28 dicembre 2004

Mum

Mamma Mària era una di quelle persone che non avevano paura di andare in pensione.
Lei sapeva che quella non era la fine, ma finalmente l’inizio di una nuova fase della sua vita nella quale finalmente avrebbe potuto dedicarsi a quello che aveva sempre sognato.
Non era triste, infatti, Mamma Mària.
Anzi.
Decise così di dedicarsi a quello che per molte è un hobby come un altro, mentre per lei diventò subito la sua nuova attività, come avrebbe voluto e dovuto fare da anni.
Era più brava delle altre, del resto, Mamma Mària.
E come tutti i componenti della famiglia di Mario, che quando fanno qualcosa lo fanno in grande stile, invece di limitarsi a fare i lavoretti per passare il tempo, iniziò a inventare degli oggetti così belli che in breve lo spazio per soddisfare le richieste che riceveva non le bastò più, le persone interessate non furono più le solite due o tre amiche, quello che prima stava su un tavolo la portò ad affittarsi un laboratorio tutto suo.
Per finire con l’attirare, come è giusto che sia, su di sé l’interesse persino di un giornale, che le chiese di scrivere qualcosa per raccontarsi.

Lei chiese a Mario di scrivere qualcosa per quel giornale, perché se lei è brava con i pennelli, Mario, dice lei, era bravo con le parole.
Mario allora scrisse questo per il giornale:

“Il giorno che disse: “Sparecchiamo in fretta che voglio provare a fare una cosa”, Silvia, non immaginava che, da quel giorno in poi, non avrebbe mai più apparecchiato nello stesso modo.
Aveva sempre avuto, in realtà, qualcosa di colorato in mente, ma non aveva mai fatto spazio sul tavolo per vedere cos’era.
Che qualcosa quel giorno cambiò, fu chiaro a tutta la famiglia, la quale da quel giorno vide lentamente ma costantemente ridursi il numero dei piatti nei quali mangiare e dei bicchieri nei quali bere.
In compenso in casa iniziarono a comparire portacandele dedicati e vasi antichi e le pareti pian piano si coprirono di vetri colorati e di fotografie d’arte.
Trovare un vero e proprio inizio a tutto questo non è cosa semplice; ma forse non sarebbe neanche giusto farlo, visto che se inizio c’è stato è agli anni di bambina che bisogna andare con la memoria.
Perché si può imparare a qualsiasi età a suonare uno strumento, ma la musica bisogna averla amata da sempre per riuscire a suonare qualcosa di emozionante. Come è anche possibile dedicarsi alle piante quando finalmente se ne ha il tempo, ma quando arriverà il freddo, solo chi da sempre ha osservato i fiori saprà non esporli al vento.
Silvia quel giorno non scoprì che aveva da sempre guardato le cose in una maniera diversa, perché quello l’aveva sempre saputo, Silvia quel giorno scoprì semplicemente come farle vedere anche agli altri così come le immaginava lei, diverse.
Non credeva fosse così semplice far vedere anche agli tutto quello che vedeva lei, non immaginava fosse così facile dare ad un oggetto quel sapore diverso, quel fascino tutto personale che alle persone spesso sembra irraggiungibile, più per mancanza di voglia che per assenza di capacità.
E tutti, intorno a Silvia, si accorsero che era vero, che bastava sedersi un momento, in silenzio, per riuscire a far nascere qualcosa di bello da un semplice pezzo di vetro, da una semplice scatola di legno.
Non chiedeva un pubblico speciale, Silvia; le bastavano le persone che aveva intorno, la sua famiglia.
Da quel giorno ogni pasto era un’occasione di festa, ogni amico che veniva a trovare la famiglia diventava un inconsapevole osservatore, sempre più spesso compiaciuto, di una casa che ogni giorno si trasformava in qualcosa di diverso con cose semplici, con poco tempo, con la fantasia.
La fantasia.
Silvia pian piano imparò a raccontare a chi le stava intorno il suo modo di vedere le cose, il suo modo di trasformarle, il suo modo di farle nascere, e più raccontava più le persone ascoltavano, scoprivano, apprendevano.
Nacquero così, spontaneamente, serate nelle quali le amiche la andavano a trovare per imparare quel modo tutto personale di raccontare le cose, con la fantasia.
Serate all’insegna dell’amicizia, delle confidenze, della buona cucina e del tempo passato in piacevole compagnia, mentre carta e colori scandivano il tempo in maniera discreta e silenziosa.
Col passare del tempo, queste serate, da occasionali incontri, si trasformarono in appuntamenti ricercati da quelle stesse amiche che un giorno dopo l’altro sentivano nascere la voglia di raccontare quelle stesse cose che fino ad allora avevano solo ascoltato.
Silvia aveva imparato che se la fantasia è innata, non è da tutti saperla raccontare, e per questo accettò di insegnare a chi ne sentiva il desiderio, quelle cose che avevano permesso per prima a lei di vederla materializzarsi in oggetti semplici nella realizzazione, ma affascinanti nel loro comunicare un’idea, un gesto, un piacere.
Non c’era mai, in queste serate, l’intenzione di fare scuola, c’era al contrario la voglia di offrire quei piccoli segreti nati dalla sua capacità di aggiungere alle tecniche e alle regole base del Decoupage quel tocco personale e quella capacità di non fermarsi a ciò che qualsiasi libro o manuale possono offrire a chiunque abbia voglia di avvicinarsi con curiosità a questa arte, con la stessa passione e la stessa bravura di chi ad una ricetta nota e accessibile a tutti, ha saputo aggiungere un ingrediente particolare che rende quel piatto speciale e diverso da tutti gli altri.
Come un amore improvviso, il sempre crescente piacere di creare e vivere tutto questo ha fatto nascere in Silvia la voglia di avere uno spazio suo, personale, dove regalare a questa passione il tempo che sentiva meritare e che in maniera spontanea esigeva in maniera sempre crescente.

