28 dicembre 2006

Forse

Ti vorrei ritrovare così, per caso, come non ci fossimo mai incontrati in una sera fatta di pareti che non conosco, fondale di persone che non conosco e vedere in contorni inusuali te per prima mai vista come non fossimo stati noi quella sera a provare a esser grandi e a riuscirci così bene da non aver più bisogno di nessuno, incontrarti una sera con un buon rosso in mano venirmi incontro dicendo “Mi han detto che tu sei” no, sbagliato, sbagliatissimo, parti da zero quando io non ero, darti del Lei ché non mi conosci nella mia gentilezza un brindisi al bimbo che rinasce e giù di racconti col mio piccolo petto gonfio e la vetrina tutta addobbata per natale approfittare dello sguardo che volge altrove per riprenderti le misure vicino vicino vicino tanto da toccarti con i desideri che non mi ero portato dietro, viaggio leggero, solo l’indispensabile, scoprire che l’indispensabile era lì, vai a saperlo uno non ci arriva mai preparato.
Ti vorrei ritrovare così impreparata e raccontarti tutto da capo provando un’altra versione, lato B dei dischi vecchi, un album di foto dalla soffitta e se va bene amici ad applaudire lo spettacolo e io ti canto un karaoke con tutte le canzoni “you” in playlist “you and me” “you for me” “you in me” “You you you” si you, see you, in september il mese dei progetti su un foglio di carta con una matita anche se non si ha nessuna intenzione di cancellarli ma è più morbida e poi fa le sfumature e se ci passi il dito puoi fare le zone d’ombra più belle, quelle che non sono buio ma volume, spazio, ingombro, pieno, prendi le misure e segni le misure sul progetto quant’è l’altezza, boh un metro e settantadue, settantatre al massimo tranne quando metti i tacchi in quel momento diventi alta quanto il cielo e non ci sta quel progetto lì sul foglio e devi tirare una riga luuuuuuuunga lunga lunga fino al cielo, cielo tuo marito, chi, io.
Ti vorrei ritrovare per caso una sera in un cassetto mentre cerco una cosa importante che avevo solo riposto per non rovinarla insieme al biglietto del primo concerto al biglietto del primo treno al biglietto del primo amore vorrei ritrovare tu ultimo concerto a chiudere il cerchio con un bis ringraziare il pubblico chiudere il sipario e andare a mangiarci quel granchio con le mani consapevoli che si sporcheranno ma per entrambi come quando una volta ogni tanto certe volte si faceva anche l’amore.
Ti vorrei ritrovare all’arrivo del treno io scendo tu lì che mi dici “E tu chi sei?” e io ti rispondo “Ecco, ti volevo ritrovare così”.

Forse mi ero innamorato di te.

12 dicembre 2006

Milena

Questo post avrà la durata della traccia 7, lo scrivo la prima volta che la sento e mi fermerò quando il brano sarà finito, senza controllare errori, senza concludere la frase, senza chiedermi perché sia finito in quel esatto momento e tutte le parole che non ci staranno rimarranno qui per quando verrai a prenderle.

Quelle che ci staranno vorranno dirti che che se era aria di natale, quella che volevi darmi, è aria di natale quella che mi hai dato, un natale strano, sai, quest'anno, tutti sparsi, tutti lontani, tipo te, che sei qui ed è natale e sei qui come volevi, quando volevi, perché, lo volevi.

Sei speciale, sei una donna speciale e lo dico subito perché ho paura di non arrivare in tempo alla fine del brano e ci sono cose che devi sapere una di queste è che sei speciale in una maniera che è nuova per me.

Sono questi i pensieri?
E' questo il sistema per abbracciare da lontano?
Se è questo insegnamelo, perché io non ce l'ho.

17 novembre 2006

Ana

Aggiornamento:
Dopo diversi giorni di discussione generati da questo mio post come da tutti gli altri scritti da molti, è comparso in rete questo.

Chi ha da sempre la pazienza di leggere le mie enciclopediche produzioni, la usi per una volta per un motivo davvero valido: La rara possibilità di gettare lo sguardo attraverso quello spriaglio che molti auspicano e che stasera si è aperto.
Volevo metterlo alla fine, il link, accanto agli altri due, a dimostrazione che ci sono cancelli chisui e cancelli aperti e del perché tra i due siano indispesabili percorsi che nulla hanno a che fare con la volontà di aprirli di chi ci passa davanti.
Ma poi ho pensato che quasi tutti qui l'hanno già letto e per questo il link sarebbe passato inosservato, poiché ormai si va diretti ai commenti.
Così ho deciso d metterlo qui all'inizio, in modo che sia visto sia dai nuovi che arrivano mandati dai vari link messi in giro, che da chi ormai questo post non lo legge più e certamente non fino in fondo.
Perché un post come quello che ho linkato, andrebbe letto da tutti.
Tutti.
Soprattutto tutti coloro i quali pensano che anoressia significhi voglia di assomigliare alla modella bella.
Quindi quasi tutti.

È morta Ana, Ana è viva.

Quant’è passato, da quando ne abbiamo parlato con gli amici, una settimana?
Ma non si parlava del disturbo, però, no.
Del disturbo se ne parla seriamente forse tre, quattro volte nella vita.
Se se ne parla di più è perché non la si è mai vissuta.
Chiunque l’abbia vista, direttamente o indirettamente, sa che non può essere raccontata, mai completamente.
Perché mai completamente si crede di averla capita.
Ci si porterà sempre dietro il dubbio di essersene persi qualche pezzo, qualche nodo, qualche traccia, forse.
Quando la si è vissuta, quando la si è amata, quando la si è subita, se ne rimane per sempre in prossimità, mai dentro e per questo si sente di non essere in grado di raccontarla.
È come il diavolo, per chi ci crede.
Chi ne è impossessato non lo sa, non ne è cosciente, ne è solo strumento e vive la manifestazione del possesso come naturale perché sono le sue braccia a muoversi, le sue gambe, i suoi occhi, la sua mente il cui controllore suggerisce naturalezza e volontarietà.
Chi ne guarda da fuori la possessione ha come unico fine quello di fermarla prima possibile perché le manifestazioni sono dure, sono violente, sono atroci, lo fa per liberare la posseduta o il posseduto ma ha come fine la immediata liberazione dalla manifestazione, da quella parte visibile così brutta, così scomoda da avere vicino, così dolorosa da guardare.
Non è quello.
Ana non è quello.

Ana è rapporto, non è alimentazione.
Non credete alle trasmissioni tv che dicono che è un disturbo dell’alimentazione, non lo è, non è vero.
Il disturbo dell’alimentazione di Ana è come la bava bianca del posseduto, un effetto, non la causa, un modo di manifestarsi agli occhi di chi è intorno, un favore che si fa a chi da fuori vuole sapere cosa succede.
Non te lo dicono.
Non te lo dicono perché non lo sanno, cosa succede dentro.
Non lo sanno perché in quel momento non sono in loro, sono possedute.

Ana è un nodo di quando avevi sei anni, un incidente di quando ne avevi dieci, uno sguardo di tuo padre, una mano di tuo zio sulla gamba, Ana è paura che ti facciano di nuovo male, che ti lascino di nuovo da sola in una stanza senza porte, che ti scompaia di nuovo la voce, che ti si allaghino di nuovo i polmoni, Ana è la paura di non ricordare le tabelline, è incapacità di memorizzare apprendimenti dai propri errori, è incapacità di crescere perché gli errori diventano ulteriori cause e non correzioni di rotta, sono mattoni uno sull’altro sempre più pesanti, non è alimentazione è paura, vera, viscerale, così profonda da non manifestarsi più esteriormente perché troppo lungo è il percorso neuronale che compie lo stimolo prima di arrivare ai recettori, parte tipo dieci anni prima, è dolore sordo a se stessi.

No, non ne ho sofferto.
L’ho amata, però.
Per anni.
Il senso di sconfitta che amare Ana ti schiaccia dentro è inimmaginabile, irraccontabile.
Si guarda per minuti, per giorni, per mesi, il tuo amore che si spegne lentamente o che si attorciglia su se stessa per il dolore di mille anni fa.
No, con gli amici non si parlava di questo, infatti.
Non si parla di questo con nessuno.

Solo con chi lo vive, se vuole, altrimenti si lascia perdere, gli altri non possono capire, nemmeno gli psicologi possono capire, loro quando hanno davanti Ana hanno davanti la sua parte docile, quando attacca non avvisa, non puoi prendere appuntamento, non ti scrive un rapporto da pubblicare, ti si sdraia davanti quando meno te lo aspetti, sul pavimento, e comincia a tremare con la gola strozzata dalla paura e tu puoi solo guardare e chiederti a cosa serva amare, a cosa serva davvero, ti chiedi, se non salva.
Anzi, peggiora.
Questa è la cosa più dura.
Amare Ana peggiora.
Non bisogna amarla, bisogna ucciderla.
Tanto prima o poi posseduto o possessore muoiono, uno dei due, non si scappa, quando sembra passata è solo tregua ma è sempre lì, torna, se non la uccidi.

Si parlava con gli amici di Ana.
Non lo sapevano loro che c’era in giro questa ragazza, glie l’ho raccontato io.
Gli ho raccontato di Ana la blogger, perché la leggo da sempre e da sempre mi faccio una domanda.
Mi chiedo se e quando si può parlare di responsabilità morale.

Non lo sa nessuno.
Parlano tutti di Ana che è morta oggi, i giornali sono pieni di inchieste e di dati e tutti allarmati parlano di moda e non sanno nemmeno come la chiamano le ragazze quando parlano tra loro, tanto poco ne sanno di questo mondo e infatti da nessuna parte leggi di questa assurda coincidenza di Ana che è morta per colpa di …Ana.
No, tutti intenti a mostrare video di sfilate, tutti a dire che il problema è che vogliono assomigliare alle modelle e invece no, il nodo non è a chi vogliono assomigliare ma a chi NON vogliono assomigliare, è lì il punto di partenza, a volte un padre, a volte una madre, a volte un nemico, a volte se stesse, NON guardate a chi vogliono somigliare, se lo fate non capirete mai.

Il mondo dei blog, come per mille altri circuiti che fino a ieri erano nascosti e resi di difficile interscambio a causa dell’unico sistema di comunicazione che era quel passaparola ostacolato però dalla vergogna e dalla clandestinità, ha dato una casa al mondo di Ana.
Come ha dato modo ai nazisti di trovarsi più facilmente, ai pedofili di raggiungere prima le loro vittime, ha dato modo a migliaia di Ana di trovarsi senza doversi mostrare, senza doversi dichiarare, senza dover uscir di casa, gli ha tolto il problema che fino a ieri per alcune è stata la salvezza: l’assenza di complicità.
Esiste in rete un circuito vero e proprio di migliaia di Ana che grazie ai blog possono trovarsi, parlare tra loro, sostenersi a vicenda, insegnarsi a vicenda il modo più veloce per dimagrire, la miglior dieta lampo trovata e provata.
Perché i blog hanno questo di terribile, danno modo a chi ha provato, di suggerire a chi ancora no.
E leggendo i loro blog scopri centinaia di ragazzine che si applaudono quando una di loro scrive di essere finalmente scesa sotto i 30 chili e leggi di come questa diventi il loro idolo e il loro riferimento della settimana e come ogni idolo vedi la ragazza diventare testimonial dell’ultimo trucco, un cucchiaino di aceto la mattina ti toglie la fame per parecchie ore “provate a me è servito a non mangiare e guardatemi guardate quanto sono riuscita a perdere” e post su post con il conto delle calorie con una gara tra loro a chi riesce ad arrivare a sera con la somma inferiore alle altre, arrivare a sera viva, s’intende, perché i consigli se li scambiano perché servono consigli per arrivare più vicini possibile al limite e i consigli s accettano da chi è più vicina a quel limite.
Ana è la loro amica.

