20 giugno 2010

A pelle, figlio di a pollo

Ci sono persone con le quali l'antipatia è questione, irrisolvibile, di pelle fin dal primo secondo di incontro.
Quando avviene non c'è soluzione, pure in un "ciao" si riuscirà a mettere tanto fastidio da inquinarci l'intero golfo del messico.
Quando la cosa è reciproca e il rapporto è di lavoro, il disatro diventa rischio che ogni giorno si ripete ciclicamente non meno di ventiquattro volte.

Di geneticamente stronzi Milano, e il settore della comunicazione in particolare, è piena al punto che basta passeggiare in una qualsiasi via a occhi chiusi e braccia aperte, per esser certi che non passeranno più di dieci secondi prima di averne abbracciati almeno cinque.
Tipo strascico per le telline, con in più la certezza che se la rete è brandizzata, qualsiasi brand, il numero raddoppia e il tempo si dimezza.
Ma sono simpatici, però, o almeno ci provano, diciamo.
Vabbè, si nota lo sforzo, insomma.

E' quando lo stronzo è tale che è consapevole che nessun velo di simpatia potrebbe mai dissimulare, che avviene l'incontro fatale.
Quando anzi è talmente stronzo da considerare la simpatia un difetto dal quale prendere il più possibile le distanze anche volontariamente, non bastasse la genetica e i geni di mamy e daddy.

Ma il peggio avviene quando è lo stronzo a cercare te, quando sei tu a finire nella sua rete stronza di pescatore stronzo, quando quello che ti sta sul cazzo non meno del triplo di quanto sei più che consapevole di stare, tu, sul cazzo a lui è il regista che da due settimane ha scelto te per riversare una vita di calci in culo dai bulli all'asilo, perché questo è stronzo di quelli che il processo è partito sicuro dai tempi dell'asilo.

E due settimane sono passate e un'altra ci aspetta, prima della fine dell'incubo.
E parliamo di quello starci sul cazzo che ti rendi conto che è il potere, l'unico motivo per cui sei ancora lì, il suo, quel tipico atteggiamento di chi può decidere se dormirai, e non dormirai, se mangerai, e non mangerai, se uscirai, e non uscirai.
Lo sento, è lì che manda mail che gli vedo la faccia, il sorrisetto del pollice su o giù per ogni virgola che chiede, riceve come da richiesta, e puntualmente boccia.

Li conosco quelli così, da vent'anni ne ho uno diverso alla settimana a dirmi se mangio, se dormo, se esco, a dirmi che vogliono A per il solo creare la possibilità di dirti, quando ricevono A, che non hai capito che volevano B.
E' un gioco delle parti che li mantiene in vita, non durerebbero un giorno se le parti si invertissero perché in quel sottile spazio che divide il loro chiedere dal tuo eseguire risiede la loro sopravvivenza, sopravvivenza dalle regole di questo mondo diviso in incudini e martelli, in reti e stronzi, in correzioni di lievissime impercettibili cromie in una stronza immagine che verrà proiettata su uno schermo che nemmeno le visualizza, quelle tonalità, e lo sai tu e lo sa lui, ma che lo stesso devi dargli come chiedono perché non sono correzioni, sono la materializzazione di un disequilibrio psichico, di un disagio sociale, di una psicosi di massa cittadina dalla quale puoi salvarti solo se riesci a dar loro ciò di cui hanno bisogno:
La consapevolezza che il loro quotidiano cercare sempre più a fondo il tuo punto di rottura, è in realtà un test per sapere se sei abbastanza forte da permettere loro di continuare a farlo e, in questo modo, sopravvivere.
Non ci si crederebbe mai, ma io lavoro in proporzione a quanto tratto male la gente che mi paga.
Chiedere alla fidanzata, se non ci si crede.
Vogliono questo, vogliono che non soccombi perché si credono forti e vogliono gente forte accanto.
E per non soccombere devi essere più forte di loro ma senza invertire le parti.
Parti che vedono loro, chi comanda, dirmi ogni giorno di più "cambiamo mestiere?" e io, quello che subisce, rispondere ogni giorno di più "Fossi matto!"
E c'è un'incredibile logica, in questa apparente follia.

