31 dicembre 2014

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La replica di dinamiche sbagliate può portare solo alla replica delle conseguenze sbagliate perché che quelle dinamiche fossero sbagliate lo si è capito quando se ne sono potute osservare le conseguenze per questo a rendere quelle dinamiche sbagliate non è il modo in cui si svolgono ma gli esiti ne deriva che trovare argomenti che spieghino se non addirittura giustifichino il modo in cui si svolgono non sposta il punto e cioè che se la dinamica è sbagliata non in quanto dinamica ma per l'esito unico possibile che genera anche l'argomento più giusto non la renderà meno sbagliata di quanto lo sia in sua assenza questo il netto la tara è che più una dinamica sarà sbagliata come esito più l'argomento usato per motivarne il modo in cui si svolge allontanerà il momento in cui si realizzerà che il suo essere sbagliata era proprio nel suo non poter contenere nessuna giustificazione non al modo in cui si svolge ché in quello la mente umana fa miracoli e se una cosa sa fare meglio di qualsiasi altra quella cosa è proprio trovare argomenti che ci facciano apparire giuste cose che giuste non lo saranno mai ma all'esito il lordo è che spiegare una dinamica sbagliata la rende solo ancora più sbagliata perché oltre a non considerare l'esito che al contrario è l'unico elemento da considerare non per capire come risolverlo ma per realizzare prima di tutto quanto sia necessario farlo si finirà col considerare giusto il modo in cui si svolge perché una cosa che siamo stati capaci di spiegare ci apparirà giusta a meno che qualcuno a sua volta non ci dimostri con argomenti uguali e contrari il suo non esserlo ma dato che questo è esattamente il contesto della dinamica la sua replica non potrà essere in alcun modo cura ma solo moltiplicazione di ciò che è anche in originale cioè male e quindi a non fare l'unica cosa che potrebbe intervenire sull'esito risolvendolo e cioè semplicemente interrompere la dinamica che a quell'esito porta senza appenderci nessuna spiegazione e per questo lo faccio io che ogni volta come unico esito smetto letteralmente di respirare e non mi serve ascoltarne per sapere che non esiste sull'intero pianeta un solo argomento che dica giustificata questa cosa tantomeno se a espormeli è chi mi mette le mani al collo ogni volta che mi vede solo perché avendo io vissuto all'inferno per tanti anni riuscendo a fare cheese nelle foto si è portati a pensare con una certa sbrigativa superficialità che allora io non possa che essere il diavolo.



27 dicembre 2014

M'armo

"Il problema non è sostenere le proprie idee con la forza della convinzione, ma il modo e l'atteggiamento con cui tali idee e tale convinzione si manifestano in presenza (virtuale o fisica) dell'interlocutore.
C'è una differenza ENORME tra assertività e presunzione. Una differenza che non può essere semplicemente liquidata con la solita solfa degli occhi di chi guarda. Tu sembra che voglia ignorare o minimizzare la dimensione umana del tuo interlocutore. Prima ti renderai davvero conto di questo fatto, meglio sarà sia per te stesso che per le persone che ti vivono accanto".


Trovata in rete in conversazioni che non mi riguardano, me la appunto qui in attesa di un marmista che me la scolpisca in quel dolmen che mi porto appresso da una vita il cui peso cerco, involontariamente, di ridurre condividendolo con braccia che vorrebbero abbracciarmi e io invece uso come  sostegno di un peso che non chiedono, non desiderano, non meritano e con le quali non mi scuserò mai abbastanza, considerato che quando il peso è quello e la fatica è quella, le occasioni per farlo saranno sempre meno di quelle che servirebbero per rendere quelle scuse accettabili anche da chi le riceve.
Ci sono giorni nei quali sono fragile come argilla, quelli nei quali lo specchio al mattino mi dice l'implacabile verità sulle conseguenze della fatica di essere ciò che sono e questo è uno di quei giorni.
Non sono una brutta persona, io lo so di non esserlo.
Ma so anche che la forma che ho è purtroppo esattamente quella e se solo fossi capace non di farne vedere una diversa ma la fatica che faccio per cercare di averla, una diversa, allora forse si vedrebbe non una forma diversa della quale purtroppo non dispongo, ma quella della fatica che faccio a non poter far altro che abitarci dentro con la comodità che si ha quando chiuso da decenni dentro una vergine di ferro.
L'orgoglio che mi caratterizza non è orgoglio di ciò che sono, ma orgoglio di essere riuscito a sopravvivere a me stesso.
So il come, so il quanto, certi giorni quello che mi viene meno è il perché e quelli sono giorni che si fanno davvero faticosi.

26 dicembre 2014

Noella



Calore di una nonna che ride fino alle lacrime e fino alle due di notte per forse la terza volta in vita sua.
Calore di una famiglia che si allarga e si stringe come un abbraccio a seconda di quanti hanno bisogno di quell'abbraccio.
Calore di bambini che come tutti i bambini mi detestano perché li prendo in giro come fossero adulti e per lo stesso motivo mi cercano per darmi il biglietto disegnato a mano per me.
Calore di un contatore che salta e per un istante restano le candele che mi fanno pensare "Lasciamo tutto così" per quanto era bella l'immagine di un natale che essendo di non detti sarebbe stato perfetto se fosse stato anche di non visti.
Calore del primo Babbo Natale vero di questa mia vera casa.
Calore di un pensiero a chissà se mi pensi.
Calore di cibo di ognuno per ognuno.
Calore di un "Mi mancherà", di un "Anche a me".
Calore di una tavola finale notturna e solitaria con vino arachidi e il profumo delle persone ancora addosso.
Calore di segnaposto con dediche non scritte e nemmeno dette, solo sorrise e altro non serve per ascoltare le parole che non ti ho detto.
Calore di un citofono che alle tre di notte suona di nuovo per l'ultima ostrica e un whiskey della buonanotte.
Calore di ospiti felici di ospite felice.
Calore della voce contenta di un fratello lontano.
Calore di canzoni sciocche di natale.
Calore di bambini che ricevono telefonate di padri lontani e andate in qualsiasi stanza volete per parlargli meglio, mai come in quell'istante mi casa es tu casa perché sì, yo soy pagliaccios e di quella lacrima di makeup quando sarai grande anche tu andrai orgogliosos.
Calore di mani solo guardate o solo sfiorate.
Calore di prove d'orgoglio nelle confidenze di una sigaretta sul balcone.
Calore del silenzio dell'istante in cui non serve dirsi la bellezza di famiglia che sapremmo creare, calore di un ", se solo..." se solo quel ", se solo..." non l'avessi solo pensato.





23 dicembre 2014

Stupiddini

Fedeli a una tradizione di moderazione che ci tengono a vantare come prova della nota qualità giornalistica che li contraddistingue, oggi al Fatto Quotidiano hanno nuovamente dato prova di saper sempre distinguere con scrupolosità i contributi degli utenti all'altezza della loro linea editoriale e quelli che al contrario, causa linguaggio eccessivo, accuse senza fondamento e palesi insulti, non possono che vedersi privati della possibilità di "manifestare liberamente la tua opinione all'interno di questo thread", così da non macchiare l'immagine complessiva di livello notoriamente prezioso della quale è possibile godere ogni volta che ci si avventura nei fiumi di commenti generati dai loro articoli.


20 dicembre 2014

Ma se in fondo al cuore tuo c'è un ragazzo, sono io

Sono cresciuto in una famiglia nella quale si mettevano in difficoltà le persone in misura direttamente proporzionale al legame che si aveva con le stesse.
Ironia e sarcasmo l'hanno sempre fatta da padrona, sminuire, sminuire sempre, ridurre, ridicolizzare, se possibile umiliare, se ami umilia.
Sono cresciuto spettatore di umiliazioni che durante i ventiquattro frames al secondo mi dicevo non avrei mai replicato, assistevo a massacri di caratteri deboli, il mio in testa, che mi dicevo Io non farò mai, mai firmerò con il mio nome i momenti di difficoltà di persone che amo.
Mi ritrovo oggi uguale, distante chilometri da quello che in quei momenti subiti mi promettevo di essere, incapace di offrire altro che non sia il massacro di qualsiasi cosa io ami non nel senso di allontanamento o di distruzione ma nel senso di linguaggio, non lo fai per allontanare o per distruggere ma lo fai perché senti che quello è il modo, quella è la maniera di amare, lo fai per avvicinare, per stringere, per accudire, per accudire e proteggere distruggi e non puoi farne a meno, sei cresciuto così, ti sai muovere solo dentro quei confini, ami solo così.
Potessi mettere sul tavolo il cuore ogni volta che attacco qualcuno si vedrebbe quanto è grande, quanto batta, quanto sia a sua forma e si faccia casa per accoglierlo, eppure non lo posso fare e allora resta l'attacco, resta la distruzione, l'umiliazione e un sacco di gente che pensa io passi il mio tempo a fare a pezzi le persone migliori che ho accanto quando in realtà sto facendo loro un monumento, perché così sono cresciuto, così sono stato scolpito, così sono fuso nello stampo e diosanto quanto vorrei avere un'altra forma ma non è a mia discrezione, trent'anni non li cancelli solo perché li consideri sbagliati, anche il cancro è sbagliato ma non basta dirlo per vederlo lasciare le cellule.
Vorrei che la gente mi amasse per quello che sono e non nonostante quello che sono, vorrei disegnare questo bisogno in una maniera comprensibile, decifrabile anche da chi ha avuto la fortuna di avere una vita semplice, banale nel senso bello del termine, nella quale lo so che quelli come me sono a forma del nemico e invece no, non sempre forma è contenuto, a volte la forma è nostro malgrado.

Vorrei toccare le persone, ho bisogno di toccare le persone, come si può vivere senza toccare le persone, ogni volta che passo una serata in mezzo alla gente vorrei ci fosse sempre qualcuno al quale dare la mano e tenerla stretta tutta la serata per sentire di esserci.
Ché poi io mi dimentico sempre che quando io scrivo, poi c'è chi legge.