C’è ancora un po’ di senso del pudore, nelle parole di queste ragazze.
Lo sanno che non possono chiamarla con il suo nome e allora tra di loro la chiamano Ana.
Quando trovate un post che racconta della “Mia amica Ana” o “Stasera sono stata a casa con Ana” stanno parlando del loro disturbo.
Ne parlano come fosse una amica, una compagna, una complice, le aiuta a vederla come una presenza bella, positiva, rassicurante.
E allora io da un po’ mi chiedo, e ai miei amici l’altra sera ho chiesto, come si sentano i proprietari di una piattaforma che è diventata un terreno di scambio per consigli su come uccidersi più velocemente.
“Non possiamo controllarli tutti” mi risponderebbero sicuramente dalla redazione.
Bella scusa.
Basta digitare Ana nel motore di ricerca di splinder, per trovarle tutte una per una, non serve un investigatore.
Basta dedicare ogni giorno un’ora a fare una ricerca e chiudere tutti quelli che trovi, in una settimana hai levato loro uno strumento.
Risolto il problema?
No, non sono così stupido, ma almeno gli hai reso più complesso il cammino e se si spostano convincerai gli altri a fare lo stesso.
Fatelo.
Provate a leggerne un paio e a guardare le foto che postano, poi ditemi se la domanda non è legittima.
Quando cominceranno a morire ragazzine con il blog aperto e qualcuno scoprirà quanto questo scambio di informazioni abbia accelerato il processo, quanto abbia evitato che qualcuna di loro magari non riuscisse, vuoi per incapacità, vuoi perché nel frattempo aiutata da qualcuno, a uccidersi, la domanda sarà ancora assurda?
La domanda. Intendo, che mi faccio io da tempo.
Quando morirà una blogger, chi sapendo cosa scriveva e potendoglielo impedire non l’ha fatto, chi ha per giorni e mesi e anni ospitato le lezioni su come uccidersi a 13 anni, stando a guardare e dicendosi impossibilitato a fare qualsiasi cosa perché non è suo compito, sarà in grado di chiamarsi fuori dalle responsabilità di chi quella morte non ha fatto nulla per impedirla?
Quando si sente di un aspirante suicida salvato dalla ragazza di turno con la quale stava chattando che ha chiamato la polizia appena intuito cosa stava per fare, la ragazza che denuncia viene definita “Salvatrice” nessuno si sogna di denunciarla per violazione della privacy, lei chiama la polizia, la polizia rintraccia, la polizia salva, perché con queste bambine destinate a non diventare grandi non dovrebbe valere la stessa autorizzazione a violarne la privacy, quando quel non violarla significa essere loro complici nel tenere tutto nascosto ai loro stessi genitori che invece magari sapendo, le avrebbero aiutate e in alcuni casi salvate?

Leggetevi questo, commenti compresi e guardatevi queste foto.

Poi ditemi se stare a guardare è possibile.

Qui, il complesso sistema per individuarle.

7 novembre 2006

Passerà

Sono lì, da giorni.
Tutti disposti sul tavolino, uno accanto all’altro a far bella mostra.
Si, è perché manca la libreria, ma un po’ anche per star lì a far bella mostra.
Sono lì che mi guardano da giorni, uno accanto all’altro, un ordine cronologico casuale, che importa quale è nato prima e quale dopo?
Che per caso gli altri ricordano i consigli dei genitori in ordine cronologico?
Se ne sfoglia la fodera, come fosse una cipolla, e se ne conserva il nucleo.
Di quella volta là, quella volta che tuo padre si accorse che qualcosa dentro nasceva, per la prima volta soffrivi, per la prima volta decise di chiudere un occhio su quel ritardo non comunicato.
Ché gli uomini sono tutti tornati in ritardo, erano loro che facevano avanti indietro vai a prenderla accompagnala prendila portala aspettala devo essere a casa entro mezzanotte si va bene sarai a casa per mezzanotte anch’io dovrei solo che alle undici e cinquantanove siamo stati capaci di baci che valevano quel niente cavallo a dondolo il natale dopo e tutti i quest’anno cavallo a dondolo precedenti.

Noi si combatteva per il rapporto buono con la famiglia delle nostre donne, ma non tra noi e quella famiglia, ma tra la sua famiglia e lei, noi si arrivava in ritardo per non fare arrivare in ritardo lei, noi si veniva cazziati dai nostri perché non venisse cazziata lei dai suoi, chissà se l’avete mai capito, questo, quando ci dicevate che per ciò che si ama bisogna combattere, c’eravate mica, voi, quando noi stavamo in piedi in sala a mezzanotte e mezza a trovare motivi per non star lì a discutere che più si stava lì e più sfumava il profumo dalle mani che per tutto il viaggio in macchina avevamo protetto dai finestrini e dal fumo per poterlo portare a letto con noi, mentre voi da mezz’ora già dormivate coccolate da genitori orgogliosi di voi pronti al sorriso la mattina a colazione.
Bisogna combattere per ciò che si ama ti disse quella volta là tuo padre quando capì che tra tutte le sere quella era la più dura, la prima, stai sveglio mezz’ora in più, tanto non dormi lo stesso, ci vediamo domani.
Oh.
Ehi.
Ehi.
Passa, credimi.
Ricordati di spegnere la luce in cucina.
Dopo quindici anni di quella sera hai tolto lo strato sul quale avevi dipinto sua mamma e quella sua faccia “è arrivato” quando ti apriva la porta e finiva la frase di spalle ed era difficile comprendere due posizioni così opposte in una frase tanto breve eppure per te lo sforzo lo faceva ci teneva che la vedessi di spalle, ci teneva proprio, quelle poche volte che non apriva quando eri ancora giù per avere il tempo di tornare di corsa davanti alla tv e farsi trovare di spalle sul divano al tuo passaggio tra il fuori e quella stanza, hai tolto lo strato colorato del colore di quel maglione che non era tuo, che non era suo, che non era più tua.
Hai tolto i semafori rossi al ritorno, la musica a palla, la chiave non entra, è l’altra.
Hai tolto il suo nome, i pacchetti a natale, i biglietti d’amore scritti la sera prima di dormire da darle all’ingresso della scuola nel rito dello scambio con il suo da mettere nella smemo, smemorato hai tolto tutto, hai tenuto solo quel profumo sulle mani e tuo padre che ti dice passerà, era vero, quel profumo, era vero, sarebbe passata, questo conservi, sei cresciuto, quella sera in quella mezz’ora sveglio sei cresciuto con quel passerà.
Tu.
Io ho solo il profumo.
Quei libri sono lì, mi guardano e mi dicono ascoltaci, passerà.
Cosa? Chiedo loro.
Non lo sappiamo, qualsiasi cosa, scegli tu, passerà.
Io non lo so se è così, ma ho sempre pensato che chi traduce non su commissione, un po’ scriva.
Ché alla fine se sei tu a scegliere cosa tradurre, leggendo le tue traduzioni si possono leggere i tuoi pensieri, ciò che sognavi, quello che chiamavi bello, quello che ti emozionava, quello che volevi che gli altri sapessero, ascoltassero, imparassero.
Io così ho sempre letto i tuoi libri.
Con la curiosità di chi da ogni pagina ricava un pezzo di quell’anima che non ha mai visto la sera a dirgli che sarebbe passata, quando credevo che non sarebbe mai passata.
Oggi lo so, lo so per esperienza, me l’ha spiegato il tempo, le volte, non esiste un’ultima volta.
Oggi li leggo per conoscerti, per sapere cosa mi avresti detto se fossi stato lì quella sera.
Mi guardano dal tavolino, tutti lì disposti in modo che si vedano tutti senza che nessuno copra l’altro, una cornucopia tutta mia pronta a darmi tutti i perché, i quando, i cosa, i chi sei, i passerà.
Ne ho scelto uno subito, quello che aspettavo più di tutti.
Lo aspettavo perché è l’angolo più nascosto, più personale, quello che nemmeno se ci fossi stato avrei visto, quello intimo, quello animale, l’unico vero, l’unico utile per conoscere una persona, per conoscerla davvero.
È pieno zeppo di passerà.
Vigliacco, li avevi.

"Se nelle arti d’amore non hai talento,
Darai solo inutili dispiaceri.
Al buio la bellezza non si vede;
In battaglia non serve essere poeta.
Se non sai che dire vane parole,
Perché ti rechi a un incontro galante?
Se dalla natura vuoi uno strumento adatto all’amore,
Dovresti poter decidere tu le sue dimensioni.

I versi cinque e sei contengono un’espressione idiomatica che richiama un episodio dell’antichità cinese; abbiamo preferito tradurre solo il senso. L’episodio richiamato dice che il re Xiang salì sul monte Wu e a un certo punto si stancò e si addormentò. A un tratto gli apparve una fata e gli disse che era la signora del monte Wu. Si coricò con lui e al momento di andare via gli disse: “All’alba regno sulle nuvole del mattino, a sera chiamo la pioggia”. Per questo in cinese si usa anche Yum Yu, “nuvole e pioggia”, come eufemismo per indicare i rapporti sessuali."

Li Yu - Il tappeto da preghiera di carne. Racconto erotico cinese d'epoca Qing
A cura di Edi Bozza
Oscar Mondadori

27 ottobre 2006

Mike

Sono giorni che penso alle parole da usare, senza arrivarne mai a capo.

Sarà la primavera, sarà quest’aria tenera che mi aleggia intorno da un po’ di giorni a questa parte, sarà quella sensazione così nuova per me, sempre più presente, che mi fa propendere sempre più spesso per la conservazione delle cose importanti in cassetti il cui accesso è condizionato da dettagli insignificanti quali la vicinanza, la voce, il tocco delle mani.

C’è che le parole che vorrei non mi escono.
Non mi escono qui.

Ci sono vicende per raccontare le quali è sufficiente la memoria, unita a due cucchiaini di capacità di romanzare e mezza bustina di sentimento, agitare, versare, bere, ruttare.
Più facile di quanto appaia a chi beve il prodotto finito e s’immagina chissà quale lavoro dietro.
Ci sono invece vicende che richiedono più applicazione, più impegno, in qualche modo più cautela e spesso a sentire la necessità di questo maggiore impegno sono quelle vicende che non sono vicende ma persone.
La differenza tra vicende facili da tradurre e persone difficili da raccontare, mi sono reso conto, è il tempo, il tempo di reazione.

Il tempo di reazione è quello che differenzia le emozioni provate da quelle generate.
Quando qualcosa mi emoziona, quello che passa nella prima frazione di secondo attraverso le mie vene è l’emozione provata e tutto quello che esce in quel momento è il racconto di quell’emozione, reale, immediato, pulsante.
Quando quel qualcosa lo racconto, il tempo delle vene è trascorso, le parole hanno avuto il tempo di decantare e questo le rende a volte migliori, ma non reali.

Questa consapevolezza mi porta a vedere sempre come un momento sprecato il mio non poter comunicare a caldo le cose emozionanti quando mi capitano e a considerare spesso il racconto successivo come un qualcosa di tradotto, di ricolorato, di falsato.
È un peccato, perché le parole migliori sono quelle che mi escono nel primo secondo, quando sono le vene a parlare e non la memoria di due giorni, tre, una settimana dopo.
Dentro quei cassettini sono custodite tutta una serie di cose che non sono state raccontate nel primo secondo e che per questo rimarranno lì per sempre e anche quando qualcuna di loro verrà presa e esposta, sarà sempre un’esposizione che ne mostrerà solo ciò che si può vedere ma non ciò che si è sentito nel momento in cui ho deciso di metterla nel cassetto.

Per questo motivo ultimamente molte delle cose che vorrei dire non le dico.
Non è riservatezza, non è timore né incapacità di raccontarla.
Semplicemente mi rendo conto che certe cose, quando provo a tirarle fuori dal cassetto per raccontarle, non sono belle come quando ci sono entrate, perché il tempo trascorso ha tolto alle parole l’immediatezza del sangue che cambia velocità.
E non si scappa, tolto quello tolto il novanta per cento della loro bellezza.
E per questo me le tengo.
Mi dico che sarebbero solo traduzioni per un pubblico che comunque non potrà sentire quello che vorrei e per una strana forma di protezione da questa specie di banalizzazione, le rimetto al loro posto e le lascio lì, per me.
E per chi c’era nel primo secondo.

Sono giorni che vorrei dire grazie a una persona.
Ma questa persona, per colpa del mio esser stato colto di sorpresa, non si è trovata dove meritava di trovarsi, lì accanto a me nel primo secondo dell’emozione.
Lo stupore mi ha lasciato incapace di fare quello che avrei dovuto fare e cioè scoprire subito cosa conteneva quella scatola.
Non capivo, non ero preparato e per questo ho atteso.

Se dicessi oggi, a distanza di una settimana, quello che è passato nelle mie vene nel momento in cui ho aperto la scatola, non uscirebbe nemmeno una goccia di quell’emozione provata in quel primo secondo.
Uscirebbe una cronaca fatta per il grande pubblico di un istante che è stato un istante e che per questo non può che essere irripetibile e di conseguenza irriferibile.
Per dirgli grazie dovrei parlare con le parole di quel primo secondo ma per parlare con quelle parole dovrei poter tornare a quel primo secondo.
Quando ho aperto la scatola ho parlato ininterrottamente per un’ora.
Se l’è sorbito un’altra persona, il mio grazie detto ad alta voce.
Si trovava lì ed è toccato a lui ascoltarsi quello che avrebbe voluto essere questo post e che invece non sarà.

