23 settembre 2006

The Big Two

Il seguito del post più lungo della storia.
(ovvero: come metterci tre settimane per raccontare una storia durata una settimana.
Il post, appunto, è più lungo della storia che racconta)


Parte 2.

Sul mare non c’era nessuno.
Quando sono partito, temevo che la mancanza di spazi miei, momenti miei, tempi miei, si sarebbe fatta sentire dopo pochi giorni.
Non è facile, quando si è abituati a vivere soli da anni, la condivisione di spazi con altre persone, per più di un numero di giorni difficilmente quantificabile, ma comunque basso.
Ma sul mare non c’era nessuno, in quei giorni.
E io così avevo tutto il tempo per i miei discorsi.
Io mi faccio i discorsi, da quando sono piccolo.
Come fossero prove teatrali, intendo.
Io non penso e basta, io rappresento.
Come quella storia che i bloggers pensano sotto forma di post, io penso sotto forma di sequenza cinematografica; sarà il lavoro, sarà un bisogno, boh.
Preparo la location, vesto il mio interlocutore, scelgo il tempo, la durata (no, quella no, mi faccio sempre prendere la mano) e insceno il pensiero come fosse un primo ciak.
Se per caso il dialogo non mi è piaciuto lo rifaccio da capo.
Faccio ripetere al mio interlocutore le cose che mi ha detto e rispondo in maniera diversa o magari nella stessa ma cambiando tono.
Forse ha anche un nome, questa cosa, chissà.
Qualcuno di sicuro ci vedrebbe dentro una patologia, io ci vedo dentro la stessa fantasia che si mette quando nei lunghi viaggi in macchina, in treno, quando non ti interessa quanto manca e hai un vetro davanti, ti avvicini e lo appanni col fiato per disegnargli sopra con il dito la sagoma di chissà cosa, quasi sempre un cerchio, un coniglio, un fiore, una nuvola, sagome senza senso apparente ma chissà perché sempre senza angoli, per cancellarle col palmo quando non soddisfatto della linea tracciata e risoffiare sul vetro e ridisegnare ancora e ancora cancellare e ancora passare il dito a tracciare linee che mettono quel qualcosa tra te e quel che c’è di fronte solo per vedere l’effetto che fa un cerchio, un fiore, una nuvola, su ciò che nemmeno fai in tempo a cercare di migliorare che già è passato oltre, ma tu sei sempre lì, a disegnare linee, il tuo dito il pennello, un qualsiasi vetro il cavalletto, il tuo respiro la tela.

Sul mare non c’era nessuno.
Quando penso sto attento anche al tono che uso, se mi arrabbio provo le diverse versioni, quella dello sfogo, quella della comprensione, quella del menfreghismo, ogni possibile variante è un momento dei miei pensieri e per ognuna di esse io ripeto la scena.
Quando nella realtà una situazione non è andata come avrei voluto o come penso sarebbe dovuta andare, la rimetto in scena nei miei pensieri e provo le possibili diverse reazioni, per capire se, dove, perché ho sbagliato o come, dove e con che parole avrei potuto migliorarla.
Recitando io tutti i ruoli, il rischio di far parlare il mio interlocutore come io avrei voluto è sempre alto, ma col tempo ho imparato che pensare in maniera cinematografica non serve, se cambi il tuo interlocutore a tuo piacimento, diventa solo un puro esercizio fine a se stesso, tanto per darsi sempre ragione.

Sul mare non c’era nessuno.
È invece un esercizio insostituibile se lo fai come se fosse una macchina per cloni, perché per riprovare le varie scene dovresti avere l’interlocutore sempre presente a tua disposizione disposto a ripetere per dieci, cento, mille volte la stessa frase solo per farti da sparring partner e non lo puoi avere, quindi lo replichi nella mente, ma lo devi replicare per come è lui nella realtà, con i suoi esatti modi, le sue esatte reazioni, i suoi stessi pensieri e modi di esporli.
Per farlo devi diventare bravissimo a leggere le persone perché poi quando te le porti a casa nella tua mente, devi essere in grado di farle parlare come parlerebbero loro, altrimenti i dialoghi che proverai saranno falsati e i ciak inproduttivi e infiniti e le scene diventeranno finte e te ne accorgerai e dopo un po’ ti annoierai perché sentirai che non son realistiche e tu non vuoi darti ragione, vuoi avere solo un’altra occasione, anche per sbagliare, ché ci sono modi diversi per sbagliare, ce ne sono di gravi e ce ne sono di lievi ma difficilmente si ha la possibilità di viverne un secondo quando se n’è vissuto un primo, qualsiasi, ed è un peccato perché non è che gli sbagli sono tutti da ergastolo, a volte lo sono solo per una non corretta scelta dei tempi e dei dialoghi, mica perché non si era in grado di sbagliare un po’ meno.

Sul mare non c’era nessuno.
Non mi sono sentito stretto, quest’estate al mare, perché non c’era nessuno sul mare e io potevo passare ore a provare le mie situazioni.
Quando vengono bene vado avanti nella sceneggiatura.
Se desidero tanto stare a tavola con qualcuno, ma per motivi non dipendenti da me non lo posso fare, mi invento la scena e me la vivo.
Mi creo la situazione come la vorrei, luogo e tempo e comincio la mia rappresentazione.
Anche per ore, nella mia mente, faccio accadere le situazioni.
Non flash, proprio situazioni come fossero film, anche come durata.
Così passo intere giornate con qualcuno, senza che questo qualcuno lo sappia, esco a cena con persone che non possono esserci, vado al cinema, tutto quello che non posso avere io me lo invento e lo rendo reale perché lo vivo come reale.
Mio padre non è morto, per esempio.