16 dicembre 2014

Paese che vai

Fermo restando il rispetto per l'uomo, che non è in discussione, qui è del giornalista che si parla e allora diamogli due contorni con un caso pratico:

Giulietto Chiesa è giornalista che con regolare ciclicità rilancia la sua storiella preferita dopo quella sul 11/9 e cioè quella secondo la quale il governo USA tramite l'FBI addestrerebbe/pagherebbe musulmani per compiere attentati all'interno degli Stati Uniti, le volte che non li fa compiere direttamente ai suoi stessi agenti.
Qui uno degli ennecento esempi: link
Non gli sembrò vero di poterla rilanciare quando RaiNews decise di cadere anche lei nel gioco delle sintesi acchiappa click, sulla quale lui poggiò un "Ve l'avevo detto io" condito da ironia e soddisfazione così eccitati, che finì con l'infilarci dentro tutto il carnet, bilderberg compreso: link

Il fatto è che l'inchiesta di Human Right Watch non sostiene affatto la tesi di un sistema per compiere attentati pagando consapevoli e concordi attentatori, ma quella di un sistema per fabbricare inconsapevoli raggirati colpevoli da fermare prima che ne compiano, costruendo loro intorno un contesto di strumenti obiettivi e pianificazioni reali da utilizzare come prove concrete al momento dell'arresto, che non è certo cosa della quale andar fieri dato che, in soldoni, di fatto è una macchina costruita per mandare in galera gente in numero direttamente proporzionale al bisogno di ostentare efficenza nel controllo del terrorismo, ma in ogni caso è decisamente diverso dal sostenere (di avere le prove) che l'FBI paghi musulmani per compiere attentati e che in un numero minore di casi li faccia compiere direttamente da suoi agenti infiltrati, come la lettura di Chiesa vuole venga inteso.
Ora che il suo lettore di riferimento non legga le fonti, tantomeno quando sono muri in inglese come l'inchiesta di HRW, è cosa certa al punto che lui può riportare quello che gli pare (senza però linkarla diretta) certo che la versione che prenderanno per buona sarà quella che lui dice vera, sono i suoi fan, ok, li conosciamo.
Ma che uno che ha vissuto all'estero gli anni che ha vissuto lui non parli inglese il minimo che serve per saper leggere cosa dica davvero quell'inchiesta è scenario talmente improbabile da lasciare praterie all'unica possibilità alternativa e cioè che lui lo abbia letto benissimo quel lavoro, ma che gli abbia fatto comodo distorcerne il senso vero fino a ribaltarlo, solo per supportare la sua tesi con una fonte ritenuta autorevole come HRW ingannando i suoi lettori per far credere loro che nel suo libro, del quale naturalmente fornisce il titolo, tutto quello che HRW ha "confermato" stava già scritto.

Quando un giornalista opera consapevolmente questa distorsione della realtà per trasferirla volontariamente mistificata a chi si fida del suo inglese e della sua autorevolezza professionale, smette di essere un giornalista; quando in più lo fa per dirottare indignazione e giudizi di responsabilità in stragi terroristiche non su un soggetto ma su una nazione intera, ci sta che quando va in gita in alcuni paesi non sia in cima alla lista dei graditi e non serve scomodare il pericolo democrazia globale per spiegare perché uno così venga accompagnato alla porta quando si presenta.

Qui l'inchiesta originale: link

9 dicembre 2014

L'Oro due

Quando un figlio unico dice Amore parla di una cosa che ha conosciuto solo in parte.
Solo chi non ha fratelli può pensare sia incredibile morire d'infarto al funerale del proprio.



1 dicembre 2014

In parole povere

Saremmo stati un lusso reciprocamente meritato, il "Come loro" nei discorsi di chi ogni giorno cerca un modo per dirlo meglio.
Mi manchi in quel modo in cui mi mancheresti anche se ti avessi e questo è quanto.


20 novembre 2014

Profumi e balocchi per noi

Torno a Torino dedicandomi al consueto briefing serale con nonna che a cena mi aggiorna sui suoi esami, le sue medicine e relativa nuova posologia aggiornata dalla reumatologa, i programmi per le festività natalizie e le prime cose già cucinate per -come dice lei mentre a novembre cucina per natale- non arrivare all'ultimo, la mappatura dei negozi della zona per trovare al costo più conveniente la renna di luci che quest'anno vuole integrare all'installazione da centoventi chilowatt con la quale dal suo balcone ogni anno dà il suo personale contributo a Luci d'Artista, bollettini medici sulla quota delocalizzata della famiglia, aggiornamento sui progressi post-cataratta, gossip sul parentame, discorsi di microeconomia applicata alla storia del quartiere per stimare le possibilità di successo del bar che stanno aprendo sotto casa, scomessa reciproca sui soldi con i quali la tizia questa volta tornerà a casa da I Pacchi, lei dice sempre "Prendili che poi non ti resta niente" e parla della sua storia, io le faccio sempre eco "Prendili che poi non ti resta niente" e parlo della mia, silenzio che c'è da vedere se nel pacco ci sono i blu o i rossi, dopo il Telegiornale l'unica Dottoressa della quale e con la quale si parla è quella che fa le offerte, chissà se questa volta lo aiuta o lo induce a rischiare e perdere, sarà la seconda come sempre.
Mentre la tensione ci attanaglia e la suspance satura l'aria in cucina mescolandosi alla memoria olfattiva del minestrone e della pizzaiola con purè che ci hanno dato le forze per sostenere il trance agonistico al quale ci abbandoniamo ogni sera fino all'ultimo pacco, l'unica adrenalina che il mio corpo ha prodotto negli ultimi due anni se escludiamo quel tanto breve quanto miracoloso istante nel quale fuori dai finestrini dell'autobus comparve il cartello Città di Castello, prende una fetta di pane e in silenzio con minuziosità certosina crea un piccolo disco perfetto estraendolo dalla mollica a colpi di microeliminazioni del superfluo intorno come Michelangelo i Prigioni.
Creato questo piccolo basamento con una cura che lascia pensare sosterrà non capisco cosa ma a giudicare dalla perfezione di sicuro qualcosa di incredibilmente solenne, nel silenzio della suspance di cui sopra mentre quella in tivvù ride nervosamente dissimulando la rabbia per non aver accettato l'offerta prende il bicchiere di vino e con delicatezza di piuma lo inclina lentamente, lentamente, lentamente, finché una goccia e poi due, lentamente al punto da essere in grado di fermarsi prima che cada la terza con una fermezza della mano che io non ho a quarant'anni, cadono esattamente al centro del piccolo basamento bianco perfettamente rotondo, creando al suo esatto centro una macchia altrettanto perfettamente rotonda di colore rosso.
Seguo in silenzio questa piccola chirurgica operazione chiedendomi cosa diavolo stia combinando, sarà una nuova ricetta, starà facendo esperimenti per i finger food natalizi augurandomi che questo non equivalga alla sostituzione delle alici col bagnetto verde, starà studiando un progetto in scala dell'installazione luminosa esterna che dovrò montarle nei prossimi giorni per dare il via all'annuale gara con il palazzo di fronte, devastato dal dubbio e dall'impossibilità di decifrare un momento così sospeso mi inserisco nel suo spazio e nel suo tempo, alleggerito dalla consapevolezza che se I Pacchi li ha abbandonati lei allora posso farlo anch'io perché sta evidentemente accadendo qualcosa di decisamente più importante:
Nonna ma che stai facendo?
Niente, gioco.
E poi ride.



15 novembre 2014

Interessi sul Conflitto

Dato che come me vi siete certamente domandati quanto è rimasto in cassa dopo l'evento al Circo Massimo, finanziato con i soldi che Grillo ha chiesto ai suoi intelligenti elettori di versargli per renderlo possibile, certo di farvi cosa gradita e sapendo di poter contare sulla nota trasparenza che solo loro e nessuno mai, dopo un mese sono andato io a verificare per voi.



14 novembre 2014

Nel bene e nel male

Sono esattamente ventiquattro ore che mi sto chiedendo perché abbia rivelato uno dei miei tre segreti, da ieri sera due.
Non è una domanda che nasce da sensazione di pentimento ma di reale curiosità.
Cosa accade quando una cosa tanto intima e pesante da meritare anni di protezione, di conservazione dentro un bunker talmente blindato da riuscire a superare anni di tentazioni di cedere ad affetti profondi, amori saldati con la colla della sincerità estrema, relazioni basate sulla estrema confidenza, familiari ai quali si è offerta la rivelazione di momenti della propria storia paradossalmente più pesanti, più duri, più violenti, improvvisamente e senza motivo apparente scardina le cerniere di quel bunker ed esce così, inserendosi tra racconti di tacchi a spillo e gli anni della scuola?
Quale leva ha aperto la porta blindata da talmente tanti anni che ormai sembrava non essere più apribile più per un tempo ormai scaduto che per reale bisogno di perpetrata protezione?
Viene da pensare che possa essere il bisogno di liberarsi di zavorra ormai legata a una vita precedente di mille anni fa, la necessità di ridurre il carico sulle ruote, invece no.
Perché rivelare un segreto che si è visto offrire la fatica del silenzio di anni non significa liberarsi di quel segreto ma, all'opposto, riattivarlo.
Tenere una cosa chiusa nel profondo del proprio intimo, decidere un giorno di sigillarlo nel chiuso della scatola delle cose sulle quali non ci si porrà mai la questione dell'opportunità di riestrarlo è una scelta che solo apparentemente lo renderà pesante, nella realtà è un processo di sepoltura che ne disinnescherà gli effetti per tutti gli anni di occultamento, lo renderà parte di un passato ormai chiuso e con lui i suoni, i sudori freddi, la durezza e la paura.
Riaprire quel sarcofago non è una maniera per liberarsi, ma per liberarlo.
Sei di nuovo l'uomo che tanti anni fa fece quella cosa, non sei più leggero di quanto lo fossi prima di aprire la scatola, sei al contrario di nuovo pesante, anche solo per il tempo del racconto tu torni pesante come piombo e quel peso lo senti tutto, di nuovo.