Allora io stasera ho deciso di smetterla di cercare le parole per raccontare chi è la persona che mi ha dato quella scatola e cosa mi ha fatto provare con quel gesto e ho deciso di non star più lì a cercare le parole giuste perché se lo facessi nonostante non le ho, sarebbe solo per voi e non per me né per lui.
Per me perché io quello che ho provato ce l’ho dentro.
Per lui perché le parole per lui possono essere quelle e solo quelle del primo istante.
Smetto quindi di cercare un modo per dirgli grazie qui, consapevole che un grazie non è tale solo se detto qui, ma è un grazie se è sentito dentro come tale, senza bisogno di raccontarlo.
E gli prometto, mi prometto, che d’ora in avanti tra gli obiettivi della mia vita ci sarà sempre la speranza di riuscire a regalare a lui un primo istante come quello che ha regalato lui a me.
E se non dovessi riuscirci sarò comunque contento per il piacere dell’essermi dato preso questo impegno.
Ché a volte per star bene non è necessario farle, le cose, ma basta anche solo averle dentro come valore, come speranza, come sogno.
E io come sogno, sogno di fargli provare anche una sola volta quello che lui ha fatto provare a me.
Meno di quello, non sarebbe un grazie.

A voi trasferisco solo la pura cronaca, tanto il resto non uscirebbe come è dentro, e la trasferisco perché lo devo a tutti quelli che hanno anche solo per un istante partecipato a questa mia cosa, per me così importante.
La settimana scorsa un amico ha aperto il baule della macchina e ne ha tirato fuori una scatola per me.
Non c’era ricorrenza, non c’era festa.
Ho pensato fosse qualcosa per la casa e per questo mi sono lasciato andare al piacere della “scatola”, contento del gesto indipendentemente da cosa contenesse.
Per questo ho commesso l’imperdonabile errore di aprirla solo quando a mia volta salito in macchina.
Non potevo sapere, non potevo immaginare, non credevo possibile che potesse contenere tutti i libri di mio padre.
Tutti.
Tranne uno, vabbè, ma quell’uno ce l’avevo, diciamo tutti quelli che mi mancavano.
Usciti tutti insieme dallo stesso posto nel quale non si trovavano in vendita, dettaglio tutt’altro che insignificante, poiché significa che per farli uscire ha dovuto fare una cosa davvero grande.
E l’ha fatta per me.

Grazie Mike.
Poche volte mi sono sentito tanto in debito.
Poche volte mi sono sentito tanto felice.
La traduzione in parole, purtroppo, è stata roba dei minuti successivi che non sono in grado di replicare.

La ricerca è completa.

Il mio grazie è altrettanto grande per tutti quelli che mi hanno aiutato, che mi hanno fatto avere copie dei libri, che me li hanno anche solo fotocopiati, che li hanno trovati ma che ancora li conservano per quando ci vedremo come ci siamo promessi e come voglio ancora fare, che ancora ne troveranno e che sarò ancora felice di ricevere, perché più ce ne sono in giro e più ne voglio io.
Ognuna di quelle copie ha in sé una persona, una storia, un gesto che è stato, che sarà e che rimarrà sempre una delle cose più belle che la gente abbia fatto per me.
Vorrei poter raccontare il primo istante di ogni libro che ho ricevuto, ma non ne sono capace.
Quindi mi limito a chiedervi di immaginare, per quanto possibile, cosa possa significare esser riuscito a veder concludersi questa ricerca.
No, lo so, non si può.
È roba di istanti irraccontabili.
Sentirsi in debito è una delle sensazioni più belle che esistano.
Perché significa essere costantemente consapevoli di aver ricevuto.
Di aver ricevuto proprio tanto.
Per molti questo è poco più di qualche pixel e una scatola di plastica.
Per me è un posto dove le cose che si desiderano possono accadere davvero.
Dove se chiedo di guardare un serpente dal cielo poi lo vedo.
Dove se voglio essere più vicino a mio padre basta che lo chieda e la magia avviene.
Si può realizzare tutto.
E non è un romanzo, accade davvero.
Siete dieci e siete davvero tutti speciali.

Grazie, uno per uno.

20 ottobre 2006

Fiu-Me

The Big T(h)ree.
Il seguito del post più lungo della storia.

Ovvero: come metterci tre settimane per raccontare una storia durata una settimana.
Il post, appunto, è più lungo della storia che racconta.

Parte 3.
Dalle un dito, attendi che si prenda il braccio e sii spalla su cui ridere se vuoi che prosegua a salire.


Ti lascio questo, io parto.
Sul mio tappeto volante sempre più lontano sempre più su, lassù dove poter dire a tutti di guardare fuori dall’oblò mentre dirò loro “Guardate laggiù, io la conosco” e loro vedranno intere città, fiumi come serpenti, montagne grandi come le cunette di sabbia in spiaggia quando avevamo cinque anni e bastava un dito per percorrere un intero mondo e gli unici visi che si inseguivano erano dentro le biglie spinte da quelle stesse dita che erano gambe capaci di percorrere qualsiasi distanza, vedranno file di luci e tavolozze di colori sui quali crescono alberi e mi chiederanno “Chi conosci? Chi stiamo guardando?” e io dirò loro che stanno vedendo te, che possono farlo perché saremo lassù, più su dei tre metri del muro di questa stanza e della tua stanza e di tutte le stanze che ci sono in mezzo e che finché staremo qui giù a meno di tre metri ci obbligheranno sempre a vederci raggiungibili solo scavalcandoli, lassù no, lassù si può perché nessun muro è così alto e chiunque di loro guarderà fuori vedrà te perché non ci sono muri in mezzo e non importa se tu starai guardando su io starò guardando giù e ti vedrò, di nuovo.

Fiu-Me, si chiamava la fanciulla che ogni giorno alle prime luci dell’alba si recava sulle sponde del corso d’acqua che dritto come una lancia attraversava la regione che abitava, proprietà di un ricco signore di nome Son-Miei che possedeva tutte le terre tutti i monti tutte le città, un tiranno convinto che il potere sulle terre lo rendesse padrone delle vite degli abitanti e tra esse, di quella di Fiu-Me, la fanciulla che amò dal primo giorno che la vide ma che fu incapace di rendere felice e portare a sé nonostante i doni che ogni giorno le faceva arrivare.
Gli abitanti soffrivano la fame, lavoravano ed erano costretti a cedere ogni frutto del loro lavoro ai soldati che puntualmente passavano inesorabili a raccogliere tutto ciò che il tiranno pretendeva per sé, frutti e fiori dai quali ogni giorno prendeva quella parte che faceva poi inviare a Fiu-Me per convincerla a sposarlo.
I soldati ogni giorno tornavano indietro dal tiranno riportandogli il cesto con i doni, riferendo che Fiu-Me non si trovava mai nella sua capanna e che nessuno sapeva dove fosse ogni giorno quando loro passavano.
I confini delle terre del tiranno erano estesi ma la notizia dell’esistenza di quella bellissima fanciulla ci mise poco a raggiungere il paese accanto, regnato da Ta-Mai, un giovane divenuto guida del paese quando Fio-Re, sovrano e suo amato padre, rimase vittima di un agguato ai tempi della battaglia scatenata da Son-Miei per il controllo del mercato delle pere, il quale inviò due suoi soldati per eliminare il vicino sovrano, incapace di difendersi poiché avendo regnato in pace, non sentì mai la necessità di dotarsi di un esercito.
Ta-Mai apprese dell’esistenza di questa fanciulla attraverso i racconti dei mercanti che sostavano nelle locande del suo paese durante i viaggi che li portavano ad attraversare ogni terra e per questo veri tenutari della geografia e della storia dei paesi.
Narravano, i mercanti, di questa fanciulla dalla bellezza rara che vedevano sulle sponde del corso d’acqua lungo il quale sostavano per abbeverare i loro cavalli quando attraversavano il paese di Son-Miei.
Aveva lunghi capelli e movimenti soavi, mani delicate e occhi sinceri, ma di più non sapevano, poiché non si lasciava avvicinare se non dalle acque nelle quali si specchiava.
Ta-Mai non riuscì più a pensare ad altro che a lei, voleva incontrarla, desiderava offrirle il suo regno in cambio del suo solo riflesso nelle acque del suo paese, ma non poteva oltrepassare il confine perché sapeva che avrebbe subìto la stessa sorte del padre, avendo anche lui deciso di non dotarsi di un esercito.
Andò a chiedere consiglio a Co-Sì, il vecchio saggio del paese, sua unica guida e per questo da lui protetto da tutto e da tutti, nascondendolo all’esercito di Son-Miei sul monte più alto della sua terra, per avere sempre una guida alla quale domandare consiglio quando la sua giovane età e l’assenza di un genitore non gli consentiva di sapere quale fosse la strada giusta da seguire.
Co-Sì, dopo aver ascoltato il problema che affliggeva il giovane Ta-Mai, osservò le aquile e le nubi, lesse il legno e il fuoco e disse:
“Nei poteri dell’uomo non troverai soluzione ma causa, è nella natura la risposta. Le tue sole braccia non sono lunghe da attraversare il confine e il tuo popolo non ha lance lunghe da proteggerti se lo oltrepasserai. Non il tuo essere uomo, potrà raggiungerla, ma il tuo essere natura. Affida i tuoi messaggi alla corrente e lascia che sia lei a portarli alla fanciulla. Nessun esercito può fermare la forza dell’acqua”
Ta-Mai tornò a palazzo e chiese, non ordinava Ta-Mai, ai suoi sudditi di raccogliere ogni giorno un fiore ciascuno, solo uno per dar loro modo di ricrescere perché la bellezza della sua terra era il suo primo pensiero, di recarsi sulle sponde del corso d’acqua e di appoggiarlo sulla sua superficie perché potesse partire per la terra accanto e giungere a Fiu-Me, che specchiandosi nell’acqua avrebbe da quel giorno visto il suo viso circondarsi di fiori e l’aria intorno a sé profumarsi.
Così fecero e improvvisamente Fiu-Me cominciò a vedere il suo riflesso circondarsi di fiori e si trovò talmente bella che non fece più ritorno a casa.
Passava il suo tempo lungo le sponde del corso d’acqua, rapita da questo passaggio di fiori e invasa dal bisogno di scoprire da dove provenissero.
Iniziò così a incamminarsi seguendo il dritto corso d’acqua, convinta che se avesse ripercorso il cammino dei fiori a ritroso, sarebbe giunta là dove nascevano.
Son-Miei,nel frattempo, sempre più iracondo per il suo essere incapace di farle giungere i suoi doni, decise di raggiungere il vecchio mago della sua terra, un anziano dotato di poteri magici che teneva imprigionato in una torre costruita sul monte più alto della sua regione fin dal giorno che invase la regione con il suo esercito, impossessandosene e rendendo schiava l’intera popolazione di contadini che non seppero opporsi, mago che costringeva a esaudire le sue richieste minacciando di uccidere un contadino per ogni ordine di incantesimo da lui impartito e dal mago non eseguito.
“Cosa vuoi oggi?”
“Ti ho detto di chiamarmi Mio Signore o farò uccidere un contadino”
“Cosa vuoi oggi mio signore?”
“Voglio una fanciulla!”
“Ne hai quante ne vuoi mio signore, manda il tuo esercito a prenderla come fai sempre”
“Il mio esercito non la trova!”
“Sei padrone di tutto ciò che esiste, se una cosa non la trovi forse è perché non c’è, mio signore”
“Io so che c’è! L’ho vista!”
“Allora perché non l’hai presa mio signore?”
“Mago non abusare della mia pazienza, io ti ordino risposte, non domande! Non mi costringere a uccidere un contadino!”
“Allora ordinami ciò che vuoi mio signore, la tua saggezza saprà guidare i miei poteri”
“Voglio farmi Fiu-Me!”
Il mago, guidato dall’esperienza dei suoi anni, scorse in quell’ordine la fine della tirannia alla quale fu costretto il suo popolo e senza attendere un solo istante fece uscire dal suo cuore un fascio di luce che colpì il tiranno e lo trasformò in un corso d’acqua.
Imprigionato in quella nuova forma, il tiranno cominciò a urlare e a cercare di divincolarsi, ordinando al mago di riportarlo alla sua forma originaria.
Il mago rispose che fu lui a dare quell’ordine e solo alla sua ignoranza poteva attribuire quella trasformazione, che non era più costretto a eseguire alcun ordine poiché l’ultimo impartito gli aveva tolto la sua forma e quindi i suoi poteri di tiranno.
Improvvisamente i contadini cominciarono a sentire urla e rumori d’acqua scatenata giungere dalle rive del fiume e corsero tutti a vedere cosa stesse succedendo.
Giunti nei pressi del corso d’acqua videro le sue sponde un tempo dritte come una lancia agitarsi come un serpente e le sue acque cercare di uscire dagli argini.
Tutto ciò che si trovava nel fiume veniva scagliato tutt’intorno dalla forza del tiranno che cercava di divincolarsi da quella prigione alla quale si era ingenuamente costretto.
Quello che un tempo era un corso d’acqua dritto come una lancia era adesso un serpente agitato e tutti i fiori che vi scorrevano dentro da giorni erano ora scagliati lungo le sue sponde.
I contadini udirono i lamenti del tiranno e vedendo tornare il mago finalmente libero capirono cosa successe e cominciarono a festeggiare, saltando di gioia lungo gli argini e ballando sul tappeto di fiori che si era formato tutt’intorno al fiume, fiori che finalmente ritornarono in quelle terre dopo che le leggi del tiranno che li avevano condannati ad essere sempre tutti consegnati a lui per essere utilizzati per abbellire il solo suo palazzo, avevano tolto ai contadini anche i pochi semi che servivano per farli crescere.
Nel frattempo Fiu-Me, incamminatasi per seguire a ritroso i fiori, aveva raggiunto le terre di Ta-Mai e lì aveva scoperto una terra nella quale i contadini erano felici e i fiori crescevano ovunque, una terra della quale ignorava l’esistenza per il solo fatto che il vecchio tiranno aveva detto a tutti di essere lui e solo lui il padrone di tutte le terre confinanti per toglier loro la voglia di fuggire.
Si incontrarono, Ta-Mai e Fiu-me, e lei rimase così colpita dalla serenità di quella terra da chiedergli di seguirla per liberare il suo popolo e regnarlo con le stesse leggi.
Lui fu così affascinato da lei da decidere di chiedere ai suoi cittadini di seguirlo per ridare serenità al popolo di Fiu-Mei.
I cittadini, conoscendo il loro sovrano, capirono che era il cuore che lo guidava e decisero di seguirlo.
Ma quando oltrepassarono il confine pronti alla battaglia, scoprirono un paese in festa, fiori ovunque, musica e balli e a quella festa si unirono.
Il mago, riconosciuto il giovane Ta-Mai che dall’alto della sua torre, unico punto dal quale si poteva vedere oltre i confini, aveva da sempre visto governare nel giusto e nella lealtà, gli chiese di divenire sovrano di quella liberata terra, spiegando ai suoi finalmente festanti cittadini che quel giovane avrebbe saputo farli vivere senza tirannia e senza paura.
I cittadini, memori della saggezza del mago, cancellarono i confini e accolsero il loro nuovo sovrano con tutta la gioia della quale erano ritornati capaci.
Fu così che Ta-Mai, senza mai imbracciare un arma, si ritrovò ad essere sovrano di una terra grande quanto non immaginava, soltanto grazie alla sua natura e sposò Fiu-Me facendo una festa alla quale parteciparono i cittadini di tutte le regioni confinanti.
Regioni attraversate da quel tiranno che condannato a cercare di divincolarsi per l’eternità, continuò a spargere acqua e fiori lungo le sue sponde, regalando suo malgrado ai contadini liberi fertilità e ricchezza.
Ancora oggi, l’anniversario del giorno del matrimonio del sovrano Ta-Mai e della regina Fiu-Me viene festeggiato da tutti i cittadini che, recandosi sul monte più alto dove fu per anni tenuto prigioniero il mago, guardano per un giorno intero l’intera regione senza confini e senza muri, monte dal quale riescono a vedere il vecchio fiume una volta dritto, divincolarsi come un serpente circondato da quelle distese di alberi e di fiori che la sua stessa tirannìa regalò a tutti.


