26 giugno 2014

Quando dico che ne capisco vuol dire che ne capisco

Mi spiace dover sempre ricorrere al caro vecchio "Te l'avevo detto io", ma se tra un coiffeur e un selfie con la topa di turno la nostra cara punta avesse dedicato qualche minuto a leggere i consigli che gli diedi come sempre con qualche anno di anticipo, oggi non si troverebbe nell'infelice condizione di non capire perché un'intera nazione gli abbia sguinzagliato dietro la peggiore stampa possibile, interessata a controllargli la pressione delle gomme del Ferrarino chiedendo al pubblico del bar se se lo meriti realmente o, è il sottotesto filosofico, l'abbia rubato, mentre i compagni di quella cosa che si chiama squadra gli hanno scaricato addosso l'intera colpa prima ancora di lasciare il campo e contare fino al proverbiale undici meno uno.

"[...]è il paese nel quale un Balottelli qualsiasi, l'altro neGro che non è immigrato, non spaccia droga, non stupra donne ma sempre neGro resta ed è giusto che il paese gli ricordi ogni domenica che nel nuovo oggi italiano quel codice a barre non lo stacchi di dosso solo perché ti compri la ferrari e ti scopi qualche soubrette e magari hai persino la carta d'identità come qualsiasi altro italiano.
Che gli ricordi che se sei neGro, oggi in Italia sei neGro e basta, lo dice il Giornale, è tornata categoria.
E se dopo la centesima domenica che appena entri in campo l'intero stadio ti ricorda che sei neGro ti va di tirare un italianissimo vaffanculo, l'Italia intera, giornali in testa, ti circonderà e ti ricorderà che ti conviene scusarti con i bianchi che hai, tu, offeso.

[...]
Guardate Balottelli, che italiano ricco e bravo col balòn, sempre neGro viene chiamato e sempre "Scusa" gli viene suggerito di dire quando non accetta la legge della maggioranza."

2010.
Mi scuseranno i miei lettori, se non riesco a essere altro che intelligentissimo.

Update: Qualcuno molto più importante di me ha fatto la stessa riflessione in maniera molto più argomentata e, incredibile, prolissa di quanto abbia fatto io.

25 giugno 2014

2+2

Dato che non ho voglia di riscrivermi, per non venir meno al mio ruolo di dispensatore di argomentazioni utili a chi ne fosse sprovvisto mi limiterò a riportare quanto ho scritto in risposta a Leonardo che, nel solito godibilissimo articolo, si è posto la seguente domanda:
"se i deputati, in quanto eletti dal popolo, godono di un trattamento speciale, non si capisce perché non dovrebbero goderne anche i senatori."

Semplicemente perché non si sta riformando il Senato, ma il Bicameralismo.
Questa che sembra una sottigliezza formale, è in realtà la sostanza che non capisco perché non venga affrontata con la semplicità che permette.

Non si è deciso di intervenire sul Senato in quanto tale, si è deciso di eliminare il bicameralismo lasciando il potere legislativo a una sola delle due camere.
La riforma del senato non è l'obiettivo, è la conseguenza.
Quindi l'obiettivo della riforma non è il Senato ma il concetto di Parlamento, fino a oggi bicamerale e da domani monocamerale.
Messi a posto i birilli ne deriva che l'immunità così come pensata dai costituenti e cioè come forma di protezione a tutela della separazione dei poteri giudiziario/Legislativo, non dovrebbe più coprire i senatori nemmeno se lasciata così com'è oggi, dato il suo essere appunto stata inserita in costituzione per tutelare il parlamento (e le sue funzioni) del quale il Senato non sarebbe più componente.

Quindi o si riforma l'immunità nel suo complesso eliminando il confine scritto in quel "parlamentare" che ne circoscrive la peculiarità, oppure eliminando il bicameralismo decade automaticamente la tutela per chi parlamentare non lo sarà più.
E i Senatori non saranno più parlamentari, motivo per cui qualcuno ha pensato non sia più nemmeno necessario che resti una camera a elezione diretta.

Sarò banale io, ma a me la cosa sembra di una semplicità elementare.
Quindi immagino mi sfugga qualcosa, dal momento che è evidente la questione non sia così semplice come appare a me.
Il punto è: cosa mi sfugge?