Io non sono moralista per cultura, sono moralista per necessità, da quando a sette anni da solo ho dovuto decidere cosa sarebbe stato giusto e cosa sbagliato da quel momento in poi e per il resto della mia vita, sapendo che a quell'età non potrai che improvvisare e per questo, per ridurre al minimo le possibilità di errore, dovrai essere deciso e determinato nello scegliere e poi, qualsiasi scelta tu abbia fatto, portarla avanti da quel giorno in poi e per sempre, perché l'effetto protettivo della tua nuova morale non sarà dato dalla correttezza della scelta ma dal fatto che ne avrai fatta una, una qualsiasi.
Non che non avessi esempi accanto, ma un intuito già in grado di capire quanto quegli esempi fossero peggiori della mia più azzardata improvvisazione mi fece capire la necessità di scegliere da solo e sperare di averci preso.
Magari sbagliare è una licenza che una persona può concedersi in cambio dell'eliminazione della certezza di farlo.
Io sono un moralista, fiero.
Ho bisogno di sapere ogni giorno in quale esatto punto risieda il giusto e in quale lo sbagliato.
Non conta se siano davvero lì né conta praticarne solo uno o solo l'altro, è importante per me sapere che sono in un punto preciso entrambi perché questo si traduce nella quotidiana certezza che siano in punti diversi, opposti, che non sono nello stesso, non sono sovrapposti e quando pratico la parte sbagliata voglio saperlo, dev'essere una colpa, quando pratico quella giusta voglio saperlo, dev'essere un merito.
"Fai del bene dimentica, fai del male ricorda" dice nonna con la solita tranciante saggezza di chi sintetizza in una frase decenni di tentativi di arrivarci da solo oggi consegnatami con la speranza che sappia farne buon uso.
Perché ci sono momenti della vita nei quali senza accorgertene Giusto e Sbagliato iniziano progressivamente a spostarsi dal punto in cui stanno silenti e, come attratti, si fanno via via più vicini tra loro, più abbassi la soglia d'attenzione e più si avvicinano, più si avvicinano più il confine tra loro si assottiglia, più si assottiglia più smetti di vederlo nitidamente, non puoi, stai pensando ad altro, a respirare, aria buona o cattiva smette di essere una distinzione importante e respirare, qualsiasi cosa, diventa l'unica priorità, fare, uscire, smettere.
Il punto esatto nel quale Giusto e Sbagliato si toccano assumendo la stessa identica forma si chiama Disperazione, un istante in cui la sovrapposizione fa sì che il Giusto appaia sbagliato e lo Sbagliato assuma l'innegabile forma del giusto.
In quel punto esatto si diventa capaci di qualsiasi cosa.
Qualsiasi cosa.

Ecco cos'è stato ieri sera, ecco la risposta alla domanda iniziale arrivata come sempre a colpi di flusso di coscienza.
Sto facendo buon uso di quella nuova saggezza consegnatami.
Se fai del male ricordalo, ecco cos'è stato, accidenti.
Un segreto è un non ricordo, un non ricordo è una amnistia.
Rivelarlo è un indulto.
Sei libero uguale, più di prima, ma senza più l'ansia di esserlo cancellando il reato che solo l'amnistia dell'oblìo ti ha fino a oggi garantito.
Perché quando Giusto e Sbagliato si sovrappongono ciò che si genera non deve necessariamente essere pagato tutta la vita.
Ricordato sì, però.
E non sempre, non solo, con se stessi.



8 novembre 2014

Quindici giorni di solitudine


Occhi dentro occhi e prova a dirmi se
Un po' mi riconosci o in fondo un altro c'è sulla faccia mia
Che non pensi possa assomigliarmi un po'

Puse
Se n'è già parlato, adesso dateci tempo.

Mani dentro mani e prova a stringere
Tutto quello che non trovi
Negli altri ma in me
Quasi per magia
Sembra riaffiorare tra le dita mie


Il bar delle grandi speranze - J.R. Moehringer
Regalo di Elena, là dove la parola regalo riempie per intero il suo significato.
Ché poi lo so che uno come me che non ha letto niente in vita sua si ritrova con la puntuale sensazione del capolavoro ogni volta che si ritrova in mano qualcosa di rilegato per il solo fatto di maneggiare una propria scoperta, una propria crescita, ma no, questo processo poteva andar bene per i primi, alla fine possiamo anche darla per superata questa cosa e metterci lì dove stanno le persone che sanno discernere, che adesso due contorni li hanno, gli strumenti ancora no ma nemmeno a secco del tutto, dai.
Ci pensavo l'altro giorno mentre via mail rispondevo a una serie di "Hai letto questo? E di questo autore cosa hai letto?" domandatimi da chi sta decidendo quale sarà il prossimo regalo (non mi basterà una vita per ricambiarli tutti, mannaggia a voi) infilando un po' di titoli che nemmeno io ricordavo, perché poi io ho anche questo difetto della memoria che mi fa cancellare ogni volta tutto e per questo sono l'equivalente di uno che non ha mai letto un libro non perché sia effettivamente così ma perché non ne saprei raccontare nemmeno uno di quelli letti, li rimuovo puntualmente come rimuovo tutto, dai trent'anni in poi ho smesso di memorizzare e quindi vivo una lunga sequenza di morti e rinascite quotidiane, ma ricostruendo la sequenza per rispondere alla mail mi sono reso conto che accidenti, ne ho letti un sacco, è che me li dimentico, sia come contenuto che come numero.
O meglio, non diciamo un sacco, diciamo che nel mondo nel quale sono cresciuto io la media annua è circa un decimo di quanti ne abbia letti io e quindi alla fine questo mio essere a digiuno di libri, diamoci anche una pacca sulla spalla ogni tanto, era vero fino a un po' di tempo fa oggi è più che altro una leggenda che io stesso continuo ad alimentare solo perché di fatto a domanda non saprei descriverne nemmeno uno e quindi ne abbia letti cento o nessuno il risultato a livello di bagaglio personale è lo stesso.
Per esempio in uno di quelli letti in questi quindici giorni si facevano riferimenti a Il Grande Gatsby, libro che ho letto l'estate scorsa ma del quale non ricordo assolutamente nulla e per questo quei riferimenti erano per me ignoti.
Cioè mi ricordo che racconta di uno che viveva da solo in una casa nella quale dava grandi feste, ma di più non saprei raccontare e nessuno potrà mai capire quale razza di handicap sia questo, perché non è solo lo sforzo di leggere, di trovare il tempo di farlo e nel caso non ci fosse riuscire a inventarselo fino al punto di andare anche in vacanza con la ferma volontà di non conoscere nessuno così da garantirmi quella solitudine necessaria per tuffarmi in una pila di libri che da mesi volevo leggere, ma è il farlo sapendo che quel tempo non lascerà traccia nella memoria ma solo nei piaceri al pari del ricordarsi di aver fatto sesso una volta in maniera molto particolare ma non ricordare con chi, ricordo che ogni volta sono felice di farlo, ma è un piacere che non colma lacune, non riempie alcun recipiente se non quello dell'inconscio piacere e finisce lì, di tutto ciò che ho letto non mi rimane in mente assolutamente nulla.
Il bar delle grandi speranze, al quale le cento righe precedenti vogliono dare i contorni di uno dei libri più belli che abbia mai letto, fa eccezione per un motivo molto semplice: la storia che racconta non la devo memorizzare successivamente al libro perché è preesistente in me prima della lettura.
Io ho vissuto ogni singola parola di quel libro nel senso che l'ho vissuta prima, quando vivevo la mia età memorizzata, quella fino ai miei trent'anni.
Ho fatto tutti quei passaggi, ho attraversato tutte quelle lacerazioni, quelle separazioni, quei rapporti sbilanciati, ho vissuto quel legame con l'incredibile microcosmo che solo un bar ti può far vivere e dentro quel microcosmo ho toccato le vette più alte di me stesso così come i pozzi più bui e profondi; con il bar, quel bar, ho vissuto la più complessa opera di recisione con me stesso che sia riuscito a completare contro ogni aspettativa di successo, mia prima di tutti.
Uscire (e mai più rientrare) da un microcosmo che tanto in alto mi aveva portato è stata una delle sfide più innaturali e insieme necessarie che abbia portato a termine in vita mia e per questo di quel libro io conosco ogni parola, ne conosco proprio il suono, l'odore, la fatica, l'immane fatica.
Fin dall'inizio ho percepito che mi avrebbe trapassato da parte a parte, ma sbagliavo nell'identificare la lama nella storia con il padre e con la madre che apre il libro, solo una volta entrato davvero nel libro ho visto quale sarebbe stata la lama più affilata delle tre che quel libro brandisce e resomi conto che sarebbe stata il bar ho capito il peso di ciò che stavo maneggiando, di ciò in cui stavo rientrando.
E' incredibile per me pensare che ciò che altri percepiranno come null'altro che la formale cornice di una storia di famiglia, per me che ho una storia di famiglia così complicata e dolorosa, è in realtà il vero contenuto incorniciato in una storia familiare così sovrapponibile alla mia.
Per questo per questo è uno dei libri più belli che abbia mai letto, perché mi ha ridotto quello che per me è il fantasma più grande, la famiglia, a pura cornice di qualcosa di mio ancora più grande e non l'avevo mai ascoltato così chiaramente, così profondamente, così perfettamente.
Grazie Elena.
Quando dicevo che il prossimo sarà una bella sfida è chiaro che estremizzavo un risultato oggettivamente irraggiungibile e non per colpa.
Un libro più mio di questo non è materialmente possibile che sia stato scritto.
Ce ne saranno mille belli altrettanto e certamente altri mille ancora più belli, ma nessuno potrà mai essere così millimetricamente mio nella cornice come nella tela sia che si consideri l'una cornice e l'altra tela che viceversa.
E' Escher che mi fa il ritratto senza perdere un gradino, senza lasciare indietro una sola porta, senza perdere mai l'equilibrio se non negli esatti punti in cui lo persi anch'io, irripetibile.