“Signore…Signore, mi scusi…dovrebbe tirar su lo schienale e chiudere il tavolinetto, stiamo atterrando”
“Ah…si…scusi…mi ero addormentato guardando fuori. Mi scusi…lei che sicuramente conosce la rotta…sa mica che fiume è quello?”
“Quale fiume, signore? Siamo sopra la città, stiamo atterrando”
“Si, scusi…niente, forse ha ragione il mago, c’è solo quello che si vede”
“Quale mago, signore? Sta bene? Vuole un po’ d’acqua?”
“No no, tutto bene. Sono solo un po’ intontito dal sonno. Accidenti com’è bella, signorina. Le interesserebbe un lavoro nel settore del commercio delle pere?”

5 ottobre 2006

A beautiful mind

Fase Uno:

Prendete un foglio di carta a quadretti e disegnate un punto al centro che da questo momento in poi chiameremo Punto P.

Col Punto P raffigurerete un problema a vostra scelta tra quelli dei quali vi state occupando o che vi occupano loro, è uguale, insomma, un vostro problema, se scegliete IL vostro problema il risultato di questo schema testè prodotto dal Brunetto vostro sarà più realistico.

Nell’area circostante il Punto P posizionate un numero di punti equivalente al numero delle persone coinvolte, per scelta o vostro malgrado, insieme a voi nel problema di cui al Punto P.

Contrassegnate ogni Punto con una lettera a vostra scelta.
Da questo momento in poi, i suddetti Punti verranno denominati Punto Lettera.

La distanza di ogni Punto Lettera dal Punto P potrà essere casuale, poiché la reale distanza di ognuno di essi dal Punto P è calcolato in base a variabili non definibili in maniera stabile.
Oggi piove, domani vi amate, dopodomani c'è sciopero dei bus, vai a sapere.

Intorno a ogni Punto Lettera disegnate una circonferenza il cui raggio dovrà essere proporzionale alle cose che con ogni Punto Lettera avete in comune, utilizzando come unità di misura un quadretto per ogni cosa in comune.

Laddove le circonferenze si andranno a intersecare, riempite l’area in comune con un tratteggio conposto da segmenti paralleli inclinati di 45° che differenzi visivamente gli spazi da tali intersezioni creati, dal resto delle aree delle circonferenze disegnate intorno ai restanti Punto Lettera nonché da quelle appartenenti ai Punto Lettera che tra loro si intersecano ma che occupano spazi indipendenti.

A questo punto prendete in esame ogni circonferenza creata intorno ai Punto Lettera, colorando di inchiostro pieno un quadretto all’interno di ciascuna di esse, per ogni sospeso non risolto che avete con la persona rappresentata dal Punto Lettera in esame e che avete avuto modo di ascoltare nei confronti avvenuti con tale persona in un arco di tempo che non dovrà superare i sei mesi a ritroso, di più non serve.

Non è richiesta attenzione all’occupazione di aree precedentemente tratteggiate, laddove servono quadretti da riempire, vengano riempiti anche coprendo precedenti tratteggi.

Si passi ora alla Fase Due, la conta dei quadretti:

Su un altro foglio a quadretti tracciate una linea verticale che crei due colonne, la prima delle quali verrà intitolata “i quadretti tratteggiati”, la seconda delle quali “i quadretti di inchiostro pieno”.

Ora individuate il primo quadretto tratteggiato creatosi nello schema di cui alla fase Uno e tratteggiatene uno conseguente nella colonna denominata “I quadretti tratteggiati”, poi individuate il successivo e sotto il primo inserito nella colonna di cui sopra tratteggiatene un altro.

Procedete in questa maniera creando sotto il titolo “I quadretti tratteggiati” una colonna di quadretti tratteggiati composta da un numero di quadretti equivalente a quelli tratteggiati nel disegno di cui alla Fase Uno, sommando naturalmente quelli di tutte le circonferenze.

Con la stessa modalità, affrontate ora i quadretti pieni, creando una relativa colonna sotto il titolo “i quadretti di inchiostro pieno” composta da un numero di quadretti equivalente al numero di quadretti pieni che avrete creato nel disegno di cui alla Fase Uno.

A questo punto avrete creato due colonne parallele con direzione discendente, il cui ultimo quadretto di ciascuna di esse verrà a trovarsi ad un’altezza equivalente, superiore o inferiore all’ultimo quadretto della colonna accanto.
Calcolate ora la differenza, in quadretti, data dal totale dei quadretti della colonna più lunga meno il totale di quelli della colonna più corta.
Avrete così ottenuto un numero di quadretti che denominerete Fattore F.

Ora riprendete in mano il disegno di cui alla Fase Uno e disegnate intorno al Punto P dal quale avete originato lo schema una circonferenza il cui raggio, in quadretti, dovrà equivalere al Fattore F.

Contate ora, facendone la percentuale, quante circonferenze, tra quelle disegnate intorno ai Punto Lettera e precedentemente posizionate a distanze casuali dal Punto P, si intersecano con quest’ultima circonferenza avente come raggio il Fattore F e centro il Punto P.

Andiamo ora a esporre i risultati:

Dal 100 al 81%: Avete disegnato una famiglia
Dal 80 al 66%: Avete disegnato una compagnia di amici.
Dal 65 al 31%: Avete disegnato un gruppo di auto-aiuto
Dal 30 allo 0%: Avete disegnato un patto di non belligeranza.

Cristo.

e tanti auguri al Punto P.

1 ottobre 2006

A Parigi

La polizia gira sui roller
Le donne hanno tutte un dettaglio personale che le rende belle ma davvero belle.
Non ci sono cestini ma nemmeno rifiuti per terra, boh.
Puoi sdraiarti sulle aiuole che sono lo stesso perfette quanto un campo da golf al contrario delle nostre sulle quali non puoi sdraiarti e nonostante questo fanno schifo, boh.
L’acqua naturale costa più delle ostriche.
Gli uomini hanno tutti la faccia da ricco imbecille e, se giovani, da figlio imbecille di ricco e per questo ho un paio di amiche alle quali suggerire un viaggio da quelle parti che l’uomo che rispecchia i loro canoni lo trovano di sicuro (si, dico a te, “un paio” l’ho scritto solo per non far capire che parlavo solo di una che non mi sembrava carino però ogni volta che ne vedevo uno pensavo che tu lì ti ci troveresti proprio bene che c’hanno tutti la faccia da ricco imbecille che hanno tutti i tuoi fidanzati, il particolare al quale dovresti prestare attenzione è che ti ho pensata).
Data l’alta concentrazione di ricchi imbecilli, in metrò i cellulari prendono.
La carne al fast food libanese è davvero buona e i muffin che trovi ovunque sono giganti.
I palazzi sono bellissimi anche fuori dal centro.
Se non parli il francese ti puoi attaccare al cazzo perché appena capiscono che sei italiano non fanno un passo per darti una mano e anche quelli che parlano inglese ti si rivolgono comunque in francese, parlato veloce e con fare da stronzo, lo sport nazionale è mettere in difficoltà gli italiani.
Le donne vestono ancora quei meravigliosi vestiti con la gonna larga sotto il ginocchio e il nastro in vita e si pettinano ancora i capelli in modo che prima di cadere sulle spalle facciano un giro all’insù e quando le vedi passare per strada vedi la stessa eleganza di Haudrey Hepbourn.
Nei giardini vedi bambini di almeno trenta paesi diversi e i tavoli da ping pong fissi senza nemmeno un graffio sopra.
Ho visto una delle più belle magliette che mi sia mai capitato di vedere, nera con su la semplice ma splendida scritta molto meno banale di quanto appaia "Wish you were Beer".
Ho lavorato, tra gli altri posti, nei sotterranei del Louvre ma solo di giorno quindi niente fantasma, però un fascino particolare ritrovabile in davvero pochi altri posti nel mondo.
Ci sono più passeggini doppi che singoli.
Ci sono circa due brasserie per ogni turista.
Ci sono stato un sacco di volte ma ogni volta, nonostante i francesi, è una sorpresa tanto è bella.
Ci sei stata anche tu.
Non eri a plas de la concòrd, non eri sotto la tùr eifèl, non eri lungo gli scians elisè, eri qui dove sto indicando adesso cioè non adesso che non posso perché sto scrivendo aspetta che mi fermo ecco fatto indicato visto?
Esatto.
Eh lo so.
Non è colpa mia se esattamente alla stessa distanza da cuore e pisello c’è lo stomaco.
Io ti sposterei anche più verso uno dei due, ma purtroppissimo la cosa mi è resa impossibile dal fatto che contemporaneamente ti vedrei allontanarti dall’altro e sarebbe un vero peccato in entrambi i casi quindi non rompere i coglioni beccati lo stomaco siediti dentro e fatti portare ovunque vada nel mondo.

23 settembre 2006

The Big Two

Il seguito del post più lungo della storia.
(ovvero: come metterci tre settimane per raccontare una storia durata una settimana.
Il post, appunto, è più lungo della storia che racconta)


Parte 2.