Leggevo il libro con le cuffie nelle orecchie, nessuno intorno, la spiaggia deserta per ore, per giorni, nemmeno un culo da guardare, un costume da immaginare tolto, uno straccio di tetta al vento, un cazzo, niente, io il mare il libro la musica e il nulla.
Il nulla?
Rifaccio.

Esterno giorno.
Campo largo: io il libro il mare la musica e nessuno intorno.
E allora cosa non va?
Perché non sei nel libro, Bruno?
La musica.
Ho capito dopo, era la musica.
Parlavano.
Mio padre non è morto.
Era una canzone e c’era il cantante che cantava.
Ma ti pare che ho tempo per ascoltarti?
Ma non lo vedi che sto leggendo?
Torno nel libro.
Chiudo il libro.
Cambio canzone, chissà che non ce ne sia una adatta.
Chi è quell’uomo sul mare?
Non c’è nessuno.
Come no, guarda bene.
Ah cazzo è vero.
Ma questa musica non è adatta, ci vuole qualcosa di adatto alla scena.
Tipo qualcosa che sia solo musica senza parole così le parole ce le metti tu che la scena la stai disegnando tu e tu fai video vuoi vedere che non ci metti sotto la musica giusta.

Ma dicevo, il mare.
Io poi un giorno parlerò di questo libro qui, no, non è un link, non c’è un link, ho detto un giorno e questo non è un giorno.
Guardo il mare.
A che serve comprarsi mille mila giga di spazio musica se poi non si ha tempo voglia capacità di trovare la musica giusta per ogni scena alla quale si assiste con le cuffie in testa?
Ecco, i lettori da mille mila giga, ho scoperto, sono stati inventati per quelli come me che quando vedono una cosa sul mare, vuoi per deformazione professionale, vuoi perché amano commuoversi, vuoi perché sono teste di cazzo, chiudono il libro e cominciano a guarare l’archivio musicale per trovare quella giusta.
Sia mai che una sequenza, nella mente, non riesca come sai che potrebbe.
Ah, cazzo di mestiere che faccio.
A furia di far sognare gli altri, vaffanculo, si rimane prigionieri della soglia minima.
La conoscete voi la soglia minima?
No?
La soglia minima è quella che una volta conosciuta indica i punti di partenza.
Le avete mai fatte alzare in piedi a ballare, voi, cinquemila persone?
No?
Ah, piccoli uomini.
Perché non mi drogo pesante, io?
Perché ho fatto alzare e ballare cinquemila persone.
L’amigdala (o quella roba lì) ringrazia.
Prego.
Mio padre non è morto.
La soglia minima per me è cinquemila.
O io moltiplicato cinquemila.
Cinquemila lire, cinquemila baci, cinquemila sogni, cinquemila volte tu.
Mi chiedevo che musica mettere, quando, preso dalla sindrome da eccesso di canzoni disponibili (quella che ne hai cinquemila e finisci con l’ascoltare sempre le stesse tre), improvvisamente mi è venuto in mente un bel gioco.
Il gioco dei titoli.

Nei lettori da mille mila giga si può fare il gioco dei titoli perché ci sono così tante canzoni che alcune non le hai mai ascoltate.
Come quando una volta partivi per le ferie con la cassettina colle canzoni che avresti ascoltato, in tutto venti, lo so l’ho già scritta ‘sta cosa non cagate il cazzo, solo che oggi ne metti cinquemila, di canzoni, prima di partire, molte delle quali non le hai mai sentite e quindi puoi fare il gioco dei titoli.
Il gioco dei titoli è quel gioco che tu dici “Ho davanti un cavallo, ora metto in cuffia una canzone che nel titolo ha la parola cavallo e vediamo se cinematograficamente ci sta”.
Se ci sta, il musicista è bravo (e tu te la puoi rivendere nel primo video che ti capita di fare che parli di cavalli), se non ci sta sei stato truffato.
E poi c’era quella cosa lì delle parole che disturbavano e quindi ti indirizzi nel menù del lettore a selezionare solo brani strumentali e oplà, ci trovi Einaudi ché un giorno una tua lettrice ti disse “Ehi, Einaudi, non te ne pentirai” e sfogli gli album che ti sei portato dietro e ci trovi oplà che culo “Le onde”.
Ocazzo.
Mare-onde.
Vediamo se lo stronzo ci ha preso.
Mio padre mi raggiunge e mi fa:
“Ciao, che cazzo leggi brutto maiale?”
“Ehi, papi, ancora ‘sta storia?”
“Mica è colpa mia se sei nato maiale e morirai maiale”.
“Me l’hai già detta ‘sta cosa”
“Te la ricordo”
“Ti pare ce ne sia bisogno?”
“Non si sa mai, tu non hai memoria”
“Ce l’ho selettiva, papino, e comunque se vogliamo dirla tutta un po’ colpa tua lo è, poi, bisogna vedere, tu la chiami colpa, io la chiamo una delle poche cose buone che hai fatto, ma lasciamo stare che tanto dicono che per il momento quello morto sei tu, nemmeno troppo dignitosamente tra l’altro, potevi metterla su meglio la scenetta, una vita intera a metterti le giacche di cashmìr (i maiali non sanno scrivere) e poi ti fai trovare dopo settimane grazie alla puzza di morto fin giù in strada, eh, dai, ma che è, abbiamo un cognome da difendere, una cazzo di donna che rimanesse più di cinque minuti dopo non la potevi proprio trovare?”
“Le donne che rimangono cinque minuti dopo, poi vogliono la borsa. O la vita”
“E non le potevi dare la borsa che tanto era vuota e in genere era pure la sua così magari per una volta ne rimandavi a casa una non proprio privata di tutto?”
“Maiale, non cagare il cazzo, tu non hai mai capito nulla di donne, ti ho chiesto cosa stai leggendo”
“Un libro regalatomi dall’uomo che l’ha scritto”
“E di cosa parla?”
“Di te”.
“Maiale, non esistono libri che parlano di me”
“Questo si, è per questo che chi l’ha scritto me l’ha regalato senza dirmi di cosa parlava, sapeva che avrei dovuto leggerlo”
“E da quando leggi, maiale?”
“Bruno, papi. Bruno”,
“Maiale, figlio, fidati”
“Vabbè, lasciamo stare, tu non hai mai capito nulla di figli, dicevo, questo libro parla di te”
“E cosa dice?”
“Quello che ho sempre pensato”
“E da quando pensi, maiale?”
“Da quando ho pensato che fossi morto, papi”
“E cosa ti fa pensare che non sia morto, maiale?”
“Papi, meno male che hai messo la virgola, altrimenti non avrei saputo come andare avanti”
“Non fare lo stronzo, vorrei vedere te a stramazzare sul pavimento col petto aperto per due ore”
“Vorresti vedere in che senso?”
“Niente, maiale, niente, si dice tanto per dire”
“Come si muore tanto per morire?”
“Tu non hai mai capito un cazzo di nulla”
“E tu non hai mai capito un cazzo di figli”
“Maiale”
“Stronzo”
“Figlio di puttana”
“Ehi”
“Ok, pezzo di merda”
“Puzzo di morto”
“Cacca di pistrello”
“Piscio di vacca”
“Ehi”
“Ok, caccola di rinoceronte”
“Merda di lombrico”
“Fango di palude”
“Sterco di triceratopo”
“…”
“Ho vinto”
“Non hai vinto un cazzo”
“No no, ho vinto io”
“Mavaffanculo”
“Devi pagare pegno”
“Ancora?”
“Ancora”.
“E che devo fare, ‘sta volta, tagliarmi un braccio?”
“No, devi fare silenzio e guardare il mare con me”
“Quale mare?”
“Quello”
“Quello quale? Io vedo solo la luna”
“Papi, minchia, per una volta, solo una, non ti vede nessuno, guarda il dito”