Potessi trattenere il fiato prima di parlare
Avessi le parole quelle giuste per poterti raccontare
Qualcosa che di me poi non somigli a te

I figli della Repubblica. Un'invettiva - Maurizio Maggiani
Sessanta pagine scritte belle grandi con margini che arrivano quasi a metà pagina (ma basta però 'sta storia) perché non ne uscissero le venti che sono in realtà, quei libri che in due ore birra compresa fai fuori perché sono scritti per essere letti così, tutti d'un fiato e con una birra.
Ci sono libri che sono scritti per esser tali e altri che sono evidentemente poco più che la stampa di un po' di appunti su un quaderno che periodicamente chi è sotto contratto tira fuori per spuntare il ritmo richiesto, uno sfogo personale, la possibilità che solo alcuni autori hanno di vedersi pubblicare anche semplicemente dei pensieri estemporanei senza un fine preciso se non quello di sfruttare il lusso guadagnato di poterli esprimere a una platea più estesa di quella che ciascuno di noi vorrebbe avere a disposizione quando sotto una doccia più lunga del solito ci abbandoniamo a soliloqui che sentiamo solleverebbero pandemoni e ovazioni se solo non ci fossimo solo noi, in quella doccia, ma noi e tutti quelli che ascoltano qualsiasi fiato di Maggiani, io tra questi.
Quant'è bello Maurizio Maggiani.
Non bravo, è proprio bello, l'ho sempre trovato un uomo bello nel senso sofisticato e insieme semplice del termine.
Sarà che chi ha scritto E' stata una vertigine per me potrebbe scrivere qualsiasi cosa e farmi leggere qualsiasi cosa, sarà che io gli uomini sottili quanto carta velina ma col peso specifico di un'incudine li vorrei tutti padre, li vorrei solo per me, ma quando è di Maurizio Maggiani che si parla io nemmeno guardo il titolo, leggo il nome dell'autore e compro.
Anche scrivesse il classico libro che il giudizio "Questo avrei potuto scriverlo anch'io" lo rende oggettivo, non arrivo a dire che sia questo il caso perché io no ma ne conosco diversi che senza fatica potrebbero scriverne uno uguale e anche migliore, per me resterà sempre un libro di Quello che ha scritto E' stata una vertigine e questo chiude qualsiasi cerchio.
Non esprimo nemmeno giudizi su ciò che leggo, non serve, è Maggiani, sta lassù perché sta lassù come persona, facesse il gelataio farebbe i gelati migliori del mondo anche quando così non è, ci sono uomini che hanno quella forma e lui è tra questi.

Potessi trattenere il fiato prima di pensare
Avessi le parole quelle grandi
Per poterti circondare
Di quello che di me
Bellezza in fondo poi non è

Che tu sia per me il coltello - David Grossman
Che fatica, accidenti.
Ok, lo ammetto, ci sono libri che per me si fanno muro e questo è uno di quelli.
Ho provato a iniziarlo tre volte e tre volte a un certo punto l'ho chiuso, sempre per lo stesso motivo: mi toglie l'aria.
La prima volta mi sono arreso quasi subito ma avevo dalla mia parte la scarsità di tempo e un libro precedente che mi faceva l'occhiolino, la seconda volta mi sono dato più tempo perché chi me l'ha consigliato non sbaglia mai mira e quindi sapevo essere un muro che dovevo valicare per trovare il punto in cui avrei detto "Ah ecco, ora capisco", ma anche lì a un certo punto mi è mancata l'aria.
Quando si è trattato di mettere in valigia gli unici compagni di questa mia vacanza selezionandoli sapendo che non avrei dovuto sbagliarli perché andavo dove non ne avrei trovati altri, ho deciso di accettare definitivamente la sfida contando sul fattore tempo questa volta a favore del libro.
Come sentissi inconsciamente che la responsabilità era mia e per questo dovevo impegnarmi, dovevo riprovarci una terza volta in assenza di alibi.
Questa volta sono riuscito ad arrivare a pagina cento, avevo riconfermato la sensazione di soffocamento già all'inizio anche la terza volta ma questa volta mi sono imposto di andare avanti, di andare oltre, perché dentro quel libro ci dev'essere qualcosa di grande se tutti quelli che più o meno direttamente ne sono collegati sono per me persone di così alto valore, eppure non ce l'ho fatta nemmeno questa volta.
Non la so spiegare la sensazione che provo leggendolo, se non con l'immagine di due mani al collo che stringono e stringono forte e il collo non è il mio ma è quello della donna alla quale scrive, solo che l'aria manca a me, che per tutte e tre le volte mi sono chiesto se io sia così, così drammaticamente inumano come il protagonista di quel libro.
Ditemi di no, ditemi che oltre pagina cento si scopre che lei è una sua proiezione, che non è davvero un intero libro di sue lettere, lettere così asfissianti, così totalizzanti, alle quali esiste davvero una donna così peggiore di lui da rispondere davvero.
Ditemi che a pagina centouno si scopre che lui è in carcere, un carcere vero e non quello che si è autoinflitto, con vere sbarre e vera sodomìa nei bagni, e allora gli darò una quarta possibilità.
In alternativa no, non ci rientro là dentro.
Colpa mia, ignoranza mia, debolezza mia, tutto quello che volete ma no, respiro piano, faccio fatica a volte, ma respiro e l'amore per me non ha nulla a che fare con quello psicomondo deviato.
Almeno alla fine si ammazza con quel coltello?
O non ha nemmeno quel coraggio lì?

Bocca dentro bocca e non chiederti perché
Tutto poi ritorna
In quel posto che non c'è dove per magia
Tu respiri dalla stessa pancia mia

La manomissione delle parole - Gianrico Carofiglio
Qui non è questione di mia memoria che resetta, sono certo di non aver mai letto nulla di filologìa, eppure questo libro mi aveva attirato proprio per il titolo che, a istinto, mi comunicava esattamente ciò che poi ci ho trovato dentro e cioè proprio filologìa.
Tanto concreto quanto, paradossalmente visto il tema, (per me) semplice.
Un po' troppo politico e un po' troppo inquinato dalla costante tentazione, puntualmente soddisfatta, di utilizzare il tema per espirmere giudizi politici sull'attuale momento storico, giudizi che pur rispecchiando fedelmente i miei ho trovato francamente fuoriposto al confine con la banalizzazione.
Come se certe analisi che per essere tali hanno necessariamente bisogno di volare molto alto, sentissero ogni tanto la necessità di precipitare nel fango di Berlusconi, sporcarsi un po', farsi sciocche, per poi riprendere il volo e tornare lassù tra Aristotele Primo Levi e la Arendt a riprendere il filo dove l'avevano lasciato prima di andare giù in piacchiata e chissà perché, chissà quale necessità risolve, non capisco.
Vergogna.
Il capitolo che più mi ha preso di peso e mi ha portato lassù con lui è stato quello sulla Vergogna.
Incredibile quanto si possa entrare dentro quella parola, quanto contenga quella parola.
Io l'ho sempre detto che con le parole si fa girare il mondo nel verso che si desidera o che comunque saperle maneggiare e conoscere è fondamentale per vivere almeno quando lo è mangiare, dormire, trovare qualcuno che meriti tutto il nostro mondo e che abbia voglia di portarci nel suo.
Non ho mai letto nulla di filologìa ma uscito dall'ultima pagina ho fatto una cosa che non mi era mai capitata, anzi due: mi sono letto l'intera parte dei riferimenti bibliografici, a sua volta altre venti pagine, e ho aperto un file di word intitolato "Libri da comprare".
Senza rendermi conto del totale se non alla fine, ne ho elencati almeno una decina, a star bassi.
Significa che non mi è piaciuto il libro in quanto tale, mi è piaciuto il mo(n)do in cui mi ha portato.

Potresti raccontarmi un gusto nuovo per mangiare giorni
Avresti la certezza che di me in fondo poi ti vuoi fidare
Quel posto che non c'è
Ha ingoiato tutti tranne me

I fantasmi di pietra - Mauro Corona
Corona è uno di quegli autori che ogni volta che lo ascoltavo pensavo "Prima o poi devo leggere qualcosa di quest'uomo" e questa vacanza è stata l'occasione.
Bisogna dire che entrare in un autore scegliendo come porta d'ingresso un libro da trecento pagine non è quel che si dice dare una possibilità, diciamo che gran parte della fiducia l'aveva evidentemente già conquistata come persona, però tant'è, trecento pagine filate, ho passato periodi nei quali non le leggevo complessivamente in un anno e adesso guardalo lì che ometto, dagli una birra, il tavolo di un bar, di un ristorante, di una spiaggia, di un aereo, e si fa portare a spasso per Erto come nulla fosse chiedendo di visitare anche la prossima casa e poi quella dopo e poi ancora e ancora dopo, no dai, già finito.
Il bello dei testi di Corona, diciamo secondo me il trucco che lui sa bene (di) usare, è che prima conosci lui come persona e poi lui come testi e questo fa sì che, essendo lui così caratteristico e unico, i testi non vengano letti ma vengano ascoltati come fossero recitati, li leggi sentendo proprio la sua voce e non la tua come avviene in genere quando leggi qualsiasi altro libro.
E allora non è più la solitaria lettura di un libro ma l'ascolto di storie raccontate davanti a un camino da una persona dalla quale ascolteresti qualsiasi storia, comprese e forse soprattutto quelle che non racconterà mai.
Ci sono autori sui quali ho la ferma convinzione che abbiano un inconfessabile segreto, quell'inconfessabile segreto.
Uno è De Luca, oggi lo penso anche di Corona.
Dai su, è stampato in ogni loro pagina.

Dovresti disegnarmi un volto nuovo e occhi per guardarmi
Avresti la certezza che non è di me che poi ti vuoi fidare 
In quel posto che non c'è
Hai mandato solo me

2 novembre 2014

Cloud saving

Alla vostra destra, una scimmia sul segway:


Alla vostra sinistra, BipBip fugge da Will E Coyote:


Alla vostra destra, Paolina Bonaparte:


Alla vostra sinistra, Lupo Alberto:


Si torna a casa, dove Cloud significa HaifinitoHaifattoHaisalvatoPossoscaricare?

29 ottobre 2014

Tette, tette ovunque

Se persino Terzani, e stiamo parlando di Terzani, nel suo isolato congedo ha avuto bisogno della condivisione, foss'anche del solo fortunato figlio, significa che non c'è realizzazione possibile che non abbia necessità di una superficie sulla quale riflettersi.
Socialità, aggregazione, selezione, scelta, non si sceglie una bellezza ma un linguaggio, un materiale riflettente, amplificatore, decodificatore.
Non è bisogno di condivisione ma di uno sguardo altro, di un racconto di noi stessi fatto da voce suadente, convincente, onesta, affidabile e credibile più della nostra stessa.
La vita è compiuta se è consegnata, altrimenti è solo un viaggio già che ci sei.
La vita è compiuta quando è ascoltata, ascoltata con interesse da chi ce la restituirà indietro con un dettaglio a noi sfuggito.