Sul mare non c’era nessuno.
Quando sono partito, temevo che la mancanza di spazi miei, momenti miei, tempi miei, si sarebbe fatta sentire dopo pochi giorni.
Non è facile, quando si è abituati a vivere soli da anni, la condivisione di spazi con altre persone, per più di un numero di giorni difficilmente quantificabile, ma comunque basso.
Ma sul mare non c’era nessuno, in quei giorni.
E io così avevo tutto il tempo per i miei discorsi.
Io mi faccio i discorsi, da quando sono piccolo.
Come fossero prove teatrali, intendo.
Io non penso e basta, io rappresento.
Come quella storia che i bloggers pensano sotto forma di post, io penso sotto forma di sequenza cinematografica; sarà il lavoro, sarà un bisogno, boh.
Preparo la location, vesto il mio interlocutore, scelgo il tempo, la durata (no, quella no, mi faccio sempre prendere la mano) e insceno il pensiero come fosse un primo ciak.
Se per caso il dialogo non mi è piaciuto lo rifaccio da capo.
Faccio ripetere al mio interlocutore le cose che mi ha detto e rispondo in maniera diversa o magari nella stessa ma cambiando tono.
Forse ha anche un nome, questa cosa, chissà.
Qualcuno di sicuro ci vedrebbe dentro una patologia, io ci vedo dentro la stessa fantasia che si mette quando nei lunghi viaggi in macchina, in treno, quando non ti interessa quanto manca e hai un vetro davanti, ti avvicini e lo appanni col fiato per disegnargli sopra con il dito la sagoma di chissà cosa, quasi sempre un cerchio, un coniglio, un fiore, una nuvola, sagome senza senso apparente ma chissà perché sempre senza angoli, per cancellarle col palmo quando non soddisfatto della linea tracciata e risoffiare sul vetro e ridisegnare ancora e ancora cancellare e ancora passare il dito a tracciare linee che mettono quel qualcosa tra te e quel che c’è di fronte solo per vedere l’effetto che fa un cerchio, un fiore, una nuvola, su ciò che nemmeno fai in tempo a cercare di migliorare che già è passato oltre, ma tu sei sempre lì, a disegnare linee, il tuo dito il pennello, un qualsiasi vetro il cavalletto, il tuo respiro la tela.

Sul mare non c’era nessuno.
Quando penso sto attento anche al tono che uso, se mi arrabbio provo le diverse versioni, quella dello sfogo, quella della comprensione, quella del menfreghismo, ogni possibile variante è un momento dei miei pensieri e per ognuna di esse io ripeto la scena.
Quando nella realtà una situazione non è andata come avrei voluto o come penso sarebbe dovuta andare, la rimetto in scena nei miei pensieri e provo le possibili diverse reazioni, per capire se, dove, perché ho sbagliato o come, dove e con che parole avrei potuto migliorarla.
Recitando io tutti i ruoli, il rischio di far parlare il mio interlocutore come io avrei voluto è sempre alto, ma col tempo ho imparato che pensare in maniera cinematografica non serve, se cambi il tuo interlocutore a tuo piacimento, diventa solo un puro esercizio fine a se stesso, tanto per darsi sempre ragione.

Sul mare non c’era nessuno.
È invece un esercizio insostituibile se lo fai come se fosse una macchina per cloni, perché per riprovare le varie scene dovresti avere l’interlocutore sempre presente a tua disposizione disposto a ripetere per dieci, cento, mille volte la stessa frase solo per farti da sparring partner e non lo puoi avere, quindi lo replichi nella mente, ma lo devi replicare per come è lui nella realtà, con i suoi esatti modi, le sue esatte reazioni, i suoi stessi pensieri e modi di esporli.
Per farlo devi diventare bravissimo a leggere le persone perché poi quando te le porti a casa nella tua mente, devi essere in grado di farle parlare come parlerebbero loro, altrimenti i dialoghi che proverai saranno falsati e i ciak inproduttivi e infiniti e le scene diventeranno finte e te ne accorgerai e dopo un po’ ti annoierai perché sentirai che non son realistiche e tu non vuoi darti ragione, vuoi avere solo un’altra occasione, anche per sbagliare, ché ci sono modi diversi per sbagliare, ce ne sono di gravi e ce ne sono di lievi ma difficilmente si ha la possibilità di viverne un secondo quando se n’è vissuto un primo, qualsiasi, ed è un peccato perché non è che gli sbagli sono tutti da ergastolo, a volte lo sono solo per una non corretta scelta dei tempi e dei dialoghi, mica perché non si era in grado di sbagliare un po’ meno.

Sul mare non c’era nessuno.
Non mi sono sentito stretto, quest’estate al mare, perché non c’era nessuno sul mare e io potevo passare ore a provare le mie situazioni.
Quando vengono bene vado avanti nella sceneggiatura.
Se desidero tanto stare a tavola con qualcuno, ma per motivi non dipendenti da me non lo posso fare, mi invento la scena e me la vivo.
Mi creo la situazione come la vorrei, luogo e tempo e comincio la mia rappresentazione.
Anche per ore, nella mia mente, faccio accadere le situazioni.
Non flash, proprio situazioni come fossero film, anche come durata.
Così passo intere giornate con qualcuno, senza che questo qualcuno lo sappia, esco a cena con persone che non possono esserci, vado al cinema, tutto quello che non posso avere io me lo invento e lo rendo reale perché lo vivo come reale.
Mio padre non è morto, per esempio.

Leggevo il libro con le cuffie nelle orecchie, nessuno intorno, la spiaggia deserta per ore, per giorni, nemmeno un culo da guardare, un costume da immaginare tolto, uno straccio di tetta al vento, un cazzo, niente, io il mare il libro la musica e il nulla.
Il nulla?
Rifaccio.

Esterno giorno.
Campo largo: io il libro il mare la musica e nessuno intorno.
E allora cosa non va?
Perché non sei nel libro, Bruno?
La musica.
Ho capito dopo, era la musica.
Parlavano.
Mio padre non è morto.
Era una canzone e c’era il cantante che cantava.
Ma ti pare che ho tempo per ascoltarti?
Ma non lo vedi che sto leggendo?
Torno nel libro.
Chiudo il libro.
Cambio canzone, chissà che non ce ne sia una adatta.
Chi è quell’uomo sul mare?
Non c’è nessuno.
Come no, guarda bene.
Ah cazzo è vero.
Ma questa musica non è adatta, ci vuole qualcosa di adatto alla scena.
Tipo qualcosa che sia solo musica senza parole così le parole ce le metti tu che la scena la stai disegnando tu e tu fai video vuoi vedere che non ci metti sotto la musica giusta.

Ma dicevo, il mare.
Io poi un giorno parlerò di questo libro qui, no, non è un link, non c’è un link, ho detto un giorno e questo non è un giorno.
Guardo il mare.
A che serve comprarsi mille mila giga di spazio musica se poi non si ha tempo voglia capacità di trovare la musica giusta per ogni scena alla quale si assiste con le cuffie in testa?
Ecco, i lettori da mille mila giga, ho scoperto, sono stati inventati per quelli come me che quando vedono una cosa sul mare, vuoi per deformazione professionale, vuoi perché amano commuoversi, vuoi perché sono teste di cazzo, chiudono il libro e cominciano a guarare l’archivio musicale per trovare quella giusta.
Sia mai che una sequenza, nella mente, non riesca come sai che potrebbe.
Ah, cazzo di mestiere che faccio.
A furia di far sognare gli altri, vaffanculo, si rimane prigionieri della soglia minima.
La conoscete voi la soglia minima?
No?
La soglia minima è quella che una volta conosciuta indica i punti di partenza.
Le avete mai fatte alzare in piedi a ballare, voi, cinquemila persone?
No?
Ah, piccoli uomini.
Perché non mi drogo pesante, io?
Perché ho fatto alzare e ballare cinquemila persone.
L’amigdala (o quella roba lì) ringrazia.
Prego.
Mio padre non è morto.
La soglia minima per me è cinquemila.
O io moltiplicato cinquemila.
Cinquemila lire, cinquemila baci, cinquemila sogni, cinquemila volte tu.
Mi chiedevo che musica mettere, quando, preso dalla sindrome da eccesso di canzoni disponibili (quella che ne hai cinquemila e finisci con l’ascoltare sempre le stesse tre), improvvisamente mi è venuto in mente un bel gioco.
Il gioco dei titoli.

Nei lettori da mille mila giga si può fare il gioco dei titoli perché ci sono così tante canzoni che alcune non le hai mai ascoltate.
Come quando una volta partivi per le ferie con la cassettina colle canzoni che avresti ascoltato, in tutto venti, lo so l’ho già scritta ‘sta cosa non cagate il cazzo, solo che oggi ne metti cinquemila, di canzoni, prima di partire, molte delle quali non le hai mai sentite e quindi puoi fare il gioco dei titoli.
Il gioco dei titoli è quel gioco che tu dici “Ho davanti un cavallo, ora metto in cuffia una canzone che nel titolo ha la parola cavallo e vediamo se cinematograficamente ci sta”.
Se ci sta, il musicista è bravo (e tu te la puoi rivendere nel primo video che ti capita di fare che parli di cavalli), se non ci sta sei stato truffato.
E poi c’era quella cosa lì delle parole che disturbavano e quindi ti indirizzi nel menù del lettore a selezionare solo brani strumentali e oplà, ci trovi Einaudi ché un giorno una tua lettrice ti disse “Ehi, Einaudi, non te ne pentirai” e sfogli gli album che ti sei portato dietro e ci trovi oplà che culo “Le onde”.
Ocazzo.
Mare-onde.
Vediamo se lo stronzo ci ha preso.
Mio padre mi raggiunge e mi fa:
“Ciao, che cazzo leggi brutto maiale?”
“Ehi, papi, ancora ‘sta storia?”
“Mica è colpa mia se sei nato maiale e morirai maiale”.
“Me l’hai già detta ‘sta cosa”
“Te la ricordo”
“Ti pare ce ne sia bisogno?”
“Non si sa mai, tu non hai memoria”
“Ce l’ho selettiva, papino, e comunque se vogliamo dirla tutta un po’ colpa tua lo è, poi, bisogna vedere, tu la chiami colpa, io la chiamo una delle poche cose buone che hai fatto, ma lasciamo stare che tanto dicono che per il momento quello morto sei tu, nemmeno troppo dignitosamente tra l’altro, potevi metterla su meglio la scenetta, una vita intera a metterti le giacche di cashmìr (i maiali non sanno scrivere) e poi ti fai trovare dopo settimane grazie alla puzza di morto fin giù in strada, eh, dai, ma che è, abbiamo un cognome da difendere, una cazzo di donna che rimanesse più di cinque minuti dopo non la potevi proprio trovare?”
“Le donne che rimangono cinque minuti dopo, poi vogliono la borsa. O la vita”
“E non le potevi dare la borsa che tanto era vuota e in genere era pure la sua così magari per una volta ne rimandavi a casa una non proprio privata di tutto?”
“Maiale, non cagare il cazzo, tu non hai mai capito nulla di donne, ti ho chiesto cosa stai leggendo”
“Un libro regalatomi dall’uomo che l’ha scritto”
“E di cosa parla?”
“Di te”.
“Maiale, non esistono libri che parlano di me”
“Questo si, è per questo che chi l’ha scritto me l’ha regalato senza dirmi di cosa parlava, sapeva che avrei dovuto leggerlo”
“E da quando leggi, maiale?”
“Bruno, papi. Bruno”,
“Maiale, figlio, fidati”
“Vabbè, lasciamo stare, tu non hai mai capito nulla di figli, dicevo, questo libro parla di te”
“E cosa dice?”
“Quello che ho sempre pensato”
“E da quando pensi, maiale?”
“Da quando ho pensato che fossi morto, papi”
“E cosa ti fa pensare che non sia morto, maiale?”
“Papi, meno male che hai messo la virgola, altrimenti non avrei saputo come andare avanti”
“Non fare lo stronzo, vorrei vedere te a stramazzare sul pavimento col petto aperto per due ore”
“Vorresti vedere in che senso?”
“Niente, maiale, niente, si dice tanto per dire”
“Come si muore tanto per morire?”
“Tu non hai mai capito un cazzo di nulla”
“E tu non hai mai capito un cazzo di figli”
“Maiale”
“Stronzo”
“Figlio di puttana”
“Ehi”
“Ok, pezzo di merda”
“Puzzo di morto”
“Cacca di pistrello”
“Piscio di vacca”
“Ehi”
“Ok, caccola di rinoceronte”
“Merda di lombrico”
“Fango di palude”
“Sterco di triceratopo”
“…”
“Ho vinto”
“Non hai vinto un cazzo”
“No no, ho vinto io”
“Mavaffanculo”
“Devi pagare pegno”
“Ancora?”
“Ancora”.
“E che devo fare, ‘sta volta, tagliarmi un braccio?”
“No, devi fare silenzio e guardare il mare con me”
“Quale mare?”
“Quello”
“Quello quale? Io vedo solo la luna”
“Papi, minchia, per una volta, solo una, non ti vede nessuno, guarda il dito”