A Milano, nel settore della comunicazione in particolare, sono tutte gazzelle che hanno un dannato bisogno non di sentirsi leoni, ché non sarebbero mai capaci, ma che chi sta intorno li veda come tali.
E una gazzella, perché il mondo intorno la veda leone, ha bisogno di una gazzella davanti che scappi, una spalla, un complice che regga il gioco senza svelarlo, che corra spaventata come se davvero avesse un leone dietro, cedendo ogni tanto quasi a farsi raggiungere ma mai fino a farsi prendere, ché lì scatterebbe il test zampata e il bluff sarebbe svelato.
Il gioco delle parti sta tutto lì.
Gazzelle messe a comandare alle quali attacco zampe in post-produzione, alle quali concedo ruggiti sincronizzati al frame.

La crisi economica ha rivoluzionato il mio settore così tanto da moltiplicare il già notevole disagio psichico che lo caratterizzava, soprattutto in città schiacciasassi come milano dove se ti fermi sei perduto e ogni mattina una gazzella si sveglia e bla bla bla.
Il baratro è talmente davanti a tutti che per reazione i leoni sono diventati più leoni e anche i macachi hanno cominciato a ruggire per cercare in qualche modo di sopravvivere alla selezione sperando nel credibile bluff.
Stupidi, così facendo non si sono accorti che sono scomparse le necessarie gazzelle.
Che tutti leoni nessun leone.
Motivo per cui se esiste uno forte come un leone tanto da non aver nessuna difficoltà a farsi gazzella dietro adeguato compenso, a Milano oggi il lavoro gli si moltiplicherà tanto da non riuscire più a stargli dietro, perché là fuori è pieno di finti leoni che hanno un disperato bisogno di finte gazzelle capaci di farsi vere.

E io, se c'è una cosa in cui sono maestro, quella cosa è esattamente questa.
In culo alla crisi, in vent'anni non ho mai lavorato così tanto.
Il trucco, tanto quanto la crisi, è tutta questione di maneggiare abilmente le malattie psichiche di massa.
Questi hanno tanta paura quanti soldi per comprarsi la sensazione di essere quelli che si salveranno.

Eccomi, oh leone milanese.
Corro.
Un metro di vantaggio?
Due?
Tremo anche un po'?

Sono le cinque e ho finito l'ennesima soluzione alla tua paura.
Tu stai dormendo e impaurito sogni di precipitare da una casa.
Io, da sveglio, sogno di ricomprarmi quella che costruii con mio padre da bambino.
Tu, leone, vedi i tuoi sogni sempre più lontani.
Io, gazzella, vedo i miei sempre più vicini.
Chi comanda, tra i due, realmente?
Chi è il pazzo?
Chi il leone, chi la gazzella.

Stasera ho firmato il primo contratto della mia ventennale vita di gazzella sulla parola.
Sono talmente gazzella che me lo sono riscritto da solo.
Il leone me l'ha dato da firmare, io l'ho letto, ho tolto tutte le garanzie a sua tutela, ho messo tutte quelle a mia, me ne sono inventate anche un paio superflue perché il mio primo contratto lo volevo strafottente per dirlo realmente mio, ho tirato una bella riga su "indeterminato" e l'ho sostituito con "non è ancora nato chi mi leva la libertà", ho triplicato la cifra e glie l'ho riportato.
"Mi stai inculando?"
"Ovvio"
E abbiamo firmato.
Io scappo, lui m'insegue e bla bla bla.

Un giorno mi chiese perché lavorassi per lui da mesi senza pretendere una garanzia scritta.
Perché tanto non scappi, gli risposi, ti ho capito e tu hai capito me.
Stasera mi ha chiesto perché mai uno dovrebbe non rubare in un paese così.
"Per dirsi migliori" gli ho risposto.
"Anzi no" mi sono corretto "per sapersi, migliori".
Che è di più, perché non richiede convalida esterna.
Perché è roba intima.
Essere migliori è roba intima.
Perché essere migliori significa soltanto essere migliori del sé stessi che potremmo essere con meno, un sacco meno, fatica.

A tempo indeterminato... a me.
Minchia allora la gazzella la faccio veramente bene.




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