21 giugno 2014

La mano de Dios

Forte della mia nota competenza, sento il dovere di offrire al mondo anche quest'anno la mia preziosa sintesi:
Le tv non ve lo dicono, ma il motivo per il quale si sono inaspettatamente qualificate tutte le latino-americane si chiama Papa Francesco.

E ogni sera prendevo il mio Penny e mi addormentavo immaginando di averti lì



18 giugno 2014

a sfumare

Da quando i tassisti hanno smesso di essere tutti missini per diventare tutti 5Stelle stanno diventando piattole come manco i testimoni di Goeva.
Non c'è corsa che non si trasformi in un'occasione per fare dei comizi politici, ormai sono tarati sulla distanza, sono certo che facciano loro dei corsi di sintesi nei quali gli insegnano a pianificare la scaletta degli argomenti in maniera da farli rientrare tutti nel tragitto che stimano temporalmente all'indicazione della destinazione.
Ogni volta riescono a inserirli tutti in sequenza, sono tutti ladri, le aziende chiudono, i politici si aumentano gli stipendi, il paese è in rovina, la gente è stufa, me lo dicono i clienti, è tipo una catena ad anelli sempre uguali.
Una sera ho fatto l'errore di interrompere la catena prima che si concludesse, anticipandolo con la minaccia di scendere dove ci trovavamo se fosse arrivato al logico anello successivo nel quale per coerenza si sarebbe dovuto dichiarare grillino.
Non l'avessi mai fatto, mi ha tenuto sul taxi venti minuti sotto il portone per spiegarmi in pillole i trattati di macro economia internazionale, il bimbembérg, le banche, lui studia quando è al parcheggio mi dice, lui legge e poi insegna ai clienti a pensare e a svegliarsi, più io dicevo di dover scendere e più lui accelerava il tempo/parola per farci stare tutto quello che mancava per concludere la scaletta, protetto dalla convinzione che il suo aver fermato il tassametro costituisse una sorta di mio obbligo morale a subìre la lezione che mi offriva gratuitamente.
L'ultimo ieri, ogni dieci c'è quello con cui discuto e questo era il decimo, non passava una virgola, ogni sentenza che si aspettava generasse applauso gli veniva rispedita indietro demolita, si stava incazzando, anzi alla fine si è proprio incazzato anche se ha cercato di mascherarlo dietro a un semplice "Lei parla così perché ha un lavoro".
Volevo rispondergli "Perché lei invece in stazione mi ci sta portando gratis" ma ho pensato fosse abbastanza e soprattutto che in stazione dovevo arrivarci in tempo e quindi facciamo che sarà per la prossima volta, tanto ci sarà anche la prossima volta.
Una volta i tassisti aspettavano fossi tu a parlare per aprire una discussione, in assenza di segnale svolgevano il lavoro in silenzio.
Ora o ti inventi una telefonata, o non c'è scampo e ti devi sorbire tutta la filippica pro-Grillo.

[...]

Verso maggio, appuntamento a Milano per incontro in sede di grossa banca con grosso vertice, mi accompagna nella sua stanza la sua assistente che si siede con noi, ci mettiamo a parlare, io faccio una domanda, lui si illumina e la definisce una domanda intelligente, lei fa una domanda, lui si incazza e la definisce una domanda stupida, le chiede di uscire e di lasciarci soli chiudendo la porta.
Mi chiede se me ne intendo di economia internazionale, essendo pagato per intendermene rispondo ovviamente sì, si accerta che nessuno ci senta, abbassa il tono della voce e si mette a raccontarmi della riunione all'estero dalla quale era appena tornato, di cosa stanno facendo in europa, di cosa sta accadendo nelle stanze delle banche nazionali su ordine della BCE, di chi ha deciso di fare cosa.
Stasera ascolto Renzi dal solito podio dal quale lancia indicazioni alle banche, all'europa, al mondo, dice che le banche dovranno ricominciare a concedere credito, che ora l'aria dovrà cambiare, che il semestre italiano e bla bla bla, mi tornano in mente quelle due ore in quella stanza un mese prima e penso che il ragazzo è furbo, molto molto molto furbo.
Facciamo che ci risentiamo a Novembre 2014 e che voi nel frattempo andate a leggervi qualsiasi cosa Gùgol vi restituisca cercando "AQR".
A dicembre poi vi spiego.

[...]

