Sbarco sull'isola in notturna, Dimitris mi viene a prendere inaeroporto e mi porta in hotel, faccio il checkin e gli chiedo se quel bar fuori resta aperto, mi dice "Fino alle 5!" e gli propongo una birra per ringraziarlo dello sbattimento notturno.
Ci sediamo, offro io, arriva il padrone, chiacchiera e io felice, come al solito nel giro di mezz'ora dall'arrivo ho già il mio pub. gli amici, risiedo.
Il padrone racconta due aneddoti, chiacchiera Chi sei cosa fai, visibilmente brillo mi saluta in greco, non capisco e chiedo a Dimitris, che come mi raccontasse cosa ha fatto oggi mi dice "niente, significa Italiano mafioso".
Mi girano i coglioni in tempo zero, io sapevo che per i greci siamo fascisti, non mafiosi, e in ogni caso immaginavo che dopo il fallimento della nazione avessero trovato una nuova forma di riguardo per gli ospiti, mi sbagliavo.
Dimitris intuisce e sta in silenzio, lo rompo io chiedendogli "per voi è divertente?", mi risponde "E' umorismo, non voleva offendere", io gli dico se quando si siede uno statunitense lo accolgono con "ehi killer di bambini in Afghanistan cosa bevi?" o se quando arriva una nuova ospite donna la salutano con "Ciao puttana, cosa prendi a parte cazzi dagli sconosciuti?"
A mezz'ora dall'arrivo avevo già due amici, a trentacinque minuti mi dovevo già guardare le spalle, Dimitris saluta, io gli dico "Ecco bravo ciao", la fortuna di quel posto è che non sono davvero mafioso, la sua sfortuna è che intorno è pieno di altri pub immediatamente eletti mia nuova base, mi hai visto? non mi vedi più.
La vacanza è sul modello ormai sperimentato "Tutti fuori dalle balle" che semestralmente bussa e cioè da solo con i libri, una bici, persone conosciute nei posti mappati come base quindi il posto mare almeno un pub e il bar del pre-cena.
La voce "Persone conosciute" a questo giro va un po' rivista perché mi sono bastati due giorni per scoprire quanto l'italiano sia ben visto da queste parti, si fottano, il mare è stupendo, il mio (secondo) pub è stato subito eletto, la bici ce l'ho, di ristoranti è pieno, io non parlo nemmeno con me stesso: non lo chiamo paradiso perché anche ci assomigliasse, e non ci assomiglia, gli mancherebbe comunque l'unico elemento a sigillo della definizione e cioè tu, ma diciamo che per i prossimi dieci giorni c'è tutto quello che serve.
Il libro finito il primo giorno segue la strada aperta alla vacanza precedente con "Il combattente" e ripresa a questo giro con "Kobane dentro" e così sono di nuovo con l'YPJ a Kobane, con la differenza che se al giro precedente ero in trincea, a questo sono nelle retrovie con gli occhi di Ivan, giornalista, che vede quello che non vedono i combattenti e non vede quello che i combattenti vedono.
E' incredibile la bellezza del popolo curdo, la sua fierezza, la sua nobiltà, il suo senso di giustizia.
Ci si chiede come sia possibile che un popolo così piccolo e disarmato sia l'unico sul pianeta a riuscire a tener testa a quei macellai dell'ISIS, armati e finanziati così tanto che a stanare ogni singolo curdo armato di un semplice AK47 ci mandano droni supermoderni in grado di riconoscere i cellulari.
Eppure ce la fanno, ce la fanno le donne più donne del pianeta, con il sogno della democrazia più democrazia del pianeta, l'ISIS si sta prendendo il mediterraneo metro dopo metro ma nel Kurdistan non passa, quattro pastori armati di un sogno di libertà e una pistola guidati da donne soldato così gigantesche da meritare, loro sì, il nobel per la pace, li hanno combattuti e cacciati.
E' curioso come sia questo che il precedente siano scritti in forma diario, così come è curioso che entrambi raccontino di Kobane e del YPJ non le azioni in guerra ma il prima e il dopo, il quotidiano, la vita normale, come se chiunque entrasse a Kobane anche solo per qualche settimana toccasse un mondo nel quale la guerra è insieme quotidiano e sfondo marginale, una cosa che va fatta malgrado tutto, nell'attesa, nelle pause tra un popolo meraviglioso e il suo futuro tanto negato quanto sognato.
"Kobane dentro" è diviso in due, scritto a due mani, nella prima parte Ivan racconta i suoi giorni da ospite di quel popolo, accolto come occhi per trasmettere al mondo il miracolo che sta compiendo quel gruppetto di sognatori che aspirano alla vera terra promessa.
Nella seconda parte Nicola Romanò prende quanto raccontato dei giorni di Ivan e lo usa come base per entrare nel progetto di società del Rojava e raccontarne le radici anarco-socialiste che hanno portato alla scrittura della "Carta del contratto sociale del Rojava", una carta costituzionale talmente bella che viene da chiedersi come sia possibile che l'abbia scritta un popolo così piccolo e così odiato, la leggi e pensi che se solo divenisse costituzione universale di tutto il pianeta in un istante la pace sarebbe così conseguente che tutte le parole necessarie per presentarla sarebbero quelle due che una qualsiasi Miss Italia pronuncia durante le selezioni, quel "Vorrei la pace nel mondo" che tanta ilarità solleva e che invece è davvero così semplice, se solo si incaricasse il popolo Curdo di spiegare al mondo come si faccia, per vederlo semplicemente prendere quella carta e leggerla al mondo per poi chiudere con "Fate così".
Che popolo meraviglioso.
Vado a cena a iniziare il prossimo, nell'attesa di avere te ad ascoltarli