Allungare una mano e trovare massa grassa, anche addormentata, ma stringere i pugni e gli occhi e il respiro e le palpebre solo per fare il gioco di aprili tutti insieme e trovarti davvero lì, a raccontare per quale motivo non chiedevi altro che trovarti davvero lì.
Non è avere ragione, è essere ragione.
Ragione per esserci, per riflettersi, per considerarsi un racconto migliore di noi stessi e un interlocutore al quale raccontare il perché non si amano le persone, si ama la loro vita e il suono che ha quando recitata con voce altrui, la propria.
Non è dire Ti amo, è dire La tua vita è così emozionante che vorrei essere io a raccontartela, a riflettertela, è essere specchio, specchio delle tue brame e darti la risposta che cerchi ogni volta che la cerchi, esserci ogni volta che vuoi saperlo o che hai solo bisogno, di saperlo.
Ma chi altra potrebbe mai essere la più bella del reame, guardati, è così facile rispondere a quella domanda.

Nel riflesso di un sorriso a ogni mia partenza, nel riflesso dello stesso sorriso a ogni mio ritorno, in mezzo i perché, li prendiamo, li appallottoliamo, ne facciamo carta di riso, una candela, la accendiamo e guardiamo la lanterna prendere il volo.
Sei nel riflesso di ogni parte del mondo, di ogni stagione e di ogni voce, sei nel riflesso di una biciletta a noleggio e di un bicchiere di whisky, di un sole che scotta e di uno spettacolo per bambini, di un aereo e di un bagno nel mare.

Ti chiedessero se sei mai stata a Fuerteventura rispondi sì, sei stata anche qui.
E rispondi sì se ti chiederanno se sei mai stata in Marocco, a Lisbona, in Turchia, a Disneyland, a Londra, a Montecarlo, in Tunisia, a Parigi, in Messico, nei Caraibi, a Barcellona, nel mondo intero, rispondi sempre sì perché sei stata ovunque.
E se ti chiedessero di raccontare tu mandali da me che ti racconto io in ogni parte del mondo, si innamoreranno e sarà come il mal d'Africa.
Mai provato il Mal d'Africa?
Strano, eppure sei stata anche in Kenya.
Come il Mal d'Africa, che esiste e ti trapassa, non esiste posto più bello al mondo.
Anzi sì, uno c'è, tu.
La stellata che c'è in questo momento su questo terrazzo alle due di notte di un oceano lontano, sei il mondo intero cielo compreso e di ogni cosa che faccio invento il racconto che te ne farei.

Vabbé, non proprio di tutte tutte.

Fuochi d'artificio - Negativo - Fuerteventura 2014

24 ottobre 2014

Ce n'est pas que cela

Puse è la protagonista vera di un romanzo.
No, aspetta, rifaccio, partiamo dall'inizio.

Un giorno ricevo via mail la richiesta del permesso di inviarmi un regalo, una forma di delicatezza che so mi sarebbe stata riservata anche se non fosse stata motivata dalla necessità di chiedermi un indirizzo al quale inviarlo, perché delicatezza non formale ma parte delle qualità (e quindi a prescindere) dei mittenti.
Fornito l'indirizzo della zia, che essendo io sempre via mi fa da gentile casella postale, attendo.
Anzi attendiamo, perché la sorpresa, mi viene detto, fa stare sulle spine anche chi me l'ha inviata dal momento che, mi si anticipa, già l'apertura del plico sarà in sé una sorpresa.
Laurea honoris causa in Creazione Aspettativa, difficile riuscire a superarli, il gradino superiore è una stella cometa da seguire e poi chissà cosa trovi, c'è chi dice Gesù, io ci mettevo il mio Fiammiferino ed era lo stesso.
Finalmente arriva il plico, finalmente lo apro, finalmente capisco e mi chiedo perché non ci sia a quel punto anche la cometa.



Ok ho capito, non avete capito.
Questo perché quando vedete una foto non ci cliccate mai sopra e quando vedete una parola evidenziata pensate sia solo una parola evidenziata, quindi andiamo di bricioline di pane:
Ingrandite la foto.
Fatto?
Bene, ora leggete la carta.
Fatto?
Bene, ora cliccate qui
Capito ora?
Allora adesso facciamo che quello che ho provato quando ho aperto quel pacco non ci provo nemmeno a spiegarlo.
Troppe cose, troppe direzioni, troppi piani sovrapposti in maniera perfetta, troppi bersagli centrati in un colpo solo.
Dico solo che per me il regalo poteva fermarsi lì, nel punto in cui qualcuno ha saputo così tanto farsi millimetrico, cos'altro avrebbe potuto farsi altrettanto intenso, quale contenuto avrebbe potuto essere capace di relegare un pensiero tanto grande a mero contenitore, di quale asso i mittenti sapevano di disporre, per potersi permettere una scommessa tanto alta come può esserlo la perfezione ridotta a involucro?

È il 1919, a Zara, in anticipo di due mesi sui nove di noi riflessivi e prudenti nasce Puse, al secolo Jelka, Elena, già dal numero dei nomi capisci che una vita non basterà a un pipistrello che da quel momento vivrà l'intera sua esistenza con la stessa tenacia e forza spese per recuperare quei due mesi vinti al tavolo dell'ansia di iniziare a vivere due mesi più di chiunque altro, di dare al mondo anche il suo volto, la sua voce, le sue domande e le sue soluzioni il prima possibile.
Di Puse, di come Puse abbia messo il suo sigillo sui principali fatti storici che hanno fatto da cornice alla sua immensa vita, si conoscerà da quel momento in poi solo la parte che Vinka, Mamma, ha deciso di raccontare in un diario scritto perché facesse esattamente ciò che ha fatto: sopravviverle e, sopravvivendole, renderla eterna.
Quello che quando Vinka decise di iniziare una cosa meravigliosa come solo un diario che raccontasse la vita del suo piccolo pipistrello avrebbe potuto essere non poteva sapere, è che non stava dando il via a un diario, ma stava dando il La a una storia che sarebbe diventata una matrioska, un gioco di storie ciascuna contenente una seconda storia, contenitore di una terza storia, l'una protezione custodia e narratrice dell'altra, dentro le quali una quarta storia si sarebbe fatta prezioso contenitore di prezioso contenuto: Puse.
Quel semplice diario non chiedeva di essere tanto, ma non avrebbe mai potuto essere meno di ciò che è diventato.
La storia di Puse è racchiusa nella storia di Vinka e qui vale la pena di aprire una parentesi.
Non una sola pagina vede Vinka protagonista, non una sola pagina vede Vinka essere meno che protagonista.
Bisogna essere depositarie di qualcosa che assomiglia al vero e proprio dono, all'alchimia, ciò che qualcuno con felice sintesi chiama Grazia, per riuscire a essere madre in un modo tanto discreto e nello stesso momento tanto intenso.
Capace di amare tutti e tre i propri figli e nello stesso momento di riservare al suo piccolo pipistrello quel di più che sa farsi esclusiva senza togliere nulla agli altri.
Un equilibrio, il filo di un rasoio sul quale solo una madre fatta dell'essenza dell'essere madre avrebbe potuto e saputo muoversi con tanta materna perfezione.
Una vita condotta non insieme ma accanto, non diga per arginare le naturali tendenze che solo una vita in via di sviluppo può rendere esondanti, ma letto per accogliere il fiume che fu Puse con la sua corrente impetuosa, con la sua portata, con le sue anse improvvise e le sue cascate.
Non si offenderà Manuela, non se ne avrà a male Puse né verrà a trovarmi in sogno per chiedermi conto del perché le abbia dato solo un Distinto se a sua madre ho dato Ottimo, quando la vita con la quale Vinka si è meritata quel punto in più è proprio quella di Puse che allora, come minimo e se il mondo fosse giusto, avrebbe dovuto prendere Ottimo anche lei, ma per quanto mi riguarda la protagonista di quel diario non è Puse ma è sua madre e lo è in maniera inversamente proporzionale alla sua volontà di esserlo.
Che persona preziosa, come avrebbe mai potuto generare meno di una meraviglia?
Mi dispiace Vinka, comprendo il tentativo e dovrebbero fare un monumento alla bellezza della volontà, ma non una sola virgola riesce a non raccontare prima di tutto e sopra ogni episodio la grandezza della madre che sei stata.
La madre contenuta nella vita della figlia, la madre contenitore di quella vita, è tutte le madri, se esistesse un modo perfetto per essere madre quel modo si chiamerebbe Vinka, quanto dev'esser facile essere Puse quando il destino ci ha resi prima di tutto e all'origine di ogni nostro lato dell'anima figli di Vinka, la matrioska Vinka che fa da involucro a Puse anche dopo essersene prematuramente separata, una separazione che farà da traccia e filo conduttore di un'intera vita di continue e reiterate separazioni quasi a voler ricreare quella prima e originale come fosse il palco unico sul quale mamma e figlia possono davvero essere una cosa sola pur senza più esserlo, una placenta possono essere dei cuscini di piume, una voce che non si alza per non deviare il corso naturale del fiume, un cappello riparato, un paltò confezionato in tinta con le ghette, un cane tanto desiderato, una madre che prosegue per sempre la sua creazione eternamente incompiuta, il suo perenne prematuro trenta con il trentuno sempre a un passo ogni volta un metro più in là per il destino, l'ingiustizia, la storia, se Puse avesse saputo che quei due mesi d'anticipo sarebbero stati allegoria della sua intera esistenza, la sua perenne rincorsa dell'ultimo metro verso il giusto, l'esatto, il razionale, sarebbe ugualmente uscita al mondo incompiuta?
Sì, al limite ne avrebbe poi discusso il senso ma indubbiamente sì.