A proposito del ragazzo.
A Febbraio ho anche saputo come funzioni la sua macchina operativa.
Farà parecchia strada perché quella macchina è strutturata per non offrire brecce a chi volesse indebolirla. 
È davvero figlio di Berlusconi.
Nel senso che Pierfiglio con lo stesso sistema ha traghettato Mediaset attraverso qualsiasi bufera.

[...]

A proposito di Pierfiglio, vi ho mai raccontato di quando ci ho avuto a che fare?
No, infatti, e col cavolo che lo faccio ora.

[...]

Un consiglio:
Se siete fidanzati
NON
ANDATE
A
BUDAPEST.

6 giugno 2014

La storia siamo noi


Una delle fortune che la mia generazione ha è quella di essere a cavallo di due periodi storici che in termini di quantità (e intensità) di evoluzioni sociali e politiche prodotte sono distanti anni luce.
Noi quarantenni abbiamo un’età che ci rende capaci di analisi approfondite sul nostro periodo contemporaneo, poggiate sul risultato che solo anni di letture e di confronti documentati possono dare come fondamenta, e contemporaneamente abbiamo ancora a disposizione chi ha vissuto in prima persona il periodo precedente dal quale ascoltare le testimonianze dirette di ciò che la prossima generazione di quarantenni potrà solo leggere sui libri.
È inebriante, perché questa doppia disponibilità di fonti permette di prendere le proprie analisi sulla storia contemporanea e incrociarle con le testimonianze dirette del periodo precedente che questa storia contemporanea l’hanno generata.
Io non so se tutti i miei coetanei si rendono conto di quale fortuna sia, ma soprattutto mi spiace che la prossima generazione potrà contare solo su di noi quarantenni di oggi, per farsi raccontare un periodo attuale che di interessante non ha poi così tanto se messo a confronto con i decenni ‘50/’80.
Quando un dodicenne di oggi tra una ventina d’anni chiederà a me sessantenne di raccontargli come si è arrivati alla realtà del 2035, io avrò da raccontargli al massimo di un tizio con i capelli d’asfalto che aveva candidato una con due tette da paura, di un comico che si era inventato un esperimento sociale che un giorno gli sfuggì di mano, di riunioni segrete che faccio con i miei clienti nelle quali vengo messo al corrente di cose che pur detonanti non sposterebbero un capello se rese pubbliche.
Io al contrario oggi ho a disposizione in presa diretta una famiglia che ha attraversato una storia incredibile che ha davvero rivoluzionato, anzi costruito, il paese di oggi e alla quale posso chiedere di raccontarmi, di dirmi di più, di togliermi dubbi, di riempirmi caselle altrimenti impossibili da riempire.

Stasera per il compleanno ho ricevuto diverse belle cose, tutti pensieri semplici ma per la prima volta dopo tanto tempo davvero ma davvero pensati guardandomi dentro.
Ciascuno ha pensato a me prima di scegliere il regalo e per questo ciascuno mi ha davvero regalato qualcosa che parla non tanto di me quanto di quello che vorrebbero io avessi.
Una bottiglia di vino con due bicchieri è un regalo bellissimo perché è un augurio bellissimo, tre foto con la scritta sotto “Famiglia” sono la cosa più vicina all’idea di famiglia che i tre ritratti in quelle foto oggi possono trasmettermi, la biancheria intima più semplice è il pensiero pulito più semplice e su questo poi ci scriveremo una filippica dedicata perché dietro una maglietta bianca c’è un mondo che pochi possono racchiuderci dentro.
In mezzo a quei regali me n’è arrivato uno che nessuno aveva incartato perché nessuno pensa che per me sia tale.
Quel regalo è un racconto.