[segue]
(Broono è in viaggio per lavoro e ci starà per un po’.
Voi nel frattempo, dopo aver letto questo, ringraziatela per il fatto di avere un blog e per un’altra cosa bella a caso a vostra scelta, che anche tirando a caso, datemi retta, ce l’ha)

20 settembre 2006

Era

Era puntina di giradischi che sapeva saltare, rimanere sospesa finchè il solco esatto della nota abbandonata non concludeva il suo giro e tornava sotto di lei, si lasciava cadere riprendendo la musica e nessuno si accorgeva di nulla, del salto, della sospensione, del silenzio, non era silenzio, era assenza di altri suoni, era sgomebrare il campo, l’aria, lo spazio intorno, shhhh.
Eran giochi da bambini, l’incoscienza del burrone, la discesa senza freni, sangue sui ginocchi chi ti ha fatto questo segno io solo io sempre io lo so ma dillo, dillo, dillo.
Con l’orgoglio dentro gli occhi, aperti fissi, pare quasi morto, no, lo possiamo salvare, no, non salvatemi, ma siete scemi, finisse ora sarebbe vita, è vita, comincia ora, pare morto, non lo è, fatevi i cazzi vostri.
L’ipotesi la faceva da padrona, accolta, il terzo comodo, io la base, tu l’altezza, divisi due, uniti uno, spiegami, piegami, permesso, non chiedere, vieni, visi, vinci, mi.
“Vorrei che il tempo si fermasse” “Ma che sono baci perugina?” “No no, vorrei proprio che il tempo si fermasse” “Ma sei banale” “Si, ma intanto vorrei che il tempo si fermasse”.
Oh, manco avessi chiesto un bicchier d’acqua.
S’è fermato davvero.

16 settembre 2006

The Big One

Il post più lungo della storia.
(ovvero: come metterci tre settimane per raccontare una storia durata una settimana.
Il post, appunto, è più lungo della storia che racconta)


Parte 1.

Prologo.

È la percezione esatta dei propri confini, prima, e la sua reale e sincera accettazione poi, ho sempre pensato, l’unica base sulla quale può poggiare quella condizione di serenità o quantomeno equilibrio, alla quale anelano tutti, chi più chi meno, quelli incapaci di non porsi domande; percezione e accettazione, come condizioni necessarie per poter poi partire in quel lungo viaggio che si chiama vita, durante il quale, chi si pone domande con la frequenza del respiro, si vedrà opporre un tale numero di ostacoli certi, da aver necessariamente bisogno di un mezzo di trasporto ben revisionato e perfetto (o comunque al meglio delle possibilità) come meccanica, prima che come carrozzeria, per sperare di non rimanere impantanato nella prima pozza di fango che incontrerà, ché la carrozzeria dopo la lavi, ma se le ruote non girano, tu il dopo non ce l’hai.

Perché chi si pone domande continue, è uno che vive costantemente in una pozza di fango dopo l’altra e la domanda altro non è, di volta in volta, che una diversa pronuncia della sempre identica “Come ne esco?”, apparecchiata ogni volta in maniera diversa, ma nella sostanza sempre identica.
Non è un lavoro facile, la prima fase, quella della percezione esatta, soprattutto.
Perché il percorso che porta a quella percezione è lungo e tutt’altro che semplice, ma ha di buono che proprio il suo essere lungo fa si che la convivenza alla quale man mano durante il percorso ci si abitua inconsciamente, con i neo scoperti (curiosa analogia) confini, ce li faccia apparire familiari e quindi di più facile accettazione quando giunti al momento dell’evidenza.
No, non sta parlando uno che quel percorso l’ha compiuto.
Io forse non sono nemmeno a metà.
Per il momento sono ancora nella fase disegno, dei confini; l’accettazione, allo stato attuale, non è ancora parte dei programmi dell’immediato futuro, né tantomeno è all’orizzonte.
Li sto scoprendo piano, con meraviglia in alcuni casi, paura in altri, ma sostanzialmente con stupore.
Lo stupore dello scoprirsi capace di dirli ad alta voce, più che del vederli, ché in fondo tutti li vediamo bene da sempre, ciascuno i suoi, non ci si prende mai in giro quando si è soli in ascensore (quelli con lo specchio).
Come una linea continua sto lentamente disegnando la mia sagoma, da una decina d’anni a questa parte, come si segue con un dito un profilo stando bene attenti a non staccare il dito per non perdere il percorso fatto fino a quel punto.
Come quando segui il profilo del corpo di una donna addormentata sdraiata su un fianco accanto a te, con lo stesso piacere leggermente sporcato dalla tensione della cautela che si è costretti a mettere nel tocco per non svegliarla, pena l’interruzione di quel percorso delle dita.
Perché il profilo è una linea unica, continua, percorribile solo se non si stacca mai il dito dal tratto precedente.
Se si interrompe, se si sveglia, si deve ripartire da capo.
Se non si riparte da capo, non si riuscirà a seguire la direzione giusta, perché ogni punto in cui cambia direzione è influenzato dal punto precedente.
Il profilo è di fatto una lunga unica curva di Bezier, lungo la quale ogni direzione è influenzata dalle precedenti, tutte.
Quando si vive per qualche tempo in posti dove il dialetto è la lingua più diffusa, si ha tempo di scoprire che le parole hanno davvero un senso, un’importanza, una storia.
Tutte cose che le parole non hanno perso, se non da noi, dove qualcuno un giorno ha detto che bisognava parlare italiano, andandosene però poi al bar nel momento in cui avrebbe dovuto spiegare qual'è, l'italiano.

In calabrese, “Tornare a casa” si dice (pronuncia) Ricogghìrsi (accento sulla penultima i), tradotto: Raccogliersi.
Non è Tornare in senso generico.
Tornare in senso generico si dice proprio Turnare, la solita U a far la lieve calabrese differenza, come la S in spagnolo per chi non ne sa.
Se ti devono dire, per esempio, “Brun(ell)o, sei tornato!” (i parenti che ti vedono ogni dieci anni ti chiamano sempre con il nome dell'ultima volta, anche se quell'ultima volta tu avevi dieci anni e ora ne hai trentaquattro e io, a dieci anni, mi chiamavo Brunello, non in famiglia e basta, proprio Brunello) ti dicono “Brunicè, turnàsti!”
No, per dire “Tornare a casa” hanno una parola apposta e questa parola è Raccogliersi.
Se ti devono chiedere “A che ora sei tornato (a casa), stanotte?” ti dicono “A chi ura ti ricogghisti, aieri sira?”
Pensando a questa cosa mi son detto che dev’essere una radice che riporta a quella caratteristica, ormai scomparsa, o quasi, al nord, tipica delle famiglie del sud che le vede sempre numerose (due elementi non si raccolgono, si incontrano, si raccolgono quando sono un certo numero) e la loro abitudine a consumare i pasti tutti insieme, figli, cugini, parenti di ogni grado e lontananza raccolti in ogni angolo dei paesi, tutti riuniti ogni volta possibile intorno a un tavolo, nella stessa stanza, raccolti appunto.
Quando torni a casa, in calabria, fosse anche solo per mangiare, ti raccogli con gli altri.
Ecco perché c’è una parola apposta.
Una bella, parola.
Raccogliersi con gli altri elementi della famiglia.
“Perché non distinguere una cosa tanto importante, con una parola apposta che fotografa l’evento preciso” si saranno detti qualche secolo fa, quando intorno a un tavolo i creatori delle parole si son messi lì a stabilire come si sarebbero dovute chiamare le cose.
Si narra (non è vero, come sempre me le invento per romanzare un po’ quella che sarebbe altrimenti la mia solita fuffa) che la prima riunione iniziò quando durante un litigio, due contadini contendenti rimasero impantanati nella discussione perché quando uno dei due esclamò “Chiamiamo le cose con il loro nome!” l’altro rispose “Va bene, ma qual è?” e così decisero una tregua e si misero intorno a un tavolo, alleati nella ricerca dei nomi di ciò che si accusavano di essersi rubati a vicenda, condizione unica e necessaria per potersi poi fare la guerra.
Se non sai per cosa fai la guerra, come puoi sperare non dico di vincerla ma almeno di finirla?
Per quello, quando non si sa per cosa si sta lottando, si finisce con il lottare per l’unico nome il cui significato associato ci è noto e cioè il nostro.
Secoli di guerre per il proprio nome, quando bastava dare quello giusto all’oggetto del contendere per scoprire magari che non meritava tutta quella violenza.

Raccogliersi è una bella parola.
I due contadini, infatti, soddisfati del risultato ottenuto, mica se la fecero poi, quella guerra.
Anzi, la figlia di Domenico, Mimmo, Caminiti, uno dei due contadini costituenti la costituente che associò le parole ai significati, venne offerta in sposa a Sarino, il figlio di Giuseppe, Pepè, Procopio, l’altro contadino.
Furono anni di raccolti, da quel giorno in poi.

Poi c’è una variazione della leggenda (non è vera nemmeno questa, è sempre per la cosa della fuffa di cui sopra), secondo la quale la parola Raccogliersi, deriverebbe in realtà sempre da quei due contadini, ma non da un generico assegnare significati per poi potersi fare la guerra in santa pace, bensì proprio da quel loro duello trasformatosi in amicizia.
Raccogliersi, infatti, secondo questa variazione della leggenda, sarebbe la contrazione di Ri-Accogliersi.
Fare pace, insomma.
Dal giorno del matrimonio in poi, infatti, Mimmo, Pepè, i figli sposati, i nipoti, i cognati e tuttu ‘u’pedi d’u’cucuzzaru, si r(i)accolsero ogni giorno due volte al giorno nella stessa casa, dentro terre i cui confini a quel punto si erano uniti per formarne uno unico, percorribile con un dito come il profilo del corpo di una donna addormentata accanto a te, a consumare i frutti di raccolti, raccolti in terre delimitate da nuovi ampi confini dai frutti di frutti raccolti, o “sposati”, Mimmo e Pepè si trovarono d’accordo anche sul fatto che si potesse anche usare una parola apposta, che l’occasione era speciale, e inventarono “sposati”.
Una parola che rappresentava confini più ampi che raccoglievano frutti più raccolti.
Pareva quasi un controsenso e per questo fu accolta con scetticismo e diffidenza, quando presentarono al paese tutto la nuova parola.
Ma era il paese che era fatto ancora per lo più da contadini non scolarizzati, che si chiedevano più che altro a che ora si mangiava, più che quanti sarebbero stati a tavola, che per esperienza sapevano che la quantità di cibo non era mai stata un problema, se era una pagnotta, si divideva, due uova non le mangiavano in due, si faceva pasta per tutti, era l’orario che a loro interessava, ché la giornata era stata pesante e le spalle reclamavano pane e pomodoro.

Sarino ebbe giusto un paio di osservazioni da fare a suo padre e al suocero, su quel loro non essersi particolarmente impegnati nel trovare una parola anche per la sua nuova condizione, che secondo lui non era bello che ogni volta che diceva che si era “Maritato” gli altri ridevano, ma vabbè, non si poteva avere tutto e lei era bella e le uova bastavano perché si erano raddoppiate le galline in famiglia e andava bene anche così, senza stare a fare i puntigliosi, tanto lui la sua soddisfazione ce l’aveva quando la notte lei si addormentava su un fianco, le spalle a lui, che a quel punto, ogni notte, poteva fare quel gioco di seguirne il profilo del corpo con un dito, per sentirne il confine e immaginare che avendo lui il dito appoggiato sul suo corpo, il confine proseguiva salendo dal suo dito al suo braccio alla sua spalla al suo petto al suo cuore, ogni notte, quando lei dormiva, lui la sfiorava per diventare con lei un’unica linea percorribile con quel dito che chiedeva soltanto di potersi non fermare mai seguendo quella linea che passava da lei a lui da lu a lei e poi di nuovo a lui, solo, soltanto non staccando mai il dito dal suo profilo, sarebbero stati uno unico.