A fare da involucro a Vinka che fa da involucro a Puse c'è la storia del '900 Yugoslavo, meno di un protagonista, più di un semplice contesto storico.
Non solo un Dove e un Quando, come ogni cosa di Puse è un metro in più di ciò che la norma stabilisce e allora è anche, soprattutto, un Perché.
Se Puse è stata Puse è perché quel giorno accadeva un evento che Puse avrebbe potuto vivere nell'unico modo in cui andava vissuto e cioè il suo, se solo il mondo fosse stato a sua immagine quanto sarebbe stata diversa la storia.
Di fascismo si è letto, detto e scritto tutto e il contrario di tutto, tutto tranne il fascismo come l'ha vissuto Puse, un modo che quando lo leggi con gli occhi e i racconti di Vinka che racconta di Puse senti di averlo letto nella sua vera e unica storia, una storia di uomini e poco altro, poca retorica e tanto umano, nel misero sminuito senso che il termine Umano assume quando associato al termine Fascismo.
Il fascismo, ci hanno insegnato, è stato spezzarsi ma non piegarsi, a meno di non essere il fascismo che incontrava Puse sbarcata da una nave presa apposta per andare a piegarlo alla logica, al buonsenso, riuscendoci, chi altri se non lei, capace di piegare ai suoi involontari voleri, quei voleri dai quali riusciva a farsi seguire e precedere nello stesso momento, malattie, equipaggi di navi, posti di blocco, professori così intransigenti che tra lo sminuire lei e sminuire se stessi scelgono di uscire a fumare, se vi hanno detto che il fascismo furono uomini che mai si piegarono sappiate che vi hanno mentito: Puse piegò il mondo a sè e se il destino la poggiò nel mondo insieme al fascismo Puse piegò quello, non fu questione personale, fu contemporaneità storica, fosse stata l'inquisizione avrebbe piegato l'inquisitore portandolo a uomo prima di tutto e a quel punto l'inquisitore non è più nulla, fossero stati i dinosauri avrebbe piegato i dinosauri, Puse semplicemente era fiume e il mondo il suo letto, se non c'è ci pensa il fiume stesso a scavarlo.

Come tutte le donne (e gli uomini) nati all'inizio del secolo scorso, Puse dovette imparare il duello tra l'istinto alla vita e la guerra, guerra nella guerra, natura contro irrazionalità, amore contro bombe, figli contro fame, Puse dà alla luce Tea, che darà alla luce Manuela, quarta generazione attraversata da quel diario che Manuela e Nico hanno deciso di riappoggiare sul fiume del tempo perché riprendesse il suo cammino.
Non nasconde il suo ruolo Manuela, né quello tecnicamente editoriale né quello che il destino decide di assegnarle un giorno di appuntamenti mancati e sigarette mai accese.
La famiglia si unisce, ciascuno con le proprie capacità, fino al punto da studiare il croato pur di tradurre quel diario e così regalargli una non prevista nuova vita italiana.
Rinascere italiani dopo il fascismo per uno yugoslavo è cosa che richiede carattere, riuscire a farlo due volte inserendoci una morte in mezzo, è essere Puse.
Puse è la storia matrice di tutte le storie, la dimostrazione di ciò che è sempre stata una mia convinzione: ciascuno di noi è un romanzo al quale manca solo uno scrittore che gli dia forma.
Tutti quelli della mia generazione hanno avuto accanto la propria Puse, i più fortunati, io tra questi, ancora possono guardarla, ascoltarla e imparare come si vince la guerra delle guerre.
In ogni casa c'è una Vinka, anche se non tutte le Vinka hanno in sé la medesima perfetta sintesi del concetto di madre del quale era dotata Vinka Šperac Bulić.
Ed è questa l'ultima matrioska che contiene tutte le precedenti: la storia di chiunque di noi se solo fossimo capaci di essere Manuela e di incontrare, riconoscere e sigillarsi per sempre al nostro Nico, girarci indietro verso la nostra Tea, che girandosi indietro incontra Puse, che girandosi indietro incontra Vinka.
Quale di questi gradini saprebbe dirsi capace di essere ciò che è o è stato, senza i precedenti a trattenerlo e liberarlo, contenitori e contenuti, madri di madri di madri, matrioske.

Fuori da quella linea solo Nico, il cui valore deve davvero essere pari alla delicatezza con la quale avrà messo piede straniero in una storia così tanto e nello stesso momento così poco sua, una storia che ha saputo dirgli tutto ciò che gli andava detto mettendo semplicemente, silenziosamente, il suo nome in testa alla dedica.
Piccole virgole che sono tappeti rossi, sono Da qui in poi, sono braccia strette al cuore di un grazie per tutto quanto fino lì.
A lui il compito di romanzare e che compito, non c'era altro da aggiungere a quella storia se non la propria impronta italiana al cui estro viene concesso il privilegio di dare qualcosa a una storia che non aveva bisogno di nulla per dirsi romanzo.
Non una pagina senza chiedersi se sia stata davvero così tanto, il sogno di poterlo e saperlo leggere in originale, quale dono per chi ha potuto, a ogni pagina chiedersi se sia il diario così ricolorato ad aver reso Puse così adatta a essere il personaggio di un romanzo, o se sia Puse col suo esser stata un perfetto personaggio da romanzo ad aver reso così facile cucirle addosso un romanzo con la stessa precisione e lo stesso amore con cui Vinka le cuciva addosso vestiti per feste sempre più grandi di lei.
Sapendolo, perché i ruoli di ciascuno vengono dichiarati fin dall'inizio, leggi l'incredibile diario giocando a indovinare quali pennellate siano di Puse, quali di Vinka e quali di Nico, intruso non intruso, straniero con cittadinanza, un ruolo così nuovo e perfetto che alla fine trovi tutto talmente preciso che l'unica cosa che realizzi è che in quell'incredibile storia gli unici due uomini che compaiono con ruoli attivi e responsabili delle direzioni al bivio, sono italiani.
Brava gente.
E giochi a chiederti se il tranello della scopa e dei gradini è davvero avvenuto così o se è in quelle vette di fantasia che puoi leggere l'italiano che ha avuto l'onere e l'onore di colorare quella tela.
Ti chiedi se il professore sia davvero uscito a fumare o se è quello che Nico avrebbe fatto al posto suo, dichiarandolo mettendo anche un po' di se stesso e non solo della sua abilità formale in quella che vista da qui ha davvero i contorni nettissimi dell'occasione della vita per dire un giorno ai propri nipotini ma soprattutto oggi a se stesso di aver fatto parte di qualcosa di magico.
Non la storia di Puse, non il diario, non il libro ma la matrioska, la semplice vita di ciascuno di noi che se solo volessimo, se solo fossimo capaci, conterrebbe quella di tutti quelli che abbiamo intorno e da quella di tutti quelli che abbiamo intorno sarebbe contenuta.

Chiedetele di mandarvene una copia.
Non perché sia un libro migliore di altri o una storia più intensa di altre, ma proprio per il suo non esserlo, perché quello che hanno fatto Tea Manuela e Nico non è raccontare una storia unica ma dare un senso a tutte le storie contenendole in una storia unica iniziata e mai finita, da Vinka che ha scritto la prima riga a Manuela che ha scritto l'ultima.
Per il momento, naturalmente.
Perché questa traduzione non è un modo per diffondere il diario, questa traduzione ne è solo il nuovo capitolo che si svolge in Italia, in Puglia, nel 2014, è sempre Puse, solo che invece di esserlo girandosi indietro, in questo nuovo capitolo lo è guardando avanti.
E da Zara guadando avanti si vede l'Italia, passasse anche un secolo di viaggio Zara guardando avanti vedrà sempre l'Italia e l'Italia guardando avanti vedrà sempre Zara.
È la natura che ha deciso così.



19 ottobre 2014

Capita soprattutto ai migliori

Come vuoi che sia andata, è andata così:



Ché poi un giorno parleremo anche di questa cosa che ha a che fare con il perfezionismo, con l'assoluto, con l'intransigenza, con la professionalità.
Questo fatto che io e l'altro responsabile siamo usciti dalla regia con il nervoso a mille, i nervi a fior di pelle, l'incazzatura di rara tensione per un lavoro che stava uscendo perfetto e negli ultimi dieci minuti ha svoltato nella tragedia per un incidente in diretta che in un istante ha invertito il mondo catapultandoci di colpo al confine con la perdita del cliente, lo stesso cliente che per tutte le due ore successive nelle quali noi eravamo in macchina verso casa inventando tra noi le più sincere scuse che avremmo dovuto tirar fuori da lunedì in poi per discolparci e giustificarci, ci manda sms a catena sull'onda dell'entusiasmo di risposta ricevuto dagli ospiti durante il pranzo successivo e allora una catena di "Il miglior evento della nostra storia" e "Vi riportiamo i grazie di tutti quelli in sala per un evento al quale non avevano mai assistito" e noi in macchina sempre più increduli, sempre più zitti, sempre più convinti che tra noi e quelli che guardano ciò che facciamo esista una distanza di aspettative con la quale prima o poi dovremo fare i conti e della quale soprattutto dovremo prendere coscienza anche quando noi stessi siamo convinti di aver fatto un buon lavoro.
Perché o il cliente si aspetta meno di quanto noi chiediamo a noi stessi anche quando noi crediamo di aver fatto un buon lavoro, oppure l'approfittare di quella distanza per scrollarsi di dosso la consapevolezza di aver fatto un disastro ci porterà in un lampo oltre il confine dell'accontentarsi, anche noi, che una vita così delirante non la sapremo mai più fare il giorno che smetteremo di entusiasmarci solo quando noi, non loro, ci diciamo bravi, ci diciamo capaci, ci stringiamo tra noi la mano e ci diciamo grazie.
Sono stato anche bravino questa volta, non semplice, regia in doppia lingua perché fonico e fonico di palco erano francesi e che casino un lavoro fatto di duecento comandi al minuto da splittare separando quelli per l'audio per dedicare loro apposito spazio per il mio inglese arraffazzonato che i miei altri tecnici italiani nemmeno parlano e riuscire a farlo arrivando sempre all'istante giusto, si parla di secondi, con il comando giusto per il tecnico giusto, quasi un lavoro da traduttore simultaneo, splittare il cervello per fare una regia su doppio binario tenendoli sempre coincidenti temporalmente al minuto, ne esci stremato come gli interpreti che proprio per la fatica che fa la mente a operare quel processo lì non lavorano mai più di venti minuti consecutivi e poi si danno il cambio mentre tu lo devi fare per cinque ore continue senza pausa e che fatica accidenti, che fatica.
Sono stato anche bravino ma non bravo, questa volta le lacune che solitamente riesco a dissimulare si sono fatte più evidenti e non saranno gli abbracci e i baci e i grazie entusiasti del cliente alla fine, i soliti abbracci e baci e grazie di ogni fine lavoro, a cancellare la netta consapevolezza che questa volta no, questa volta non l'abbiamo fatto un buon lavoro proprio per niente.
Che sia piaciuto a loro non significa che sia stato un lavoro fatto come siamo capaci di farlo, ma solo che l'asticella minima dei clienti per i quali lavoriamo e la nostra sono parecchio distanti tra loro e noi lo sappiamo, non sappiamo prenderci in giro, che questa volta quella distanza ha salvato il nostro prossimo lavoro ma non il nostro senso di colpa e la nostra consapevolezza di non essere stati all'altezza, alla nostra altezza.
Essere professionisti non significa essere esenti da errori, siamo umani come tutti e come tutti siamo soggetti al caso, al venerdì diciassette, alle dinamiche di gruppi sempre nuovi ogni volta e quindi sempre soggetti agli incidenti da non confidenza e non coincidenza di tempi, di modi, di procedure.
C'è una quota errore umano che è inclusa e concessa anche a noi come a tutti, l'operazione è tecnicamente riuscita ma il paziente è morto, l'aereo era a posto e il pilota più che esperto ma il fulmine ha colpito proprio l'ala, ma quella quota non comprende l'evitabile ed essere professionisti significa poter sbagliare ma non là dove si è in grado di non farlo e le condizioni permettono di non farlo.
Questa volta io ho commesso errori che ero in grado di evitare e che le condizioni mi permettevano di evitare ma che ugualmente ho commesso perché ho voluto tirare troppo la corda, ho voluto spingermi al tempo estremo, ho voluto utilizzare ogni secondo prima della messa in onda per un lavoro che avrei potuto fare meno elaborato e quindi meno lungo da fare utilizzando il tempo rimanente per riverificarlo, pur sapendo a quale rischio mi esponevo scegliendo di farlo elaborato al punto che non avrei avuto tempo di controllarlo perché l'avrei concluso un istante prima della proiezione.
Mi esponevo al rischio dell'errore non verificato e quindi possibile e quello ho commesso.
Essere professionisti non significa non sbagliare, significa essere consapevoli di poter sbagliare come tutti e quindi valutare il tempo a disposizione sapendo che una parte deve sempre essere dedicata al controllo di quanto fatto perché noi andiamo in diretta e una volta sugli schermi non c'è modo di riparare il danno.
Quando si ha troppa fiducia in se stessi si finisce col dimenticarsi che anche noi sbagliamo e così a dimenticarsi di quanto importante sia il tempo della verifica, del controllo, che si finisce col considerare superfluo.
Avevo a disposizione tempo 10 e invece che assegnare tempo 8 al lavoro e 2 alla verifica, per fare un lavoro più bello ho rischiato dedicandogli tutto il 10 che avevo fino al secondo prima della messa in onda.
E il mio errore è andato in onda.
E a nulla valgono i grazie del cliente che di quella virgola se ne frega, a nulla vale la pacca sulla spalla dei colleghi che di errori ne commettono più di me, vale solo che l'unico che in sala se n'è accorto e ha chiesto conto all'agenzia di quanto apparso si è sentito rispondere che non c'è stato nessun errore perché Bruno di errori come quello non ne commette e quella risposta è partita senza prima chiedermi di verificare se effettivamente l'avessi commesso.
Chi mi paga ha fiducia in me più di quanta ne abbia io stesso e questo è uno scollinamento che non deve mai accadere perché uno dei due che mantenga alto il cancello dell'errore dietro l'angolo deve sempre esserci, a turno si deve poter rischiare sapendo di avere intorno persone che ti imporranno la consapevolezza della fallibilità e quindi della verifica, se si salta tutti dalla scogliera non ci sarà nessuno a riva a tirarti la cima quando sbagli il tuffo e a quel punto diventa davvero solo questione di caso, unica variabile alla quale affidarsi, unico confine tra gli azzardati e i professionisti.
Ho sbagliato, sono andati tutti a festeggiare, io sono uscito da solo, sono andato al porto e mi sono regalato una lunga riflessione sul vetro di un bicchiere di birra solitario e consapevole.
Quello che là sopra, probabilmente abituato e condizionato dalla mia solita baldanza, hai scambiato per la foto di un brindisi è in realtà il riflesso di una colpa.
Io quell'errore potevo non commetterlo e non è morto nessuno, la felicità intorno ne è uscita intonsa, la gioia collettiva è esplosa come ogni altra volta, ma se io quell'errore ero in grado di evitarlo quell'errore diventa l'unica cosa con la quale io torno a casa, perché il mio primo cliente sono io, il mio primo giudice sono io e se voglio sapermi obiettivo quando mi dico bravo, devo non smettere mai di esserlo anche quando c'è da non darsela affatto quella pacca sulla spalla solo perché tutti intorno te la danno.

La realtà è che sono un caterpillar e tengo ritmi che nemmeno un esercito di sherpa, non cedo, non mi lamento, non mollo, tiro dritto qualunque cosa accada e qualsiasi sia la strada da fare per arrivare e proprio per questo quando mi dico stanco è perché il limite è stato davvero raggiunto e quando quel limite viene raggiunto si sbaglia dove mai si sarebbe sbagliato, quell'esatto punto in cui si smette di essere professionisti e quando si smette di essere professionisti si smette di essere bravi come lo sono io e nessun altro in Italia.
Nessun altro in Italia.
Io sono l'unico in Italia che fa ciò che faccio io come lo faccio io e non è un'iperbole, non sto in giro trecentosessantacinque giorni l'anno perché mi piace fare cose vedere gente fare tanti chilometri e dormire in un letto diverso ogni notte, ma perché quando serve uno come me posso andare solo io perché uno come me nel mio settore non esiste, sono l'unico in Italia nel vero senso della parola, posso dirlo in senso oggettivo, è una responsabilità enorme ed è una corona enorme e anche per questo uno sbaglio che fatto da altri è piccolo se fatto da me diventa uno sbaglio enorme, perché non sarei l'unico in Italia se non fossi uno che quando commette un piccolo errore la gente intorno non ci crede al punto che garantisce sul mio non averlo commesso senza nemmeno chiedermelo prima, io nella percezione comune non faccio nemmeno quelli piccoli e quindi quando faccio quelli piccoli diventano enormi, si chiama responsabilità della riuscita del lavoro di tutti, c'è chi ci rischia il mutuo sui miei errori, non è perfezionismo, è che proprio io giro sulle dita la vita delle persone che da me vedono dipendere il prossimo lavoro.
Ma sono l'unico in Italia ancora per poco perché una cosa così è un traguardo sul quale chiunque metterebbe la firma aggiungendo zeri ai preventivi e altrettanti ai consuntivi sui quali nessuno fiata mentre per me è un'assurda gabbia perché è vero che se chiedo la luna ormai c'è chi me la porta, ma è anche vero che il prezzo è che io non posso più dire di no a nessuno di quelli che si rivolgono a me perché se arrivano a me è perché hanno un bisogno che sono l'unico in Italia a poter risolvere e quindi questa cosa, ormai raggiunta bravo clap clap, può andare a far parte di quelle fatte e chiuse, ora si cambia si riportano indietro gli zeri sui consuntivi a una cifra che non avrò più vergogna di raccontare a persone alle quali voglio bene e che la schiena se la spezzano davvero per non prendere in un mese quanto io prendo in un giorno e si torna là dove non sono l'unico in Italia e ci penso io, così come sono stato capace di diventarlo sono capace di smettere di esserlo, ma di questo racconterò quando rientrato dalle vacanze darò il via alla fase due della mia vita professionale con una cosa che dire grande è dire poco per ottenere la quale, pensa l'importanza, ciò che ho messo sul piatto io è il mio guadagnare un terzo di quanto guadagni oggi che posso guadagnare davvero quello che voglio.
Qualcuno direbbe un matto, io dico uno al quale dei soldi non è mai fregato nulla e per questo non li ha mai fatti e ha distribuito in giro tutti quelli che gli son passati tra le mani, io voglio solo stare bene e che quelli intorno a me stiano bene, solo che non parlo in senso economico e quindi dei soldi me ne faccio oggettivamente ben poco in assenza di tutto il resto che non si può comprare, come per esempio la libertà di dire no o anche, semplicemente, di essere accanto a chi amo quando ne ha bisogno.
A me oggi manca quella e quella ora vado a riprendermi.
Ho raggiunto una tale libertà di decidere che non ho più la possibilità di farlo, che accidenti di paradosso.
E se pensi che sia uno che crede molto in me, non hai conosciuto quelli con i quali lavoro e che si sono detti disposti a, pur di rubare a tutti gli altri il mio essere l'unico in Italia.
Quando mi han detto cosa hanno bloccato in attesa di conoscere la mia decisione non ci credevo nemmeno io.
Così tanto non ci credevo nemmeno io ed è tutto dire, che cosa enorme per il mio cuoricino stanco.
E' davvero servito ogni singolo giorno di tutti questi assurdi e incredibili venti anni, comprese le cadute, le lotte e le scelte pagate, tutte a caro prezzo, una per una, sempre da solo e sempre rialzandomi e ripartendo.
Ma dio se sto raccogliendo oggi e quanto è lunga la fila di quelli ai quali lo potrei sbattere in faccia.
Uno, è lunga uno e non servirà nemmeno sbatteglielo in faccia, il non aver bisogno di farlo sarà l'ultima vittoria finale perché quel non bisogno è un non bisogno intimo, non tecnico, è un essere risolto, un non aver più la necessità di dimostrare nulla a nessuno e questa è la più grande linea che si possa raggiungere nella vita intima e personale, il momento in cui che gli altri sappiano dove sei arrivato è marginale e ininfluente, lo so io e tanto basta per sapere che la fatica è valsa, che avevo ragione io, che ho fatto bene a non smettere mai di crederci nemmeno quando è stato proprio fango e merda senza identificabili uscite a portata di mano, magari lontane ma visibili e invece non c'erano nemmeno quelle e in quel momento tocchi lo smarrimento vero, la disperazione vera e io lo stesso a non smettere di credere che l'avrei trovata un giorno e quanta vita c'è dentro il "Lo sapevo" dell'istante in cui la trovi o la costruisci ma in ogni caso e contro ogni aspettativa, soprattutto contro ogni aspettativa e previsione di quelli intorno eccitati dal loro percepirti finito perché tale appari, ne esci a testa alta, distrutta da anni di somatizzanti stabili malditesta ma alta e vaffanculo, per abbattere me mi devi proprio sparare, meno di quello vinco io qualsiasi guerra.


