Una delle fortune che la mia generazione ha è quella di essere a cavallo di due periodi storici che in termini di quantità (e intensità) di evoluzioni sociali e politiche prodotte sono distanti anni luce.
Noi quarantenni abbiamo un’età che ci rende capaci di analisi approfondite sul nostro periodo contemporaneo, poggiate sul risultato che solo anni di letture e di confronti documentati possono dare come fondamenta, e contemporaneamente abbiamo ancora a disposizione chi ha vissuto in prima persona il periodo precedente dal quale ascoltare le testimonianze dirette di ciò che la prossima generazione di quarantenni potrà solo leggere sui libri.
È inebriante, perché questa doppia disponibilità di fonti permette di prendere le proprie analisi sulla storia contemporanea e incrociarle con le testimonianze dirette del periodo precedente che questa storia contemporanea l’hanno generata.
Io non so se tutti i miei coetanei si rendono conto di quale fortuna sia, ma soprattutto mi spiace che la prossima generazione potrà contare solo su di noi quarantenni di oggi, per farsi raccontare un periodo attuale che di interessante non ha poi così tanto se messo a confronto con i decenni ‘50/’80.
Quando un dodicenne di oggi tra una ventina d’anni chiederà a me sessantenne di raccontargli come si è arrivati alla realtà del 2035, io avrò da raccontargli al massimo di un tizio con i capelli d’asfalto che aveva candidato una con due tette da paura, di un comico che si era inventato un esperimento sociale che un giorno gli sfuggì di mano, di riunioni segrete che faccio con i miei clienti nelle quali vengo messo al corrente di cose che pur detonanti non sposterebbero un capello se rese pubbliche.
Io al contrario oggi ho a disposizione in presa diretta una famiglia che ha attraversato una storia incredibile che ha davvero rivoluzionato, anzi costruito, il paese di oggi e alla quale posso chiedere di raccontarmi, di dirmi di più, di togliermi dubbi, di riempirmi caselle altrimenti impossibili da riempire.
Stasera per il compleanno ho ricevuto diverse belle cose, tutti pensieri semplici ma per la prima volta dopo tanto tempo davvero ma davvero pensati guardandomi dentro.
Ciascuno ha pensato a me prima di scegliere il regalo e per questo ciascuno mi ha davvero regalato qualcosa che parla non tanto di me quanto di quello che vorrebbero io avessi.
Una bottiglia di vino con due bicchieri è un regalo bellissimo perché è un augurio bellissimo, tre foto con la scritta sotto “Famiglia” sono la cosa più vicina all’idea di famiglia che i tre ritratti in quelle foto oggi possono trasmettermi, la biancheria intima più semplice è il pensiero pulito più semplice e su questo poi ci scriveremo una filippica dedicata perché dietro una maglietta bianca c’è un mondo che pochi possono racchiuderci dentro.
In mezzo a quei regali me n’è arrivato uno che nessuno aveva incartato perché nessuno pensa che per me sia tale.
Quel regalo è un racconto.
Una delle fortune che la mia generazione ha, dicevo, è quella di avere accanto persone che la storia l’hanno fatta davvero e una di queste persone stasera era a tavola con noi.
Mia nonna e i suoi fratelli sono tutti passati da quelle che in quegli anni erano le principali aziende, come quasi tutti i calabresi di quella generazione diventati torinesi negli anni della grande migrazione.
La fortuna che io posso vantare è che quasi tutti loro hanno fatto percorsi storici importanti.
Allora stasera il regalo involontario è stato Zio Peppe e il suo racconto.
Uno di quelli che quella marcia l’hanno organizzata, non di quelli che ci si sono solo accodati.
Ora io a un quindicenne di oggi non saprei come spiegare che fortuna sia avere a tavola uno di quelli che negli anni di piombo era un quadro Fiat, uno di quelli che in quei mesi a casa la sera ci tornava scortato dai carabinieri, uno di quelli che in una stanza e poi in un teatro e poi in una città decise che era giunto il momento di cambiare il corso della storia.
Se glielo spiegassi probabilmente alzerebbe le spalle pensando che anche lui sul blog ha fatto la citazione del partigiano che combatteva il fascio, penserebbe che anche lui ha il nonno che si è salvato dalla prigionia.
Non capirebbe la differenza tra l’aver davanti un partigiano o uno degli enne milioni di italiani e italiane che in diversa maniera realizzarono la Resistenza, un sessantottino, uno degli enne mila che hanno occupato le università, e l’aver davanti uno di quelli che hanno deciso la marcia dei quarantamila.
La differenza sta nel fatto che un partigiano è un elemento di una lotta collettiva così spersonalizzata che la condivisione degli obiettivi non era un presupposto necessario e quindi comune a chi si trovò a combatterla, tra i partigiani ci furono anche quelli che semplicemente compresero con sufficiente anticipo che quella sarebbe stata la parte che avrebbe vinto; uno degli organizzatori della marcia dei quarantamila è una persona che ha cambiato davvero personalmente il corso della storia, in una maniera così individuale che, raccontava, persino loro furono increduli di fronte alla dimensione del sostegno che la città offrì loro lungo quella strada che nei loro programmi erano pronti a percorrere in un numero venti volte inferiore a quello di coloro che si apprestavano ad affrontare.
"Non eravamo quarantamila" ha detto "eravamo quattromila, il resto fu la città che ci rese dieci mila, poi venti mila, poi quaranta mila".
Ma cos'è un racconto così, se non un regalo.
E allora per mezz’ora è stato tutto un suo raccontare e un mio chiedere, dettagli, conferme, stupore, incredulità.