[segue]
(Broono è in viaggio per lavoro e ci starà per un po’.
Voi nel frattempo, dopo aver letto questo, ringraziatela per il fatto di avere un blog e per un’altra cosa bella a caso a vostra scelta, che anche tirando a caso, datemi retta, ce l’ha)

20 settembre 2006

Era

Era puntina di giradischi che sapeva saltare, rimanere sospesa finchè il solco esatto della nota abbandonata non concludeva il suo giro e tornava sotto di lei, si lasciava cadere riprendendo la musica e nessuno si accorgeva di nulla, del salto, della sospensione, del silenzio, non era silenzio, era assenza di altri suoni, era sgomebrare il campo, l’aria, lo spazio intorno, shhhh.
Eran giochi da bambini, l’incoscienza del burrone, la discesa senza freni, sangue sui ginocchi chi ti ha fatto questo segno io solo io sempre io lo so ma dillo, dillo, dillo.
Con l’orgoglio dentro gli occhi, aperti fissi, pare quasi morto, no, lo possiamo salvare, no, non salvatemi, ma siete scemi, finisse ora sarebbe vita, è vita, comincia ora, pare morto, non lo è, fatevi i cazzi vostri.
L’ipotesi la faceva da padrona, accolta, il terzo comodo, io la base, tu l’altezza, divisi due, uniti uno, spiegami, piegami, permesso, non chiedere, vieni, visi, vinci, mi.
“Vorrei che il tempo si fermasse” “Ma che sono baci perugina?” “No no, vorrei proprio che il tempo si fermasse” “Ma sei banale” “Si, ma intanto vorrei che il tempo si fermasse”.
Oh, manco avessi chiesto un bicchier d’acqua.
S’è fermato davvero.

16 settembre 2006

The Big One

Il post più lungo della storia.
(ovvero: come metterci tre settimane per raccontare una storia durata una settimana.
Il post, appunto, è più lungo della storia che racconta)


Parte 1.

Prologo.

È la percezione esatta dei propri confini, prima, e la sua reale e sincera accettazione poi, ho sempre pensato, l’unica base sulla quale può poggiare quella condizione di serenità o quantomeno equilibrio, alla quale anelano tutti, chi più chi meno, quelli incapaci di non porsi domande; percezione e accettazione, come condizioni necessarie per poter poi partire in quel lungo viaggio che si chiama vita, durante il quale, chi si pone domande con la frequenza del respiro, si vedrà opporre un tale numero di ostacoli certi, da aver necessariamente bisogno di un mezzo di trasporto ben revisionato e perfetto (o comunque al meglio delle possibilità) come meccanica, prima che come carrozzeria, per sperare di non rimanere impantanato nella prima pozza di fango che incontrerà, ché la carrozzeria dopo la lavi, ma se le ruote non girano, tu il dopo non ce l’hai.