Una delle fortune che la mia generazione ha, dicevo, è quella di avere accanto persone che la storia l’hanno fatta davvero e una di queste persone stasera era a tavola con noi.
Mia nonna e i suoi fratelli sono tutti passati da quelle che in quegli anni erano le principali aziende, come quasi tutti i calabresi di quella generazione diventati torinesi negli anni della grande migrazione.
La fortuna che io posso vantare è che quasi tutti loro hanno fatto percorsi storici importanti.
Allora stasera il regalo involontario è stato Zio Peppe e il suo racconto.
Zio Peppe è uno di quelli che nella Marcia dei Quarantamila stava in testa.
Uno di quelli che quella marcia l’hanno organizzata, non di quelli che ci si sono solo accodati.
Ora io a un quindicenne di oggi non saprei come spiegare che fortuna sia avere a tavola uno di quelli che negli anni di piombo era un quadro Fiat, uno di quelli che in quei mesi a casa la sera ci tornava scortato dai carabinieri, uno di quelli che in una stanza e poi in un teatro e poi in una città decise che era giunto il momento di cambiare il corso della storia.
Se glielo spiegassi probabilmente alzerebbe le spalle pensando che anche lui sul blog ha fatto la citazione del partigiano che combatteva il fascio, penserebbe che anche lui ha il nonno che si è salvato dalla prigionia.
Non capirebbe la differenza tra l’aver davanti un partigiano o uno degli enne milioni di italiani e italiane che in diversa maniera realizzarono la Resistenza, un sessantottino, uno degli enne mila che hanno occupato le università, e l’aver davanti uno di quelli che hanno deciso la marcia dei quarantamila.
La differenza sta nel fatto che un partigiano è un elemento di una lotta collettiva così spersonalizzata che la condivisione degli obiettivi non era un presupposto necessario e quindi comune a chi si trovò a combatterla, tra i partigiani ci furono anche quelli che semplicemente compresero con sufficiente anticipo che quella sarebbe stata la parte che avrebbe vinto; uno degli organizzatori della marcia dei quarantamila è una persona che ha cambiato davvero personalmente il corso della storia, in una maniera così individuale che, raccontava, persino loro furono increduli di fronte alla dimensione del sostegno che la città offrì loro lungo quella strada che nei loro programmi erano pronti a percorrere in un numero venti volte inferiore a quello di coloro che si apprestavano ad affrontare.
"Non eravamo quarantamila" ha detto "eravamo quattromila, il resto fu la città che ci rese dieci mila, poi venti mila, poi quaranta mila".
Ma cos'è un racconto così, se non un regalo.

E allora per mezz’ora è stato tutto un suo raccontare e un mio chiedere, dettagli, conferme, stupore, incredulità.
Perché fu fatta quella marcia, chi erano i veri destinatari del messaggio (io lo sapevo, ma era solo deduzione frutto di letture e riflessioni successive, sentirselo confermare in prima persona è una cosa enorme), il ruolo del sindacato in quegli anni, Berlinguer in quei giorni, il vero Berlinguer, cosa succedeva nei locali delle catene di montaggio, come si agiva su persone e macchinari, chi gestiva davvero i picchetti ai cancelli, ma soprattutto il vero cuore di quella questione, il nome che io aspettavo venisse fuori perché unica conferma che aspettavo in mezzo a notizie al contrario per me nuove e sul quale non a caso appena uscito ho fermato la divagazione per concentrarsi su quello: le Brigate Rosse.
Un fiume.
Chi erano, quanti (esattamente) erano, dove stavano, chi li copriva, come si muovevano dall’interno del sistema per ottenere i loro risultati sull’esterno, perché erano coperti, la questione RSU, chi erano quelli che le gestivano, come funzionavano gli scioperi e chi in realtà li gestiva e controllava, perché si decise di togliere quella copertura, il giorno esatto in cui si decise che quella copertura dovesse cessare, come avvennero esattamente gli arresti e non in senso politico ma tecnico, in termini di procedure di polizia studiate perché fossero efficaci e definitive al millimetro di ogni singolo nome, stavo in un film in presa diretta, un fiume, un fiume enorme e incredibile, la storia toccabile con mano a un metro da me, non la verità perché la verità in assoluto non esiste, ma qualcosa che certamente le si avvicinava così tanto da rendere quasi superfluo il bisogno di battezzarla come tale.
Chi se ne frega di come la si vuole chiamare, quella mezz’ora ha avuto la forma che più ha il senso della verità, della storia recente e intensa di questo caotico paese.