[continua]

15 settembre 2006

se telefonando

Si ok..no…lo so…ma…aspett…si, cert..ma è sposat…no no..si…ti ha detto che la lasc..si ti ha detto a settem….ok, d’accor...ma ogni volta ti dice due mesi dop…va bene…si, si si, lo so…si…i probl…si, lo so, la famig…no aspet…questa volt…no…un atti…ma ha un figl…ah…lo fa per lu…si…no, lo so che non può lasciarl…ma non dovevate fare le vacan…ah non poteva lasciar…il figl…si si, è proprio buo…si…no..un attim…fammi parl…ma da quant…ma tu non vorr…si, si si, è ver…ma la mogl…ah ti ha chiam…ma lo sa…che signif…ma come “non doveva incazz..ma tu che avr…si ma lui…potev…no…dico non darle il tuo num…ah l’ha trov…e certo se lo lasci in mem…si ma adess…no dico il bimb…aspett…fammi dire un cos…si è buon…si non vol…si, si si…ah adesso è lei che non vuol…si lo so ora è più diffi…ah lo ricat…ma come ancora due mes…di nuovo…ma non doveva trasf…ah ha già fatt…un colloqui…ah si…e com’è and…che vuol dire “non lo s…ma si dico avrà…gli avranno dett…e quanto attende la rispos…si lo so è un momento diff…si certo tutti licenz…ma intant…quando…ah è venuto a Mil…si gran ses…si lo so bello..no, no dic..si l’amor…no..no non ti sto prend…aspett…cazzo fammi parl…è già il terz…anche gli altri dovevano lasci…ma non capisc…si questa volta è div…lo so…no..non dico che…ma no non lo conosco come poss..no dico in gen…ma tu inta…che vuol dire che non mang…si come lui ness…si le stel…un regal…ma dai…si molto bel…spedit…davvero non te l’ha por…ma quando vi riv…ah già non puoi sap…fammi dir…aspet...zitta un att…certo…ma da quant…ti va se ne parl…come non esci pi…ma c’è un bel concer…aspetti cos…e se poi non chiam...ma puoi stare tutta la ser…si lo so poi…vabbè ti richiamer…e certo che non sai quando potr…è questo infatt…no..un attimo…cos…aspett…fammi parla…si io sono ancora da sol…no non è…certo non è fac…no è che non vogl…è che vorre…si…cosa…un suo messag…si metto giù…si chiam…si si dopo ci sono, si… ciao.

11 settembre 2006

a mare

Pessima l’idea di venire a lavorare al mare.
Geniale l’idea di venire al mare.
Ieri sera, essendo sabato sera, mi sono dato alla pazza gioia e al divertimento sfrenato, come vacanza comanda.
In pratica mi sono guardato il concerto di Gigi d’Alessio insieme a mia mamma e mia nonna, che nel frattempo mi (ci?) insegnava, ormai è diventato l’obiettivo dell’inverno, a fare la pasta a mano come si deve, altro che con la macchina.
Tornando a casa mi sono chiesto se tutta questa adrenalina non rischi di farmi male.
No.
È stata la risposta.

Ma più di tutte, tra le sere di questa settimana tutte passate a cena da mia nonna, mi rimarrà impressa quella di due sere fa, quando ci siamo messi a guardare il programma storico della rai, del quale non cito il titolo per evitare i motori di ricerca, quello fatto molto bene.
Mi rimarrà impressa come mi rimangono impresse tutte le sere nelle quali racconta.
Che io mi auguravo il racconto della battaglia navale e mi sarei accontentato.
Non immaginavo cosa avrei, invece, ottenuto quest’anno.
Mia nonna è, come tutti gli anziani, un archivio enorme celato sotto un’apparente difficoltà di memoria, pronto a saltar fuori ad un minimo accenno di colore, di odore, di immagine.
Un patrimonio dal valore incalcolabile, completamente, o quasi, ignorato da tutti e per questo destinato a perdersi.
Ci sono ore e ore di documentari sugli incontri tra Mussolini e Hitler, ma nemmeno un racconto di come in quel momento la vita di un’italiana qualsiasi cambiava o stava per cambiare.
Ore di documentari sulla distribuzione del cibo, ma nemmeno una scena in una cucina mentre la famiglia si divideva quel pezzo di pane.
Ecco, gli anziani se ne andranno portandosi via quella parte là di storia, quella “di contorno”, quella di chi non ha deciso ma solo subito i grandi momenti della storia.
Si guardava la puntata dell’altra sera, come sempre dedicata al periodo delle due guerre mondiali.
Bastava un’inquadratura a un carretto e lei partiva con la descrizione del carretto, di come e quando veniva usato, del perché era costruito in un certo modo e di una serie di successivi aneddoti sul carretto che avevano loro in famiglia.
In quel momento il documentario non stava certo parlando del carretto, quello era solo una frazione di secondo in una scena ben più lunga e focalizzata su ben altri temi, ma lei lo ha visto e intorno a quello la sua memoria si è stretta.
Poi via, scena successiva.
Si parlava di una roba qualsiasi e per un istante inquadravano una donna che faceva il pane?
Racconto di quando durante la guerra fu distribuito il libretto per le quantità assegnate di pane, di latte, di tutto ciò che serviva razionare ma che era indispensabile per sopravvivere e aneddoti successivi che narravano come, essendo il loro un piccolo paese dove tutti erano amici e parenti, riuscissero ogni tanto ad ottenere una pagnotta in più.
Mia nonna è così, usa la televisione come rampa di lancio per i suoi ricordi, come se le servisse il la, uno spunto, una lancetta che indichi quale cassetto aprire di volta in volta.
Guardare la tv con lei è uno spasso, perché parla dei personaggi come fossero di famiglia, come stanno, dove sono stati recentemente, com’è la loro attuale situazione affettiva e ne parla dicendotelo con la stessa intonazione che usa quando ti racconta l’ultima novità su tuo cugino.
Per lei son così, sono di famiglia.

Come molti anziani uniti da questo modo di approcciarsi alla tivù, infatti, ha finito con l’essere berlusconiana, ma nel senso affettivo del termine, gli vuole proprio bene, va in apprensione quando quello diffonde la notizia dei suoi maldigola, è dispiaciuta quando lo fanno arrabbiare, ce l’ha con quelli che ce l’hanno con lui, in questo periodo guardare il telegiornale con lei è uno spasso, perché si incazza ogni volta che inquadrano uno del governo, non serve che parli, basta che lo inquadrino.
“Avevano detto che non gli impedivano di far politica e ora guarda, appena arrivati subito a togliergli le aziende…Guarda questo quant’è antipatico….Uh, si, tutti maestri adesso, prima operai, ora tutti maestri…Quello quando parla sembra un morto…” e via così, come fossero i sottotitoli di ogni inquadratura, non se ne perde una per sottolineare il suo essere assolutamente, visceralmente e fedelmente contraria a ogni alternativa al cavaliere.
E lo senti che le nasce proprio dal cuore, come ce l’avrebbe con uno che avesse fatto licenziare uno dei suoi nipoti, quel rancore lì, quello che non ha bisogno di sapere il motivo.
Ma se guardando il telegiornale, questo suo sottotitolare e commentare ogni immagine che vede è divertente, non avevo mai avuto modo di scoprire quanto fosse invece “didattico” l’esserle accanto quando la stessa cosa la fa guardando documentari sulla storia d’Italia.
Ho guardato quella trasmissione come se avessi davanti due voci narranti.
Una mi raccontava il generale, le cose principali, i grandi fatti, l’altra, la sua, raccontava il contorno, la vita che “intanto” accadeva, il piccolo, il domestico, il privato.
È come se a uno dessi il compito di indicarti una data e a un altro quello di raccontarti le relative 24 ore nel dettaglio.
Sono due livelli di narrazione molto diversi ma entrambi fondamentali per capire.

Esempio.
Durante una delle scene, venne inquadrato il Re.
Il documentario in quel momento fece un cenno al referendum che scelse tra monarchia e repubblica.
Ovviamente a grandi linee, narrando il grosso.
Lei in quel momento disse solo “Non fu regolare”
“In che senso?”
“Pure i morti, portarono a votare”
“Cioè?”
Ed è partita nel racconto di quel giorno, di come si svolsero le elezioni in questi paesi del sud e di come (e di chi) fece in modo che vincesse la repubblica.
Difficile dire che io non abbia aggiunto al mio bagaglio un tassello che da altre parti non avrei trovato, dopo i suoi racconti di quel giorno.
Si, certo, si sa che proprio regolare non fu, ma lo si sa col sapore della leggenda, mentre lei mi ha raccontato proprio il sistema, col quale si votò nel sud.
Altro che leggenda.
Così come fui rapito dal racconto che partì quando inquadrarono una bambina vestita elegante e lei se ne uscì con: “Io ero una Piccola Italiana”
“Cos’eri?”
“Una Piccola Italiana, ci chiamavamo così, i maschi erano i Balilla, le femmine erano Piccole Italiane e poi quando crescevi diventavi Giovane Italiana”
E da lì il racconto del Sabato Fascista, giornata nella quale i bambini venivano portati in spiaggia dove erano allestite delle enormi mense nelle quali venivano serviti cibi che il 90% di quei bambini, molti dei quali figli di contadini delle montagne, non vedevano in nessun’altra occasione, come la marmellata, il cioccolato, la carne.

Il racconto lasciava trasparire il timore di chi non poteva sottrarsi a quelle riunioni, attraverso frasi interrotte relative alle punizioni che subiva chi non si presentava, interrotte sempre nel momento in cui stava per dire cosa veniva loro fatto “Se non andavi ti facev…Beh…diciamo che era meglio andarci” unito all’impossibilità di negare che quei giorni fossero gli unici nei quali i bambini stavano bene e mangiavano bene.
E il mio chiederle informazioni stupide su chi dava loro le divise, su come funzionava realmente il Sabato Fascista, su chi lo comandava, domande il cui unico fine era provare fino a che punto di “futilità” poteva spingersi la mia curiosità ed fino a che punto poteva essere soddisfatta, ma che dietro avevano la reale voglia di sapere qualsiasi cosa, foss’anche un pettegolezzo, non fosse sui libri di storia.
Una serata così, piena di racconti su uomini reali e non nomi letti su un libro, su immagini reali e non viste in tivù, sulla Torino completamente distrutta dai bombardamenti che trovò al suo arrivo, sui militari nascosti in ogni casa per non essere trovati dai tedeschi, sulla tessera da partigiano dello zio, che io nemmeno lo sapevo che i partigiani avevano una tessera.
Pensavo che in quanto movimento clandestino non avesse nulla di scritto e invece c’era la tessera, con la differenza che invece del nome, portava scritto il nome di battaglia del possessore.
“Lupetto”.
Mio zio era Lupetto.
Dai, dove le leggi ‘ste cose qui?

Ma la svolta era lì a un passo.
In realtà durante tutta la serata avevo avuto sempre di più l’impressione che la sua critica al ventennio fosse più di forma che di sostanza, più dovuta al fatto che bisogna dire che è stato sbagliato, che al considerarlo realmente sbagliato.
Diverse frasi ambigue mi avevano fatto nascere il dubbio, dubbio che da lì a poco sarebbe stato spazzato via.
A un certo punto decise di raccontare il giorno dell’arresto di Mussolini.
Suo padre dormiva, mentre lei sentiva la radio.
Sentì la notizia dell’arresto e, nonostante fosse notte, corse a svegliarlo.
“Papà, u’rrestaru!”
“A’ccùi?”
“U’Dduce!”
Lui allora saltò di colpo sul letto e …
…E niente.
Mica lo so se si possono dire certe cose.
Diciamo che io l’altra sera ho scoperto delle cose sulla mia famiglia che mica le immaginavo.
Chi lo sapeva, che nella mia famiglia scorresse così tanto sangue fascista?
Sangue non nel senso di vittime.
Sangue nel senso di …ehm…diciamo “simpatizzanti”.
Porcaccia la miseriaccia, altro che documentari.
Alla fine della serata se ne uscì con l’ultimo, lapidario, inatteso (sempre di meno, in realtà) commento.
“Povero Mussolini”
“Scusa???”
“L’hanno ingannato” pausa “o si è ingannato”.

Io mica ce l’ho quel dono della sintesi lì.
Secondo me, per averlo, bisogna proprio esserci stati.