Perché chi si pone domande continue, è uno che vive costantemente in una pozza di fango dopo l’altra e la domanda altro non è, di volta in volta, che una diversa pronuncia della sempre identica “Come ne esco?”, apparecchiata ogni volta in maniera diversa, ma nella sostanza sempre identica.
Non è un lavoro facile, la prima fase, quella della percezione esatta, soprattutto.
Perché il percorso che porta a quella percezione è lungo e tutt’altro che semplice, ma ha di buono che proprio il suo essere lungo fa si che la convivenza alla quale man mano durante il percorso ci si abitua inconsciamente, con i neo scoperti (curiosa analogia) confini, ce li faccia apparire familiari e quindi di più facile accettazione quando giunti al momento dell’evidenza.
No, non sta parlando uno che quel percorso l’ha compiuto.
Io forse non sono nemmeno a metà.
Per il momento sono ancora nella fase disegno, dei confini; l’accettazione, allo stato attuale, non è ancora parte dei programmi dell’immediato futuro, né tantomeno è all’orizzonte.
Li sto scoprendo piano, con meraviglia in alcuni casi, paura in altri, ma sostanzialmente con stupore.
Lo stupore dello scoprirsi capace di dirli ad alta voce, più che del vederli, ché in fondo tutti li vediamo bene da sempre, ciascuno i suoi, non ci si prende mai in giro quando si è soli in ascensore (quelli con lo specchio).
Come una linea continua sto lentamente disegnando la mia sagoma, da una decina d’anni a questa parte, come si segue con un dito un profilo stando bene attenti a non staccare il dito per non perdere il percorso fatto fino a quel punto.
Come quando segui il profilo del corpo di una donna addormentata sdraiata su un fianco accanto a te, con lo stesso piacere leggermente sporcato dalla tensione della cautela che si è costretti a mettere nel tocco per non svegliarla, pena l’interruzione di quel percorso delle dita.
Perché il profilo è una linea unica, continua, percorribile solo se non si stacca mai il dito dal tratto precedente.
Se si interrompe, se si sveglia, si deve ripartire da capo.
Se non si riparte da capo, non si riuscirà a seguire la direzione giusta, perché ogni punto in cui cambia direzione è influenzato dal punto precedente.
Il profilo è di fatto una lunga unica curva di Bezier, lungo la quale ogni direzione è influenzata dalle precedenti, tutte.
Quando si vive per qualche tempo in posti dove il dialetto è la lingua più diffusa, si ha tempo di scoprire che le parole hanno davvero un senso, un’importanza, una storia.
Tutte cose che le parole non hanno perso, se non da noi, dove qualcuno un giorno ha detto che bisognava parlare italiano, andandosene però poi al bar nel momento in cui avrebbe dovuto spiegare qual'è, l'italiano.

In calabrese, “Tornare a casa” si dice (pronuncia) Ricogghìrsi (accento sulla penultima i), tradotto: Raccogliersi.
Non è Tornare in senso generico.
Tornare in senso generico si dice proprio Turnare, la solita U a far la lieve calabrese differenza, come la S in spagnolo per chi non ne sa.
Se ti devono dire, per esempio, “Brun(ell)o, sei tornato!” (i parenti che ti vedono ogni dieci anni ti chiamano sempre con il nome dell'ultima volta, anche se quell'ultima volta tu avevi dieci anni e ora ne hai trentaquattro e io, a dieci anni, mi chiamavo Brunello, non in famiglia e basta, proprio Brunello) ti dicono “Brunicè, turnàsti!”
No, per dire “Tornare a casa” hanno una parola apposta e questa parola è Raccogliersi.
Se ti devono chiedere “A che ora sei tornato (a casa), stanotte?” ti dicono “A chi ura ti ricogghisti, aieri sira?”
Pensando a questa cosa mi son detto che dev’essere una radice che riporta a quella caratteristica, ormai scomparsa, o quasi, al nord, tipica delle famiglie del sud che le vede sempre numerose (due elementi non si raccolgono, si incontrano, si raccolgono quando sono un certo numero) e la loro abitudine a consumare i pasti tutti insieme, figli, cugini, parenti di ogni grado e lontananza raccolti in ogni angolo dei paesi, tutti riuniti ogni volta possibile intorno a un tavolo, nella stessa stanza, raccolti appunto.
Quando torni a casa, in calabria, fosse anche solo per mangiare, ti raccogli con gli altri.
Ecco perché c’è una parola apposta.
Una bella, parola.
Raccogliersi con gli altri elementi della famiglia.
“Perché non distinguere una cosa tanto importante, con una parola apposta che fotografa l’evento preciso” si saranno detti qualche secolo fa, quando intorno a un tavolo i creatori delle parole si son messi lì a stabilire come si sarebbero dovute chiamare le cose.
Si narra (non è vero, come sempre me le invento per romanzare un po’ quella che sarebbe altrimenti la mia solita fuffa) che la prima riunione iniziò quando durante un litigio, due contadini contendenti rimasero impantanati nella discussione perché quando uno dei due esclamò “Chiamiamo le cose con il loro nome!” l’altro rispose “Va bene, ma qual è?” e così decisero una tregua e si misero intorno a un tavolo, alleati nella ricerca dei nomi di ciò che si accusavano di essersi rubati a vicenda, condizione unica e necessaria per potersi poi fare la guerra.
Se non sai per cosa fai la guerra, come puoi sperare non dico di vincerla ma almeno di finirla?
Per quello, quando non si sa per cosa si sta lottando, si finisce con il lottare per l’unico nome il cui significato associato ci è noto e cioè il nostro.
Secoli di guerre per il proprio nome, quando bastava dare quello giusto all’oggetto del contendere per scoprire magari che non meritava tutta quella violenza.

Raccogliersi è una bella parola.
I due contadini, infatti, soddisfati del risultato ottenuto, mica se la fecero poi, quella guerra.
Anzi, la figlia di Domenico, Mimmo, Caminiti, uno dei due contadini costituenti la costituente che associò le parole ai significati, venne offerta in sposa a Sarino, il figlio di Giuseppe, Pepè, Procopio, l’altro contadino.
Furono anni di raccolti, da quel giorno in poi.