Perché fu fatta quella marcia, chi erano i veri destinatari del messaggio (io lo sapevo, ma era solo deduzione frutto di letture e riflessioni successive, sentirselo confermare in prima persona è una cosa enorme), il ruolo del sindacato in quegli anni, Berlinguer in quei giorni, il vero Berlinguer, cosa succedeva nei locali delle catene di montaggio, come si agiva su persone e macchinari, chi gestiva davvero i picchetti ai cancelli, ma soprattutto il vero cuore di quella questione, il nome che io aspettavo venisse fuori perché unica conferma che aspettavo in mezzo a notizie al contrario per me nuove e sul quale non a caso appena uscito ho fermato la divagazione per concentrarsi su quello: le Brigate Rosse.
Un fiume.
Chi erano, quanti (esattamente) erano, dove stavano, chi li copriva, come si muovevano dall’interno del sistema per ottenere i loro risultati sull’esterno, perché erano coperti, la questione RSU, chi erano quelli che le gestivano, come funzionavano gli scioperi e chi in realtà li gestiva e controllava, perché si decise di togliere quella copertura, il giorno esatto in cui si decise che quella copertura dovesse cessare, come avvennero esattamente gli arresti e non in senso politico ma tecnico, in termini di procedure di polizia studiate perché fossero efficaci e definitive al millimetro di ogni singolo nome, stavo in un film in presa diretta, un fiume, un fiume enorme e incredibile, la storia toccabile con mano a un metro da me, non la verità perché la verità in assoluto non esiste, ma qualcosa che certamente le si avvicinava così tanto da rendere quasi superfluo il bisogno di battezzarla come tale.
Chi se ne frega di come la si vuole chiamare, quella mezz’ora ha avuto la forma che più ha il senso della verità, della storia recente e intensa di questo caotico paese.
Io stasera ero a tavola con una delle persone che hanno realizzato la fine, concreta e non teorica, delle Brigate Rosse.
Non lo so, sono elettrizzato e non so come spiegare a un quindicenne che roba enorme sia potergli parlare, fare domande, toccarlo, averlo contemporaneo e a disposizione della fame di sapere il retro della storia.
Soprattutto non saprei come spiegargli, a prescindere dalle proprie personali posizioni politiche, che impoverimento sia questa ormai diffusa abitudine di ridurre la storia passata e presente di questo paese fino a farla entrare dentro un tweet, semplificando tutto, i buoni di qua i cattivi di là, gli onesti tutti capelli biondi i ladri tutti capelli mori, flussi sociali e storici che hanno cambiato la storia di intere nazioni ridotti a frasi che stanno dentro due righe di citazione da diario, modificazioni tali da cambiare il pensiero umano semplificati fino all’estremo solo perché diventino comprensibili da chiunque non abbia mai aperto un giornale, un libro ma ugualmente vuole spiegare il mondo, anche quel mondo.
Non saprei come spiegargli la bellezza della complessità, forse l’unico aspetto della storia politica di questo paese la cui bellezza dovrebbe essere condivisa da entrambi, da chiunque se ne dica appassionato, affascinato, e quanto al contrario questo ridurre tutto a codice binario 0-1, anche e persino periodi storici talmente complessi che resterebbero tali persino se si riuscisse davvero a ridurli a sintesi 0-1.
Come faccio a spiegare a un quindicenne che non importa se pensa che sia giusto o meno il suo pensiero ma che è fondamentale non abbandoni mai il fascino di esplorarne la complessità, quanto abbia da guadagnarci lui stesso se non cede alla tentazione di ridurlo fino a banalizzarlo?
Che non esistono complotti, esistono storie conosciute e storie con caselle ancora da riempire, che quando non conosci una storia non devi risolverla attribuendola ai servizi segreti ma devi inseguirla senza mai accontentarti di meno che la risposta più semplice tu abbia la fortuna di poter ottenere, ma devi fare la domanda e farai la domanda solo vivendo ogni giorno con la certezza che la risposta definitiva non ce l'hai perché semplicemente non può esistere.
Stasera Zio Peppe mi ha detto chi diede l’ordine, fu tale, fu gerarchico infatti.
Gli ho chiesto di ripetermelo perché temevo di aver capito male.
Ma come si può non essere appassionati di un mondo tanto complesso da eliminare il confine tra buoni e cattivi non perché siano tutti uno o l’altro ma semplicemente perché quel parametro non è complesso abbastanza da essere sufficiente per raccontare una storia così articolata da essere disegnabile, e questo solo se proprio la si vuole rappresentare in maniera visiva, solo a forma di frattale, ogni risposta genera altre dieci domande e ognuna delle dieci risposte ne genera altre dieci in un flusso inarrestabile e infinito?
Come si può pensare di aver capito, di aver capito tutto?
Non è fisicamente possibile capire tutto, si può solo continuare a correre dietro alla nuova domanda ed è affascinante farlo molto più di quanto possa dare piacere la ricezione di una risposta.
Ma che bel compleanno.
Passato a parlare di morti, di alberi, di terrorismo, di come si produce l'olio, di vita reale, di cose vere e i regali consegnatimi da due bambini che un giorno magari scriveranno che la sera del loro quarantesimo compleanno io settantenne avrò raccontato loro una vita pazzesca fatta di lotte e di azzardi, di scommesse e di vittorie.
Glielo auguro, perché se avverrà vorrà dire che tra trent'anni saremo sempre noi, che a sua volta vorrà dire che stasera a quel tavolo io ero certamente felice ma non ero il più felice, che a sua volta vorrà dire che è stato proprio un bel compleanno.
Adesso però è ora di andare, ché anche le storie semplici, quelle che non vogliono cambiare il mondo ma solo il modo, contengono bellezza.