7 settembre 2006

al mare

Il paese è di quelli del sud, identico a qualsiasi altro paese del sud anche nei suoi tentativi di essere diverso, quei manifesti semistrappati testimoni per l’intero anno successivo e per questo mai rimossi dagli indigeni che se ne guardano bene dal privare il paese di una così preziosa testimonianza di stagione ricca, lasciati dai vip sotto una certa cifra, pagati perché il paese si possa far bello per l’intera stagione a venire nei confronti del paese prima e di quello dopo, cantanti e sciogherl che passano come tutti l’estate nei paesi del sud tutti uguali, lasciando tracce di sé sui muri in modo che tu, arrivato tardi, possa dire “Accidenti, mi sono perso Serena” guardandole le tette bene in evidenza nella foto sopra la scritta “Domenica alla sagra dello stocco” seguito da “Però, quest’anno è venuta Serena! Questo si che è un paese diverso da quello prima e da quello dopo” per poi vedere il manifesto di Serena nel paese prima e poi in quello accanto e poi ancora in quello dopo e pure in quello superiore perché qui ogni paese ha il suo gemello superiore, i contadini e i bagnanti di una volta, Serena insieme a Mino Reitano, alla compagnia della Salsa direttamente da Cuba a Christian a Zarrillo e al venditore di zucchero filato e nocciole caramellate e torroni improponibili e ceci o calia, come si chiama qui, come tantissimi italiani qui ci passano le ferie solo che loro le passano ogni giorno in una piazza, che essendo una si chiama “la piazza” anzi, ‘ntaaa-piazza…’ndividimu ‘ntaaa-piazza passi paaaa piazza e il corso principale che essendo uno solo si chiama soltanto il corso, ‘ndi facimu ddddupassi sutta’o’curzu? Aund’uccattasti? U’ccattai’jassutta ‘o’ curzu, solo un’altra piazza poteva far concorrenza alla piazza, ma per non rischiare il disorientamento è sempre stata a’ piazzetta, così da non dover trovarle un nome per differenziarla e poi la terza, ancora più piccola, chiamata a’rotonda, perché è rotonda, hanno fantasia in questi paesi e voglia di usarla, si capiva stamattina, quando in spiaggia, io, la famiglia del negozio di canotti e maschere finalmente in vacanza e Rutelli, avevamo tempo modo e spazio per guardare con quale fantasia si smontava il paese per metterlo via per l’inverno iniziato improrogabilmente il primo settembre e pronto a finire il 1 di agosto, giorno in cui in questi paesi comincia la seconda stagione dell’anno, delle due che hanno, quella con e quella senza le famiglie che tornano giù a tirar fuori il motoscafo dal garage dello zio, se è ancora vivo, naturalmente, che in questi paesi a leggere i muri pare che su ottomila abitanti, tanti ne conta questo paese, almeno duemila muoiano ogni giorno e quando non muoiono si annunciano le celebrazioni di quelli morti un anno fa e poi cinque anni fa e poi dieci anni fa e via così, appuntamenti per gli anziani del paese che in queste occasioni si contano e si fanno le analisi per puntare sul prossimo, e i muri te lo dicono a ogni metro chi è morto e se hai pazienza di farti a piedi tutto il corso arrivi alla fine del paese, dove in bella vista si staglia nel blu del cielo il cartello principe, quello con il nome del paese che di alcune di quelle morti ti suggerisce anche la possibile causa e soprattutto la necessità di non star lì a chiedere che non è cosa, io e Rutelli oggi passeggiavamo soli soletti in questo paese deserto chiuso per ferie e io gli domandavo se sapeva dove si potesse comprare il giornale, che a me, anche quando in vacanza, piace leggere le uscite intelligenti dei politici che loro sanno e conoscono il territorio e la gente e la piazza e il corso, anzi u’curzu, e a’rotonda, ciao ma tu sei il nipote di rosa, ma come ti sei fatto grande quanti anni hai sei qui perché ancora non è iniziata la scuola signora quanti anni ha suo nipote ‘ndavi trintaquattru anni si’ccatau a casa, lavora sapiti, lavora ammmilano uuuuuuu chissiibbellu, m’u’ricordu quandu ‘ndavìa sett’anni focu comu ti facisti grandi la nonna cuce le tovaglie per quando torno a casa perché se avrò ospiti devo mettere i tovaglioli belli, e sono belli davvero, ridendo per l’emozione mi ha mostrato la stoffa comprata ancora da tagliare perché non sapeva la misura del tavolo ora la sa è centoquaranta per ottanta, un tavolo piccolo, mica come quelli qui, come quando avevamo sett’anni e si veniva tutti in vacanza ad agosto nella casa vecchia, quella che è ancora lì, tetto crollato, monumento di sei generazioni e qualche bombardamento americano, come quella volta che ci fu la battaglia navale davanti alle coste e tonnellate di pesci si riversarono sulla spiaggia ma nessuno nonostante la fame post bellica li mangiò perché si erano cibati dei corpi dei soldati e ogni anno me la racconta e quest’anno ancora no perché ci siamo visti solo oggi e voleva sapere della casa ed era più felice di me per quella cosa del ritornare nell’altra e rideva dalla contentezza perché anche lei lasciò una casa che non aveva finestre sul sole e lo sa perché si fa che il sole è luce e la luce sono fiori, domani spero me la riracconti la storia della battaglia navale, che io sono un tradizionalista, vacanze da nonna e mamma, il paese di quand’ero piccolino, io quattro abitanti e i manifesti di Serena Belle Tette di una festa che mi sono ormai perso, che voi non l’avete mica capito cosa voleva dire Rutelli, avete tutti pensato che stesse dando ricette al popolo e invece parlava con me, solo con me, che oggi in spiaggia eravamo in quattro su sei chilometri di mare meraviglioso come solo lo jonio sa essere e io infatti gli ho dato ascolto e sono qui, a lavorare ma solo di notte, per poi mangiare e nuotare di giorno, senza nemmeno un turista, il deserto, manco un negozio aperto, dio che bello, un paese fantasma ma con il caldo di luglio, il mare di agosto e il cibo del sud.

Dove sono e con chi sarà argomento del prossimo post.
Perché mia madre è un’alchimista.
E, lo so non ci crederete, per una volta non sto parlando di me.
Ora è tardi, ho finito di lavorare ed è ora di andare in bed, che tra tre ore c’è la sveglia col breakfast e poi spiaggia, de beach, sutt’aviamarina.

22 agosto 2006

Lisa

Quando mi metto a scrivere un post dedicato a una donna, ho sempre davanti a me tre figure.
Quella, sempre diversa, della donna alla quale è dedicato, quella sua, sempre lei, che leggendolo da lontano potrebbe pensare che il suo posto in cima è stato occupato e poi quella, sempre generica, di quelle che potrebbero non essere felici di leggere parole per un’altra.
Spesso la seconda figura è un motivo sufficiente per non scrivere.
È più quello che perderei scrivendo parole che verrebbero lette in maniera sbagliata, che quello che guadagnerei dicendomi che chissà, magari nemmeno le leggerebbe.
La terza figura è più una delicatezza, una mia impossibilità di ignorare che si, ci sono persone che non gradiscono parole non per loro.
Ce ne sono, non è esaltazione mia, ce ne sono e nemmeno poche.
A volte per questo tengo per me cose che vorrei dire, che vorrei raccontare, per le quali vorrei ringraziare.
Per questo, venerdì, primo dei tre giorni che Lisa ha passato qui con me, durante una cena nella quale per far capire perché per me Milano è piena di persone stupide bastava star zitti e ascoltare gli altri clienti del ristorante, le ho chiesto di accettare il fatto che non avrei scritto nulla sul tempo che aveva deciso di regalarmi.
Lo dissi il primo giorno proprio perché non aveva nulla a che fare con lei e con la bellezza, prevista, di quel tempo insieme, ma soltanto con la mia voglia di non ferire, di non generare malintesi, di non aggiungere distanza alla distanza, di non dar modo di pensare chissà cosa a meno di non mettermi a descrivere ogni minuto e ogni cosa successa, ma soprattutto ogni cosa non, successa.
Faccio prima a non dirlo, mi son detto, chiedendole di accettare il mio volerlo tenere nascosto.

Ma poi i tre giorni sono passati, tra regali fatti col cuore e portati col sorriso e una romantica padella gigante di salsiccia e fagioli senza pepe e con l’olio non all’altezza di una donna toscana, tra una visita nella casa vecchia per mostrare da dove vedevo i tramonti e un già che siam qui mi aiuti a portare gli ultimi cassetti, tra un merdaflecs diviso in due rivelatosi in perfetto equilibrio ortopedico e il primo caffè sul comodino al risveglio in questa casa, tra una coperta chiesta a metà agosto (no, il condizionatore era spento) e un “i cuscini di piume fanno un po’ caldo” la mattina dopo (i cuscini…la coperta no), tra un inseguimento di commessi al grande magazzino e un divertito mio silenzio quando il fruttivendolo al mercato le chiede come faccia a stare con me, tra una princess macchina per la pasta che produce un vomitello informe e otto ore passate a provare a farla a mano con la macchina che gelosa ci guardava dal tavolo, incapaci entrambi ma perfetti nel (casuale?) risultato, tra un brindisi alla prima pasta fatta davvero a mano della vita di entrambi e i pisolini testa sul tavolo tra il primo e il secondo, tra le chiacchiere sul futuro e la liberatoria assenza totale di citazioni del passato, tra lo scherzo sulla mia voglia di montare una maniglia nella doccia e il sorriso (raccontato) nel trovarla utile già alla prima doccia, tra la cabina armadio finalmente finita ammirata come fosse un negozio con applauso all’allestitore, io, da parte del pubblico tutto, lei, e il mio finalmente poter chiedere a qualcuna come abbinare i rumeo pigli, tra le scuse per averla costretta in casa per tre giorni ad attendere fori nel muro e mobili completi e il suo sentirsi senza motivo di troppo, anche quando di quegli stessi mobili si è caricata pure il peso, tra video mostrati con orgoglio e la mia scoperta che le matite non si temperano ma si scartavetrano, tra il prendere un disegno da mostrare e trovarsi a riporre un’acquaforte, tra mille cose concrete da elencare e cento piccole grazie da conservare in silenzio, gesti, carezze, parole che non avrebbe senso mettere qui.

E son passati così, più velocemente di quanto forse entrambi ci aspettavamo, trasformati da tre a quattro con la scusa che dopo otto ore di pasta tirata a mano per fare due porzioni non si può andar via senza mangiarla, anche per dividere l’eventuale disastro, conclusi con un ciao, una promessa di capriolo, di una nuova mostra, con un biglietto trovato sotto un piattino e una coperta ancora lì.
E son passati lasciando quella sensazione che ti fa pensare che se qui non si bada a spese quando si tratta di raccontare brutte persone e brutti momenti, mentre poi si tengono nascoste quelle così belle, allora significa che non si è capito chi merita il tempo, i gesti, la gentilezza, le cure e chi no.
E allora stasera ripenso alle figure che ho davanti quando mi metto a scrivere e penso che Lisa è una persona così bella che se penso a quella, sempre generica, di quelle che potrebbero non essere felici di leggere parole per un’altra mi viene solo da dire che proprio perché non sono felici di leggere queste parole si trovano a leggerle riferite ad altre e che non trovo ragioni logiche per preferire il loro sorriso a quello di Lisa.
E quando penso a quella sua, sempre lei, che leggendolo da lontano potrebbe pensare che il suo posto in cima è stato occupato, penso che se mi potesse vedere, se avesse potuto vedere Lisa mentre ascoltava raccontare di lei, allora lei per prima sarebbe contenta, per una volta, di leggere parole dedicate ad altre persone.
E sarebbe contenta per me, perché saprebbe che la mia scelta di stare da solo, di ridurre al minimo i rapporti umani, non è fatta per star lontano dalla gente, ma per avere il tempo e la calma necessari per scegliere persone che davvero valgono.
Perché il tempo è prezioso, anche quello di un piatto di pasta, e non va offerto a tutti.
E lo spazio è prezioso, anche quello di un merdaflecs, e non va diviso con tutti.
E io non sono solo, anche quando lo sembro, e non ho bisogno di tutti.
So scegliere.
Voglio scegliere.
E voglio vivere con poche persone accanto, ma davvero speciali, delicate, di valore.
E quando se ne aggiunge una è una festa alla quale vorrei partecipassero anche le altre poche.
E da oggi si è aggiunta anche Lisa, a quelle poche.
Bella che mi accarezzava anche mentre parlavo di un’altra.
Quante ce ne sono così?
Cinque?
E io di cinque mi circondo.
Voglio vederle bene, le belle persone.
La folla è somma di mediocri.
Si arriva sempre a totale cento.
C’è chi ne accetta cento che valgono uno, chi ne vuole cinque che valgono venti.
A parità di totale, io esco molto meno degli altri, ma mi sento tanto tanto meglio.
Perché vengo scelto da persone che valgono venti e da loro mi vedo regalare il loro tempo.
E per questo le ringrazio senza nascondermi.
A differenza di quello che pensavo di fare quattro giorni fa.
Quando non ricordavo più molto bene la differenza tra una carezza fatta prima, di sentir parlare di un’altra donna e una carezza fatta dopo.

Se vi capita Lisa tra le mani, parlateci.
(magari, voi, non di un'altra)