Poi c’è una variazione della leggenda (non è vera nemmeno questa, è sempre per la cosa della fuffa di cui sopra), secondo la quale la parola Raccogliersi, deriverebbe in realtà sempre da quei due contadini, ma non da un generico assegnare significati per poi potersi fare la guerra in santa pace, bensì proprio da quel loro duello trasformatosi in amicizia.
Raccogliersi, infatti, secondo questa variazione della leggenda, sarebbe la contrazione di Ri-Accogliersi.
Fare pace, insomma.
Dal giorno del matrimonio in poi, infatti, Mimmo, Pepè, i figli sposati, i nipoti, i cognati e tuttu ‘u’pedi d’u’cucuzzaru, si r(i)accolsero ogni giorno due volte al giorno nella stessa casa, dentro terre i cui confini a quel punto si erano uniti per formarne uno unico, percorribile con un dito come il profilo del corpo di una donna addormentata accanto a te, a consumare i frutti di raccolti, raccolti in terre delimitate da nuovi ampi confini dai frutti di frutti raccolti, o “sposati”, Mimmo e Pepè si trovarono d’accordo anche sul fatto che si potesse anche usare una parola apposta, che l’occasione era speciale, e inventarono “sposati”.
Una parola che rappresentava confini più ampi che raccoglievano frutti più raccolti.
Pareva quasi un controsenso e per questo fu accolta con scetticismo e diffidenza, quando presentarono al paese tutto la nuova parola.
Ma era il paese che era fatto ancora per lo più da contadini non scolarizzati, che si chiedevano più che altro a che ora si mangiava, più che quanti sarebbero stati a tavola, che per esperienza sapevano che la quantità di cibo non era mai stata un problema, se era una pagnotta, si divideva, due uova non le mangiavano in due, si faceva pasta per tutti, era l’orario che a loro interessava, ché la giornata era stata pesante e le spalle reclamavano pane e pomodoro.

Sarino ebbe giusto un paio di osservazioni da fare a suo padre e al suocero, su quel loro non essersi particolarmente impegnati nel trovare una parola anche per la sua nuova condizione, che secondo lui non era bello che ogni volta che diceva che si era “Maritato” gli altri ridevano, ma vabbè, non si poteva avere tutto e lei era bella e le uova bastavano perché si erano raddoppiate le galline in famiglia e andava bene anche così, senza stare a fare i puntigliosi, tanto lui la sua soddisfazione ce l’aveva quando la notte lei si addormentava su un fianco, le spalle a lui, che a quel punto, ogni notte, poteva fare quel gioco di seguirne il profilo del corpo con un dito, per sentirne il confine e immaginare che avendo lui il dito appoggiato sul suo corpo, il confine proseguiva salendo dal suo dito al suo braccio alla sua spalla al suo petto al suo cuore, ogni notte, quando lei dormiva, lui la sfiorava per diventare con lei un’unica linea percorribile con quel dito che chiedeva soltanto di potersi non fermare mai seguendo quella linea che passava da lei a lui da lu a lei e poi di nuovo a lui, solo, soltanto non staccando mai il dito dal suo profilo, sarebbero stati uno unico.

[continua]

15 settembre 2006

se telefonando

Si ok..no…lo so…ma…aspett…si, cert..ma è sposat…no no..si…ti ha detto che la lasc..si ti ha detto a settem….ok, d’accor...ma ogni volta ti dice due mesi dop…va bene…si, si si, lo so…si…i probl…si, lo so, la famig…no aspet…questa volt…no…un atti…ma ha un figl…ah…lo fa per lu…si…no, lo so che non può lasciarl…ma non dovevate fare le vacan…ah non poteva lasciar…il figl…si si, è proprio buo…si…no..un attim…fammi parl…ma da quant…ma tu non vorr…si, si si, è ver…ma la mogl…ah ti ha chiam…ma lo sa…che signif…ma come “non doveva incazz..ma tu che avr…si ma lui…potev…no…dico non darle il tuo num…ah l’ha trov…e certo se lo lasci in mem…si ma adess…no dico il bimb…aspett…fammi dire un cos…si è buon…si non vol…si, si si…ah adesso è lei che non vuol…si lo so ora è più diffi…ah lo ricat…ma come ancora due mes…di nuovo…ma non doveva trasf…ah ha già fatt…un colloqui…ah si…e com’è and…che vuol dire “non lo s…ma si dico avrà…gli avranno dett…e quanto attende la rispos…si lo so è un momento diff…si certo tutti licenz…ma intant…quando…ah è venuto a Mil…si gran ses…si lo so bello..no, no dic..si l’amor…no..no non ti sto prend…aspett…cazzo fammi parl…è già il terz…anche gli altri dovevano lasci…ma non capisc…si questa volta è div…lo so…no..non dico che…ma no non lo conosco come poss..no dico in gen…ma tu inta…che vuol dire che non mang…si come lui ness…si le stel…un regal…ma dai…si molto bel…spedit…davvero non te l’ha por…ma quando vi riv…ah già non puoi sap…fammi dir…aspet...zitta un att…certo…ma da quant…ti va se ne parl…come non esci pi…ma c’è un bel concer…aspetti cos…e se poi non chiam...ma puoi stare tutta la ser…si lo so poi…vabbè ti richiamer…e certo che non sai quando potr…è questo infatt…no..un attimo…cos…aspett…fammi parla…si io sono ancora da sol…no non è…certo non è fac…no è che non vogl…è che vorre…si…cosa…un suo messag…si metto giù…si chiam…si si dopo ci sono, si… ciao.

