soggetto.

L’adrenalina comincia a scorrere, io mi tiro su sulla poltrona e mi preparo a coprirmi gli occhi perché da lì a poco mi aspetto che escano gli zombie dalle vigne e io m’impressiono facile.
Tutto preso da quest’improvvisa svolta, comincio a essere invaso dai dubbi sui possibili perché di quella scelta così azzardata, “Perché uno zio?” mi domando.
E ti pare che il regista mi lasci senza risposta per più di due minuti: lui in quanto cinico, bastardo e privo di sentimenti, è orfano.
Dal semplice rimborso del biglietto si comincia a valutare l’ipotesi della denuncia per appropriazione indebita.

C’è un problema: serve che l’eredità, quest’incredibile innovazione nel mondo delle storie del cinema, rappresenti un’occasione per rinascere e uscire dal suo mondo.
Come farlo uscire dal suo mondo?
Durante la riunione con gli autori quella organizzata per scrivere bene bene il soggetto, uno degli aiutanti avviati verso un sicuro futuro successo deve avergli detto “Facciamo che la tenuta è un agriturismo in toscana!”.
A quel punto il regista deve avergli detto “Ma no, ché poi lo scambiano per uno dei film di Pieraccioni, uno qualsiasi” e quindi hanno optato per una tenuta in Francia, che a vederla sembra pari pari alla toscana ma non c’è Pieraccioni e i cartelli sono in francese, così il dubbio non viene.

Ma come si fa a spiegare bene che gli alberi e le colline e i tramonti sono “uscire dal suo mondo”?
Ah si, che scemo, lui vive in un loft tutto vetro e acciaio in piena City londinese e il montaggio incredibilmente innovativo con le scene alternate aiuta lo smarritissimo spettatore a non perdersi il legame tra le due scenografie, la prima tutta neri e bianchi e sfumature di grigio, la seconda tutta rossi e verdi e gialli, vedi mai che non ci arrivavi da solo a capire che la sua casa era solo vetro e acciaio per preparare il terreno alle colline che avrebbe scoperto da lì a poco.
Oscar al tizio della riunione per il soggetto, se non glie lo danno si gridi allo scandalo.

Durante la stessa riunione, tra un caffè e l’altro, il regista, per testare l’apprendimento degli stagisti con i quali ha scritto il film, deve aver posto l’insidiosissima domanda: “Cosa manca a un orfano incapace di amare?” e il ragazzo che portava i caffè dal bar sotto lo studio in uno slancio di temerarietà scatenato dal suo sogno d’infanzia di girare un film di Pieraccioni, uno qualsiasi, deve aver risposto “L’amore!” e via di applausi e penne che scrivevano “L’amore!” “Gli manca l’amore!” “facciamogli trovare l’amore!”.
“Ma l’amore uno incapace di amare non lo può trovare per volontà, accidenti, se no ci si incasina il soggetto e stasera non si va più a casa” deve aver pensato il regista (l’hanno scritto in un giorno, è palese).
“Un incidente stradale!” (sempre lo stagista)
Yeah, applausi, pacche sulle spalle e avanti con la riunione, ché finalmente si era trovata la soluzione all’annosa questione del fargli incontrare l’amore.
Un’incidente stradale è proprio l’idea innovativa che ci mancava!

Ma le insidie da piena fase di eccitazione da scrittura soggetto sempre più costellato di risvolti imprevedibili cominciavano a moltiplicarsi, perché l’amore per uno incapace di amare non può essere con un cerbiatto, ché altrimenti mica lo ecciti uno incapace di amare ma non proprio incapace in realtà solo impaurito dall'idea di lasciarsi andare(si sfiora il cinema russo, in questa fase).
Ci vuole un’altra broker.
Ma dove la trovi una broker in tosc…campagna francese?
Ah beh, basta che sia broker dentro, no?

Quindi dev’essere come lui, bastarda ma inconsciamente buona, irremovibile ma inconsciamente disponibile, deve aver voglia di amare ma deve averne paura, dev’essere altruista ma cinica.
Come uscirne?
“Una uscita da una grossa delusione d’amore che non crede più agli uomini!” (sempre il tizio dei caffè).
Sono elettrizzato, finalmente un film diverso dai film di Pieraccioni, comincia a intravedersi qualcosa di quel maestro di cinema che è Muccino.

I ruoli dei due vengono definitivamente disegnati quando lui cade in una piscina vuota e lei si ritrova incredibilmente a passare di lì quando lui non riesce a saltare abbastanza in alto per uscirne.
“Lei lo salva adesso?” dice lo stagista in riunione.
“Ma no, qui diamo solo i ruoli” dice il regista “Siamo all’inizio del film, mica possiamo già chiudere, ché poi ci chiedono il rimborso del biglietto”
Ma come giocare l’intero film in quella scena ché una piscina vuota quando ci ricapita più tra le metafore sparse per il film?
Ah si, la piscina in realtà non è vuota, ma è piena di merda.
Si si, concime.
Come ci sia finito in una piscina qualche quintale di concime non ha importanza, fa parte del cinema d’avanguardia un tale livello di domande, e decisamente non è questo il caso.