Io stasera ero a tavola con una delle persone che hanno realizzato la fine, concreta e non teorica, delle Brigate Rosse.
Non lo so, sono elettrizzato e non so come spiegare a un quindicenne che roba enorme sia potergli parlare, fare domande, toccarlo, averlo contemporaneo e a disposizione della fame di sapere il retro della storia.
Soprattutto non saprei come spiegargli, a prescindere dalle proprie personali posizioni politiche, che impoverimento sia questa ormai diffusa abitudine di ridurre la storia passata e presente di questo paese fino a farla entrare dentro un tweet, semplificando tutto, i buoni di qua i cattivi di là, gli onesti tutti capelli biondi i ladri tutti capelli mori, flussi sociali e storici che hanno cambiato la storia di intere nazioni ridotti a frasi che stanno dentro due righe di citazione da diario, modificazioni tali da cambiare il pensiero umano semplificati fino all’estremo solo perché diventino comprensibili da chiunque non abbia mai aperto un giornale, un libro ma ugualmente vuole spiegare il mondo, anche quel mondo.
Non saprei come spiegargli la bellezza della complessità, forse l’unico aspetto della storia politica di questo paese la cui bellezza dovrebbe essere condivisa da entrambi, da chiunque se ne dica appassionato, affascinato, e quanto al contrario questo ridurre tutto a codice binario 0-1, anche e persino periodi storici talmente complessi che resterebbero tali persino se si riuscisse davvero a ridurli a sintesi 0-1.
Come faccio a spiegare a un quindicenne che non importa se pensa che sia giusto o meno il suo pensiero ma che è fondamentale non abbandoni mai il fascino di esplorarne la complessità, quanto abbia da guadagnarci lui stesso se non cede alla tentazione di ridurlo fino a banalizzarlo?
Che non esistono complotti, esistono storie conosciute e storie con caselle ancora da riempire, che quando non conosci una storia non devi risolverla attribuendola ai servizi segreti ma devi inseguirla senza mai  accontentarti di meno che la risposta più semplice tu abbia la fortuna di poter ottenere, ma devi fare la domanda e farai la domanda solo vivendo ogni giorno con la certezza che la risposta definitiva non ce l'hai perché semplicemente non può esistere.

Stasera Zio Peppe mi ha detto chi diede l’ordine, fu tale, fu gerarchico infatti.
Gli ho chiesto di ripetermelo perché temevo di aver capito male.
Ma come si può non essere appassionati di un mondo tanto complesso da eliminare il confine tra buoni e cattivi non perché siano tutti uno o l’altro ma semplicemente perché quel parametro non è complesso abbastanza da essere sufficiente per raccontare una storia così articolata da essere disegnabile, e questo solo se proprio la si vuole rappresentare in maniera visiva, solo a forma di frattale, ogni risposta genera altre dieci domande e ognuna delle dieci risposte ne genera altre dieci in un flusso inarrestabile e infinito?
Come si può pensare di aver capito, di aver capito tutto?
Non è fisicamente possibile capire tutto, si può solo continuare a correre dietro alla nuova domanda ed è affascinante farlo molto più di quanto possa dare piacere la ricezione di una risposta.

Ma che bel compleanno.
Passato a parlare di morti, di alberi, di terrorismo, di come si produce l'olio, di vita reale, di cose vere e i regali consegnatimi da due bambini che un giorno magari scriveranno che la sera del loro quarantesimo compleanno io settantenne avrò raccontato loro una vita pazzesca fatta di lotte e di azzardi, di scommesse e di vittorie. 
Glielo auguro, perché se avverrà vorrà dire che tra trent'anni saremo sempre noi, che a sua volta vorrà dire che stasera a quel tavolo io ero certamente felice ma non ero il più felice, che a sua volta vorrà dire che è stato proprio un bel compleanno.

Adesso però è ora di andare, ché anche le storie semplici, quelle che non vogliono cambiare il mondo ma solo il modo, contengono bellezza.



5 giugno 2014

Celsius 42 - Fahrenheit 39

Avevo pensato che invece di 42 avrei potuto scegliere di compierne 40, cancellando di netto gli ultimi due così da rimettere le lancette nel punto in cui ancora credevo alle favole.
Poi mi sono reso conto che se cancellassi gli ultimi due cancellerei anche quella notte in cui tra le tre e le quattro meno un quarto ho ripreso a credere alle favole e allora lasciamo tutto così, esattamente così, ogni giorno e ogni pensiero esattamente come e quando si è acceso.
E se tenere tutto così per tenersi le favole significa tenersi anche i momenti in cui finiscono, allora sia.
È vero, finiscono.
Però quegli istanti.
Cosa sono stati quegli istanti nei quali è sembrata a un passo dal diventare realtà.
Valgono qualsiasi drago.