11 settembre 2006

a mare

Pessima l’idea di venire a lavorare al mare.
Geniale l’idea di venire al mare.
Ieri sera, essendo sabato sera, mi sono dato alla pazza gioia e al divertimento sfrenato, come vacanza comanda.
In pratica mi sono guardato il concerto di Gigi d’Alessio insieme a mia mamma e mia nonna, che nel frattempo mi (ci?) insegnava, ormai è diventato l’obiettivo dell’inverno, a fare la pasta a mano come si deve, altro che con la macchina.
Tornando a casa mi sono chiesto se tutta questa adrenalina non rischi di farmi male.
No.
È stata la risposta.

Ma più di tutte, tra le sere di questa settimana tutte passate a cena da mia nonna, mi rimarrà impressa quella di due sere fa, quando ci siamo messi a guardare il programma storico della rai, del quale non cito il titolo per evitare i motori di ricerca, quello fatto molto bene.
Mi rimarrà impressa come mi rimangono impresse tutte le sere nelle quali racconta.
Che io mi auguravo il racconto della battaglia navale e mi sarei accontentato.
Non immaginavo cosa avrei, invece, ottenuto quest’anno.
Mia nonna è, come tutti gli anziani, un archivio enorme celato sotto un’apparente difficoltà di memoria, pronto a saltar fuori ad un minimo accenno di colore, di odore, di immagine.
Un patrimonio dal valore incalcolabile, completamente, o quasi, ignorato da tutti e per questo destinato a perdersi.
Ci sono ore e ore di documentari sugli incontri tra Mussolini e Hitler, ma nemmeno un racconto di come in quel momento la vita di un’italiana qualsiasi cambiava o stava per cambiare.
Ore di documentari sulla distribuzione del cibo, ma nemmeno una scena in una cucina mentre la famiglia si divideva quel pezzo di pane.
Ecco, gli anziani se ne andranno portandosi via quella parte là di storia, quella “di contorno”, quella di chi non ha deciso ma solo subito i grandi momenti della storia.
Si guardava la puntata dell’altra sera, come sempre dedicata al periodo delle due guerre mondiali.
Bastava un’inquadratura a un carretto e lei partiva con la descrizione del carretto, di come e quando veniva usato, del perché era costruito in un certo modo e di una serie di successivi aneddoti sul carretto che avevano loro in famiglia.
In quel momento il documentario non stava certo parlando del carretto, quello era solo una frazione di secondo in una scena ben più lunga e focalizzata su ben altri temi, ma lei lo ha visto e intorno a quello la sua memoria si è stretta.
Poi via, scena successiva.
Si parlava di una roba qualsiasi e per un istante inquadravano una donna che faceva il pane?
Racconto di quando durante la guerra fu distribuito il libretto per le quantità assegnate di pane, di latte, di tutto ciò che serviva razionare ma che era indispensabile per sopravvivere e aneddoti successivi che narravano come, essendo il loro un piccolo paese dove tutti erano amici e parenti, riuscissero ogni tanto ad ottenere una pagnotta in più.
Mia nonna è così, usa la televisione come rampa di lancio per i suoi ricordi, come se le servisse il la, uno spunto, una lancetta che indichi quale cassetto aprire di volta in volta.
Guardare la tv con lei è uno spasso, perché parla dei personaggi come fossero di famiglia, come stanno, dove sono stati recentemente, com’è la loro attuale situazione affettiva e ne parla dicendotelo con la stessa intonazione che usa quando ti racconta l’ultima novità su tuo cugino.
Per lei son così, sono di famiglia.

Come molti anziani uniti da questo modo di approcciarsi alla tivù, infatti, ha finito con l’essere berlusconiana, ma nel senso affettivo del termine, gli vuole proprio bene, va in apprensione quando quello diffonde la notizia dei suoi maldigola, è dispiaciuta quando lo fanno arrabbiare, ce l’ha con quelli che ce l’hanno con lui, in questo periodo guardare il telegiornale con lei è uno spasso, perché si incazza ogni volta che inquadrano uno del governo, non serve che parli, basta che lo inquadrino.
“Avevano detto che non gli impedivano di far politica e ora guarda, appena arrivati subito a togliergli le aziende…Guarda questo quant’è antipatico….Uh, si, tutti maestri adesso, prima operai, ora tutti maestri…Quello quando parla sembra un morto…” e via così, come fossero i sottotitoli di ogni inquadratura, non se ne perde una per sottolineare il suo essere assolutamente, visceralmente e fedelmente contraria a ogni alternativa al cavaliere.
E lo senti che le nasce proprio dal cuore, come ce l’avrebbe con uno che avesse fatto licenziare uno dei suoi nipoti, quel rancore lì, quello che non ha bisogno di sapere il motivo.
Ma se guardando il telegiornale, questo suo sottotitolare e commentare ogni immagine che vede è divertente, non avevo mai avuto modo di scoprire quanto fosse invece “didattico” l’esserle accanto quando la stessa cosa la fa guardando documentari sulla storia d’Italia.
Ho guardato quella trasmissione come se avessi davanti due voci narranti.
Una mi raccontava il generale, le cose principali, i grandi fatti, l’altra, la sua, raccontava il contorno, la vita che “intanto” accadeva, il piccolo, il domestico, il privato.
È come se a uno dessi il compito di indicarti una data e a un altro quello di raccontarti le relative 24 ore nel dettaglio.
Sono due livelli di narrazione molto diversi ma entrambi fondamentali per capire.