La piscina inoltre è l'unica piscina al mondo priva di scaletta per uscire e quindi viene da pensare che in quella tenuta, chissà dove visto che non esiste stalla, non solo uscissero dalla piscina camminando sulle acque ma avessero pure dell mucche con un culo del diametro di qualche metro visto che non si capisce come lo tirassero fuori il concime, una volta stoccato nella vasca, ma di sicuro per farcelo entrare ci voleva una discreta abilità da parte dei bovini che cagavano dal bordo tonnellate di letame senza scivolare (manco una carcassa)
Si bypassi quindi la provenienza del letame e ci si concentri sul fatto che lui ci scivola sopra e per questo non riesca a saltare sufficientemente in alto da appendersi ai bordi per uscire.
Che allegoria! Che soggetto! Che sofisticatezza!
Come lo salva, lei?
Aprendo l’acqua (ma non chiudendola, si chiude da sola, ci sono i fantasmi, finalmente gli zombie che apettavo) e facendo così salire il livello della merda non prima di averla però diluita al punto che lui, prima di uscirne, si ritrovi a scoprirsi piacevolmente rilassato nel nuotarci dentro e nel fare gli spruzzi con la bocca bevendola volontariamente.

E'  ancora cinico, in questa fase e nuotare nella merda è la sua condizione naturale, ma questa raffinata allegoria la capisci solo se sei come me espertissimo di cinema perché come me ci vai due volte l'anno e quindi a voi brutti ignoranti del cazzo lo spiego io ché se no vi perdete 'sta perla.
Le bolle col culo avrebbero fatto pericolosamente avvicinare il film a quel genio di Ceccherini e si sarebbe tornati a bomba ai film di Pieraccioni, uno qualsiasi, quindi niente bolle col culo, ché Shrek è altro pianeta e non è facile avvicinarcisi, meglio non rischiare ché già fin qui l’azzardo l’ha già fatta troppo da padrone.
Lui però in realtà non è l’erede legittimo, poiché a lui il notaio ci è arrivato solo in quanto unico discendente diretto conosciuto, non perché esista un testamento, e in quanto erede non designato si ritrova per le mani una fortuna che non è mica detto che sia sua.
Ed è in questo punto del soggetto che lo stagista, memore delle due settimane di vacanza studio fatte in sud america negli studi quelli dove producono le soap in diecimila puntate, suggerisce di far arrivare la figlia illegittima americana che, qui abbiamo il contributo del ragazzo dei caffè, viaggia per l’europa alla ricerca di quello che una vecchia foto di sua mamma identificherebbe come il padre che ha sempre voluto conoscere, ma che non ha mai avuto, perché frutto di una relazione veloce e nascosta.
Ma quando suona alla porta scopre che il padre è morto e che quello che si ritrova davanti è il cugino.
Il padre/zio produceva un vino schifoso.
Il nipote cresciuto nella tenuta è esperto di vino e lo sa.

Lei arriva da un altro continente ma lo capisce anche lei al primo sorso, perché dall’america si, ma mica dal texas, no, per un incredibile coincidenza del destino, colei che non ha mai nemmeno lontanamente avuto uno straccio di contatto con il suo paparino produttore di vini arriva dritta dritta dalla california, patria dei vitigni come la tosc…come la Francia e sempre per coincidenza come ogni californiana di ogni telefilm che si ricordi è assolutamente esperta di vino.
Quello che può apparire come il risultato della sesta bottiglia di whisky portata dal ragazzo dei caffè alla riunione per la scrittura del soggetto è in realtà la chiave di tutto il film.
Vengono da tre stati diversi, non si sono mai visti, sono tutti alla ricerca delle loro radici e sono tutti, incredibilmente, esperti di vino che, come dice(va) lo zio esperto di vita "Ti dice la verità al primo sorso".
Un invisibile filo lega le loro viti.
Quale può essere questo filo, si sono chiesti gli stagisti in riunione?
E qui è arrivato il contributo del regista affermato.
Una vecchia scorta di vino in cantina, la cui provenienza è ignota a tutti, ma che è famoso nel mondo degli appassionati di vino per essere uno dei vini migliori, rari e più cari al mondo.
Ma nessuno ha mai saputo dove, chi e come sia mai riuscito a produrlo.
Io a quel punto avrei voluto averti accanto per limonare, ma il film ormai era troppo avvincente per riuscire a pensare ad altro che al seguito.
Dove mai si produrrà quel vino così segreto con quella storia così segreta?
Segue.

(La protagonista femminile, unico motivo per cui vale la pena pagare il biglietto, a detta di Rillo "assomiglia molto a quella che c’era al tuo compleanno, l’amica della decoratrice”.

Nicole, parlava di te.

Mentre la guardavo pensavo che in effetti erano anni che non vedevo un’attrice così bella, ma contemporaneamente pensavo che tu sei decisamente molto molto molto ma molto più bella e, uscito dal cinema, me ne sono tornato a casa pensando che se vuoi anch'io mi vendo tutto quello che ho per andare con te a vivere in collina il resto dei nostri meravigliosi giorni. Non devi nemmeno riempirmi la piscina, ne sono già uscito da solo)