Adesso mi fermo e me ne vado là dove tutti hanno bisogno di andare una volta all'anno e io invece me le salto a cicli di ogni tre, là dove l'unico impegno sarà decidere cosa leggere dedicandomi finalmente a tutti i libri che le persone splendide che siete mi hanno regalato e che stanno lì ad attendere quella volta ogni due anni che ho più di due ore consecutive spensierate, decidere cosa bere tra una birra ghiacciata e l'altra, su quale culo fare le fantasie delle ore successive come unica attività neuronale, dove andare a mangiare il pesce più buono dell'isola per stasera, e poi per domani sera, e poi per la sera dopo e per tutte le quattordici che passerò lontano da quest'Italia nella quale sono unico.
Non mi pare vero che stia per andare davvero in vacanza.
Poi torno e cambio per l'ennesima volta vita, questa possiamo dirla giunta al traguardo massimo raggiungibile e sedersi non è cosa per quelli come me che sono unici.

Potevi essere al mio fianco anche nella prossima, potevi far parte di una vita meravigliosa che chiede solo di essere condivisa perché tutto questo nella mia sola non ci sta, hai preferito altro, tecnicamente si dice in bocca al lupo, ci vedremo quando avremo settant'anni, quando non avrai altro da dirmi che "Ho sbagliato" incartato in un rimpianto del quale io mi sarò liberato decenni prima e io non avrò altro da rispondere che "Capita anche ai migliori, pensa che una volta ho sbagliato persino io. Perdònati, io l'ho fatto".


13 ottobre 2014

Faccio un salto e domani ne faccio un altro

Il vantaggio di essere sempre in viaggio è che le distanze spazio/temporali diventano relative, nel senso che si azzerano, nel senso che mi chiamano e mi dicono che c'è da Fare un salto a verificare l'allestimento delle proiezioni per l'evento del quale domani andrò a fare la regia a Montecarlo, ruolo che mi inserisce nella lista di quelli che quel salto dovranno farlo, in una posizione così prioritaria che la data del salto viene stabilita in base al mio calendario lavori in corso.
Farò la regia del resto, se non lo verifico anch'io l'allestimento chi lo deve fare?
Dico giovedì, si organizza per giovedì, andiamo a fare il salto giovedì e venerdì si rientra.
Sul pianeta sul quale abito io nel quale le distanze spazio/temporali si annullano, Fare un salto a verificare le proiezioni significa salire su un treno e farsi sette ore di viaggio per andare a Pescara nella sede degli allestitori tecnici, roba che l'80% di quelli che conosco per fare la metà delle ore di viaggio si organizza con un mese d'anticipo e le fa solo se è per poi fermarsi dieci giorni in vacanza.
Noi saliamo sul treno, ci facciamo quelle sette ore, verifichiamo l'allestimento, ci svegliamo la mattina dopo, risaliamo su un treno e torniamo a casa.
L'ultima volta che ho fatto quel viaggio in treno su quella tratta attraverso le stazioni di San Benedetto, Cupra, Porto San Giorgio, Ascoli, no vabbé niente.
Dicevo che lo spazio è relativo e il tempo è relativo, quattordici ore di viaggio in trenta di Salto e non sentirle, si direbbe per altissima professionalità.
Col cavolo.
Si va per mangiare.
Allora voi adesso immaginatevi un allestimento temporaneo di una proiezione di una ventina di metri di base che viene montata solo perché noi la possiamo verificare e rismontata la mattina dopo per esser caricata sui bilici e spedita a Montecarlo dove domani verrà rimontata nel posto dove si terrà l'evento, serve uno spazio aperto tipo il cortile degli allestitori che ci accolgono e quando dico ci aggolgono intendo dire che non preparano solo l'allestimento, ma nell'allestire si curano di allestire anche una sagra di prodotti locali per accogliere i forestieri conosciuti per essere gente che si muove soprattutto per mangiare e poi, tra un pasto e l'altro, per lavorare.
Ché noi sette ore per dire "Ok funziona" e poi tornare a casa ce le facciamo anche, ma questo anche perché sappiamo che lavorare ok, ma lavorare con una griglia di proiezione è un conto, lavorare con due griglie, una di proiezione e una di arrosticini è altro discorso.
Quando poi conoscendo la nostra capacità fagocitante gli arrosticini comprati sono in numero duecentocinquanta, le sette ore di treno diventano un lampo, diciamo un salto.
Agevolo documentazione fotografica numero 1 ritraente allestimento serata a tema Salto per verifica:



Allora diciamo che la serata si svolge nel migliore dei modi e dei tempi e dei gusti, del vino non ne parliamo perché come lo descrivi un vino tanto buono?
Le fai eccome sette ore per andare a farti una grigliata di duecentocinquanta arrosticini a Pescara bagnati con un rosé ghiacciato e rientrare a casa la mattina dopo.
A meno che tu non sia me che Tu non mi basti mai e allora quando leggi la mail con il treno di rientro e ci leggi sopra come orario le 12.15, rispondi subito alla mail con un lapidario "A cavallo del pranzo? Sul mare?"
Non che non sapessi con chi stavo parlando e che quindi bastasse solo che uno di noi alzasse la palla perché uno qualsiasi degli altri tre la schiacciasse.
Si cambia l'orario del treno, lo si sposta alle 16, che cavolo lì è estate, trattoria sul mare sia, per tornare a casa c'è sempre tempo, prima il pesce e il profumo di salsedine, ci sono delle priorità nella vita e il lavoro è ovviamente una di queste.
Agevolo documentazione fotografica numero 2 ritraente momento di duro lavoro di briefing tra direttore di produzione e Project Manager:


Il treno incombe, il nord ci reclama, non ordiniamo alla carta ma a tempo, abbiamo un'ora, fate voi, la cosa più veloce che riusciate a fare e poi fuggiamo in stazione.
Agevolo documentazione fotografica numero 3 della cosa più veloce che riescono a fare:



Poi treno, sette ore, si rientra a casa dalla giornata di duro lavoro.
Relativamente parlando.

Ok ok, non avevo niente di romantico da scrivere né ho tempo per lunghe e noiose analisi socio-politiche, al momento oltretutto rese complesse dal fatto che non ho più tempo per seguire cosa stia succedendo a palazzo e quindi potremmo essere a Frittole nel quasi milleecccinque e per me politicamente sarebbe uguale, quindi non state a fare i puntigliosi, anch'io ho il diritto di essere banale e di nessuna qualità formale né sostanziale ogni tanto, beccatevi la sterile cronaca di una delle tante dure giornate di lavoro di evidente scarso interesse per il mondo ma di altrettanto evidente interesse per chi si chiedesse quando sparisco dove diavolo vada, che cavolo di vita faccia, che accidenti di posti attraversi.
Faccio questa vita qui.
E' un lavoro duro, durissimo, ma qualcuno deve pur farlo perché voi possiate ballare e ridere e 'mbriacarvi davanti agli schermi senza mai chiedervi quanto accidenti di lavoro e di ore e di fatica e di arrosticini e di persone splendide, come quelle che ci hanno regalato questo paradiso del gusto e ai quali non finirò mai di dire grazie anche per una serie di altri fattarelli dei quali parlerò al ritorno, ci siano dietro.
Ci siamo noi dietro, con le nostre ore relative, le nostre vite a chilometro zero nel senso che possono essere dieci o mille li facciamo in un batter d'occhi come fossero sempre zero, noi che sacrifichiamo intere vite personali rese impossibili da questa vita a tempo triplicato e geolocalizzazione random e prezzi altissimi in termini di fatica e di due ore di sonno a notte per mesi, per anni, ma che suono che ha "Benvenuti questo è il vino questo è salame questo è formaggio e questi sono duecentocinquanta arrosticini", dove andiamo a mangiare oggi, andiamo a mangiare a Pescara, ma siamo a Torino, fa niente a Pescara c'è un posticino sul mare che è una bomboniera, domani dove andremo, domani andremo a Montecarlo a strafogarci di tartare...a lavorare duramente.
Voi volete godere dello spettacolo, noi anche, fine, stop, non si discute, o entrambi o nessuno dei due.

E vieni con me anche davvero cazzo, finiscila con 'sta pantomima della vita che non può diventare magica domani stesso, il mondo là fuori è faticoso per tutti ma può anche essere saporito oltre che faticoso, fidati di me che so come si fa e nemmeno prendo in giro dicendo che no, faticoso non lo sarebbe.
Lo sarebbe, in un modo o nell'altro lo è sempre, ma la differenza è che io so come condirlo con il meglio che si può prendere.
Guarda davvero non sono molte le cose che mi riescono così perfette, anzi diciamo solo una, ma di sicuro dopo vent'anni che faccio 'sta vita posso garantire che rendere gustosa, davvero gustosa, una vita di fatica, davvero di fatica, è una di quelle, anzi diciamo l'unica, sulle quali potrebbero darmi una cattedra all'università.
Ti do centodieci, giuro, la lode e naturalmente pure il bacio accademico.
E che bacio.
Accademico nel senso di perfetto.
Vabbè, io intanto inizio ad andare, 'sti altri quattrocento chilometri e non sentirli, pensa con quanta facilità mi catapulterei da te ogni volta che mi dicessi Mi manchi.
Faccio sette ore di treno solo grazie all'immagine di una pasta con le vongole in riva al mare come meta, hai idea di cosa farei se quell'immagine fossero le tue braccia?
No, 'spe, non volevo dire che tu stai sul piano dove stanno le vongole, cioè intendevo dire che, cioè quel fatto là dei piaceri, cioè del non temere distanza di tempo e di spazio, la annullo per le vongole figurati per te, no 'spe di nuovo, cioè tu di più, anche le vongole e gli arrosticini però eh.
A piedi ci verrei, stupida.