Esempio.
Durante una delle scene, venne inquadrato il Re.
Il documentario in quel momento fece un cenno al referendum che scelse tra monarchia e repubblica.
Ovviamente a grandi linee, narrando il grosso.
Lei in quel momento disse solo “Non fu regolare”
“In che senso?”
“Pure i morti, portarono a votare”
“Cioè?”
Ed è partita nel racconto di quel giorno, di come si svolsero le elezioni in questi paesi del sud e di come (e di chi) fece in modo che vincesse la repubblica.
Difficile dire che io non abbia aggiunto al mio bagaglio un tassello che da altre parti non avrei trovato, dopo i suoi racconti di quel giorno.
Si, certo, si sa che proprio regolare non fu, ma lo si sa col sapore della leggenda, mentre lei mi ha raccontato proprio il sistema, col quale si votò nel sud.
Altro che leggenda.
Così come fui rapito dal racconto che partì quando inquadrarono una bambina vestita elegante e lei se ne uscì con: “Io ero una Piccola Italiana”
“Cos’eri?”
“Una Piccola Italiana, ci chiamavamo così, i maschi erano i Balilla, le femmine erano Piccole Italiane e poi quando crescevi diventavi Giovane Italiana”
E da lì il racconto del Sabato Fascista, giornata nella quale i bambini venivano portati in spiaggia dove erano allestite delle enormi mense nelle quali venivano serviti cibi che il 90% di quei bambini, molti dei quali figli di contadini delle montagne, non vedevano in nessun’altra occasione, come la marmellata, il cioccolato, la carne.

Il racconto lasciava trasparire il timore di chi non poteva sottrarsi a quelle riunioni, attraverso frasi interrotte relative alle punizioni che subiva chi non si presentava, interrotte sempre nel momento in cui stava per dire cosa veniva loro fatto “Se non andavi ti facev…Beh…diciamo che era meglio andarci” unito all’impossibilità di negare che quei giorni fossero gli unici nei quali i bambini stavano bene e mangiavano bene.
E il mio chiederle informazioni stupide su chi dava loro le divise, su come funzionava realmente il Sabato Fascista, su chi lo comandava, domande il cui unico fine era provare fino a che punto di “futilità” poteva spingersi la mia curiosità ed fino a che punto poteva essere soddisfatta, ma che dietro avevano la reale voglia di sapere qualsiasi cosa, foss’anche un pettegolezzo, non fosse sui libri di storia.
Una serata così, piena di racconti su uomini reali e non nomi letti su un libro, su immagini reali e non viste in tivù, sulla Torino completamente distrutta dai bombardamenti che trovò al suo arrivo, sui militari nascosti in ogni casa per non essere trovati dai tedeschi, sulla tessera da partigiano dello zio, che io nemmeno lo sapevo che i partigiani avevano una tessera.
Pensavo che in quanto movimento clandestino non avesse nulla di scritto e invece c’era la tessera, con la differenza che invece del nome, portava scritto il nome di battaglia del possessore.
“Lupetto”.
Mio zio era Lupetto.
Dai, dove le leggi ‘ste cose qui?

Ma la svolta era lì a un passo.
In realtà durante tutta la serata avevo avuto sempre di più l’impressione che la sua critica al ventennio fosse più di forma che di sostanza, più dovuta al fatto che bisogna dire che è stato sbagliato, che al considerarlo realmente sbagliato.
Diverse frasi ambigue mi avevano fatto nascere il dubbio, dubbio che da lì a poco sarebbe stato spazzato via.
A un certo punto decise di raccontare il giorno dell’arresto di Mussolini.
Suo padre dormiva, mentre lei sentiva la radio.
Sentì la notizia dell’arresto e, nonostante fosse notte, corse a svegliarlo.
“Papà, u’rrestaru!”
“A’ccùi?”
“U’Dduce!”
Lui allora saltò di colpo sul letto e …
…E niente.
Mica lo so se si possono dire certe cose.
Diciamo che io l’altra sera ho scoperto delle cose sulla mia famiglia che mica le immaginavo.
Chi lo sapeva, che nella mia famiglia scorresse così tanto sangue fascista?
Sangue non nel senso di vittime.
Sangue nel senso di …ehm…diciamo “simpatizzanti”.
Porcaccia la miseriaccia, altro che documentari.
Alla fine della serata se ne uscì con l’ultimo, lapidario, inatteso (sempre di meno, in realtà) commento.
“Povero Mussolini”
“Scusa???”
“L’hanno ingannato” pausa “o si è ingannato”.

Io mica ce l’ho quel dono della sintesi lì.
Secondo me, per averlo, bisogna proprio esserci stati.

