22 agosto 2006

Lisa

Quando mi metto a scrivere un post dedicato a una donna, ho sempre davanti a me tre figure.
Quella, sempre diversa, della donna alla quale è dedicato, quella sua, sempre lei, che leggendolo da lontano potrebbe pensare che il suo posto in cima è stato occupato e poi quella, sempre generica, di quelle che potrebbero non essere felici di leggere parole per un’altra.
Spesso la seconda figura è un motivo sufficiente per non scrivere.
È più quello che perderei scrivendo parole che verrebbero lette in maniera sbagliata, che quello che guadagnerei dicendomi che chissà, magari nemmeno le leggerebbe.
La terza figura è più una delicatezza, una mia impossibilità di ignorare che si, ci sono persone che non gradiscono parole non per loro.
Ce ne sono, non è esaltazione mia, ce ne sono e nemmeno poche.
A volte per questo tengo per me cose che vorrei dire, che vorrei raccontare, per le quali vorrei ringraziare.
Per questo, venerdì, primo dei tre giorni che Lisa ha passato qui con me, durante una cena nella quale per far capire perché per me Milano è piena di persone stupide bastava star zitti e ascoltare gli altri clienti del ristorante, le ho chiesto di accettare il fatto che non avrei scritto nulla sul tempo che aveva deciso di regalarmi.
Lo dissi il primo giorno proprio perché non aveva nulla a che fare con lei e con la bellezza, prevista, di quel tempo insieme, ma soltanto con la mia voglia di non ferire, di non generare malintesi, di non aggiungere distanza alla distanza, di non dar modo di pensare chissà cosa a meno di non mettermi a descrivere ogni minuto e ogni cosa successa, ma soprattutto ogni cosa non, successa.
Faccio prima a non dirlo, mi son detto, chiedendole di accettare il mio volerlo tenere nascosto.

Ma poi i tre giorni sono passati, tra regali fatti col cuore e portati col sorriso e una romantica padella gigante di salsiccia e fagioli senza pepe e con l’olio non all’altezza di una donna toscana, tra una visita nella casa vecchia per mostrare da dove vedevo i tramonti e un già che siam qui mi aiuti a portare gli ultimi cassetti, tra un merdaflecs diviso in due rivelatosi in perfetto equilibrio ortopedico e il primo caffè sul comodino al risveglio in questa casa, tra una coperta chiesta a metà agosto (no, il condizionatore era spento) e un “i cuscini di piume fanno un po’ caldo” la mattina dopo (i cuscini…la coperta no), tra un inseguimento di commessi al grande magazzino e un divertito mio silenzio quando il fruttivendolo al mercato le chiede come faccia a stare con me, tra una princess macchina per la pasta che produce un vomitello informe e otto ore passate a provare a farla a mano con la macchina che gelosa ci guardava dal tavolo, incapaci entrambi ma perfetti nel (casuale?) risultato, tra un brindisi alla prima pasta fatta davvero a mano della vita di entrambi e i pisolini testa sul tavolo tra il primo e il secondo, tra le chiacchiere sul futuro e la liberatoria assenza totale di citazioni del passato, tra lo scherzo sulla mia voglia di montare una maniglia nella doccia e il sorriso (raccontato) nel trovarla utile già alla prima doccia, tra la cabina armadio finalmente finita ammirata come fosse un negozio con applauso all’allestitore, io, da parte del pubblico tutto, lei, e il mio finalmente poter chiedere a qualcuna come abbinare i rumeo pigli, tra le scuse per averla costretta in casa per tre giorni ad attendere fori nel muro e mobili completi e il suo sentirsi senza motivo di troppo, anche quando di quegli stessi mobili si è caricata pure il peso, tra video mostrati con orgoglio e la mia scoperta che le matite non si temperano ma si scartavetrano, tra il prendere un disegno da mostrare e trovarsi a riporre un’acquaforte, tra mille cose concrete da elencare e cento piccole grazie da conservare in silenzio, gesti, carezze, parole che non avrebbe senso mettere qui.

E son passati così, più velocemente di quanto forse entrambi ci aspettavamo, trasformati da tre a quattro con la scusa che dopo otto ore di pasta tirata a mano per fare due porzioni non si può andar via senza mangiarla, anche per dividere l’eventuale disastro, conclusi con un ciao, una promessa di capriolo, di una nuova mostra, con un biglietto trovato sotto un piattino e una coperta ancora lì.
E son passati lasciando quella sensazione che ti fa pensare che se qui non si bada a spese quando si tratta di raccontare brutte persone e brutti momenti, mentre poi si tengono nascoste quelle così belle, allora significa che non si è capito chi merita il tempo, i gesti, la gentilezza, le cure e chi no.
E allora stasera ripenso alle figure che ho davanti quando mi metto a scrivere e penso che Lisa è una persona così bella che se penso a quella, sempre generica, di quelle che potrebbero non essere felici di leggere parole per un’altra mi viene solo da dire che proprio perché non sono felici di leggere queste parole si trovano a leggerle riferite ad altre e che non trovo ragioni logiche per preferire il loro sorriso a quello di Lisa.
E quando penso a quella sua, sempre lei, che leggendolo da lontano potrebbe pensare che il suo posto in cima è stato occupato, penso che se mi potesse vedere, se avesse potuto vedere Lisa mentre ascoltava raccontare di lei, allora lei per prima sarebbe contenta, per una volta, di leggere parole dedicate ad altre persone.
E sarebbe contenta per me, perché saprebbe che la mia scelta di stare da solo, di ridurre al minimo i rapporti umani, non è fatta per star lontano dalla gente, ma per avere il tempo e la calma necessari per scegliere persone che davvero valgono.
Perché il tempo è prezioso, anche quello di un piatto di pasta, e non va offerto a tutti.
E lo spazio è prezioso, anche quello di un merdaflecs, e non va diviso con tutti.
E io non sono solo, anche quando lo sembro, e non ho bisogno di tutti.
So scegliere.
Voglio scegliere.
E voglio vivere con poche persone accanto, ma davvero speciali, delicate, di valore.
E quando se ne aggiunge una è una festa alla quale vorrei partecipassero anche le altre poche.
E da oggi si è aggiunta anche Lisa, a quelle poche.
Bella che mi accarezzava anche mentre parlavo di un’altra.
Quante ce ne sono così?
Cinque?
E io di cinque mi circondo.
Voglio vederle bene, le belle persone.
La folla è somma di mediocri.
Si arriva sempre a totale cento.
C’è chi ne accetta cento che valgono uno, chi ne vuole cinque che valgono venti.
A parità di totale, io esco molto meno degli altri, ma mi sento tanto tanto meglio.
Perché vengo scelto da persone che valgono venti e da loro mi vedo regalare il loro tempo.
E per questo le ringrazio senza nascondermi.
A differenza di quello che pensavo di fare quattro giorni fa.
Quando non ricordavo più molto bene la differenza tra una carezza fatta prima, di sentir parlare di un’altra donna e una carezza fatta dopo.

Se vi capita Lisa tra le mani, parlateci.
(magari, voi, non di un'altra)


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