7 settembre 2006

al mare

Il paese è di quelli del sud, identico a qualsiasi altro paese del sud anche nei suoi tentativi di essere diverso, quei manifesti semistrappati testimoni per l’intero anno successivo e per questo mai rimossi dagli indigeni che se ne guardano bene dal privare il paese di una così preziosa testimonianza di stagione ricca, lasciati dai vip sotto una certa cifra, pagati perché il paese si possa far bello per l’intera stagione a venire nei confronti del paese prima e di quello dopo, cantanti e sciogherl che passano come tutti l’estate nei paesi del sud tutti uguali, lasciando tracce di sé sui muri in modo che tu, arrivato tardi, possa dire “Accidenti, mi sono perso Serena” guardandole le tette bene in evidenza nella foto sopra la scritta “Domenica alla sagra dello stocco” seguito da “Però, quest’anno è venuta Serena! Questo si che è un paese diverso da quello prima e da quello dopo” per poi vedere il manifesto di Serena nel paese prima e poi in quello accanto e poi ancora in quello dopo e pure in quello superiore perché qui ogni paese ha il suo gemello superiore, i contadini e i bagnanti di una volta, Serena insieme a Mino Reitano, alla compagnia della Salsa direttamente da Cuba a Christian a Zarrillo e al venditore di zucchero filato e nocciole caramellate e torroni improponibili e ceci o calia, come si chiama qui, come tantissimi italiani qui ci passano le ferie solo che loro le passano ogni giorno in una piazza, che essendo una si chiama “la piazza” anzi, ‘ntaaa-piazza…’ndividimu ‘ntaaa-piazza passi paaaa piazza e il corso principale che essendo uno solo si chiama soltanto il corso, ‘ndi facimu ddddupassi sutta’o’curzu? Aund’uccattasti? U’ccattai’jassutta ‘o’ curzu, solo un’altra piazza poteva far concorrenza alla piazza, ma per non rischiare il disorientamento è sempre stata a’ piazzetta, così da non dover trovarle un nome per differenziarla e poi la terza, ancora più piccola, chiamata a’rotonda, perché è rotonda, hanno fantasia in questi paesi e voglia di usarla, si capiva stamattina, quando in spiaggia, io, la famiglia del negozio di canotti e maschere finalmente in vacanza e Rutelli, avevamo tempo modo e spazio per guardare con quale fantasia si smontava il paese per metterlo via per l’inverno iniziato improrogabilmente il primo settembre e pronto a finire il 1 di agosto, giorno in cui in questi paesi comincia la seconda stagione dell’anno, delle due che hanno, quella con e quella senza le famiglie che tornano giù a tirar fuori il motoscafo dal garage dello zio, se è ancora vivo, naturalmente, che in questi paesi a leggere i muri pare che su ottomila abitanti, tanti ne conta questo paese, almeno duemila muoiano ogni giorno e quando non muoiono si annunciano le celebrazioni di quelli morti un anno fa e poi cinque anni fa e poi dieci anni fa e via così, appuntamenti per gli anziani del paese che in queste occasioni si contano e si fanno le analisi per puntare sul prossimo, e i muri te lo dicono a ogni metro chi è morto e se hai pazienza di farti a piedi tutto il corso arrivi alla fine del paese, dove in bella vista si staglia nel blu del cielo il cartello principe, quello con il nome del paese che di alcune di quelle morti ti suggerisce anche la possibile causa e soprattutto la necessità di non star lì a chiedere che non è cosa, io e Rutelli oggi passeggiavamo soli soletti in questo paese deserto chiuso per ferie e io gli domandavo se sapeva dove si potesse comprare il giornale, che a me, anche quando in vacanza, piace leggere le uscite intelligenti dei politici che loro sanno e conoscono il territorio e la gente e la piazza e il corso, anzi u’curzu, e a’rotonda, ciao ma tu sei il nipote di rosa, ma come ti sei fatto grande quanti anni hai sei qui perché ancora non è iniziata la scuola signora quanti anni ha suo nipote ‘ndavi trintaquattru anni si’ccatau a casa, lavora sapiti, lavora ammmilano uuuuuuu chissiibbellu, m’u’ricordu quandu ‘ndavìa sett’anni focu comu ti facisti grandi la nonna cuce le tovaglie per quando torno a casa perché se avrò ospiti devo mettere i tovaglioli belli, e sono belli davvero, ridendo per l’emozione mi ha mostrato la stoffa comprata ancora da tagliare perché non sapeva la misura del tavolo ora la sa è centoquaranta per ottanta, un tavolo piccolo, mica come quelli qui, come quando avevamo sett’anni e si veniva tutti in vacanza ad agosto nella casa vecchia, quella che è ancora lì, tetto crollato, monumento di sei generazioni e qualche bombardamento americano, come quella volta che ci fu la battaglia navale davanti alle coste e tonnellate di pesci si riversarono sulla spiaggia ma nessuno nonostante la fame post bellica li mangiò perché si erano cibati dei corpi dei soldati e ogni anno me la racconta e quest’anno ancora no perché ci siamo visti solo oggi e voleva sapere della casa ed era più felice di me per quella cosa del ritornare nell’altra e rideva dalla contentezza perché anche lei lasciò una casa che non aveva finestre sul sole e lo sa perché si fa che il sole è luce e la luce sono fiori, domani spero me la riracconti la storia della battaglia navale, che io sono un tradizionalista, vacanze da nonna e mamma, il paese di quand’ero piccolino, io quattro abitanti e i manifesti di Serena Belle Tette di una festa che mi sono ormai perso, che voi non l’avete mica capito cosa voleva dire Rutelli, avete tutti pensato che stesse dando ricette al popolo e invece parlava con me, solo con me, che oggi in spiaggia eravamo in quattro su sei chilometri di mare meraviglioso come solo lo jonio sa essere e io infatti gli ho dato ascolto e sono qui, a lavorare ma solo di notte, per poi mangiare e nuotare di giorno, senza nemmeno un turista, il deserto, manco un negozio aperto, dio che bello, un paese fantasma ma con il caldo di luglio, il mare di agosto e il cibo del sud.

Dove sono e con chi sarà argomento del prossimo post.
Perché mia madre è un’alchimista.
E, lo so non ci crederete, per una volta non sto parlando di me.
Ora è tardi, ho finito di lavorare ed è ora di andare in bed, che tra tre ore c’è la sveglia col breakfast e poi spiaggia, de beach, sutt’aviamarina.