Oggi Silvia finalmente vive e condivide questa sua passione nel suo laboratorio a Niguarda, a pochi passi da quella casa dove fino a poco tempo fa quello che sembrava essere soltanto un modo come un altro per passare il tempo, si trasformò, grazie alla fantasia, in un modo per fermarlo.
Un laboratorio nel quale Silvia, dalla sua casa, ha portato, insieme ai colori, ai pennelli, alla carta e al legno, al vetro e ai metalli preziosi, quelle piccole e semplici cose per portare le quali non servono scatole né sacchetti, automobili o braccia forti, quelle piccole cose che rendono tutto questo qualcosa di speciale, di diverso.
La sua fantasia, la sua amicizia e la sua capacità di raccontare tutto questo a chi ha voglia di regalare a se stessa e ai suoi desideri quel tempo che lei, con un semplice disegno, ha saputo fermare.”


E il giornale lo pubblicò.
Con la foto del laboratorio dove Mamma Mària finalmente faceva quello che amava fin da bambina, fare.
Creare.

Mario un po’ aveva preso da Mamma Mària.
Se non altro la voglia di guardare le cose sempre con occhi colorati, nonostante una vita non proprio semplice.
Ma anche Mamma Mària aveva preso qualcosa da Mario.
Aveva infatti aperto anche un sito internet

Mamma Mària oggi compie gli anni.
E se la conosceste, capireste perché Mario è venuto su così.
Così bene, intendo.

Mario, quando cantava nel locale, cantava tante canzoni, ma quando Mamma Mària andava a sentirlo lui le cantava sempre una canzone.
E adesso che Mario non canta più glie la mette qui, che non è la stessa cosa, ma va bene lo stesso.
Tanto lei se lo ricorda come glie la cantavo.



24 dicembre 2004

Buon natale

Ho chiesto una giornata di 48 ore.
L’ho avuta.
Nel senso che ho lavorato 48 ore ininterrottamente senza mai alzarmi dalla sedia per consegnare un video la cui proiezione è stata rovinata da un proiettore di merda e un audio inascoltabile.
Un lavoro buttato nel cesso.

Oggi è natale e quindi siamo felici lo stesso.
I bambini di una scuola elementare mi hanno fatto un regalo bellissimo.
Ma non lo fotografo.
È mio.
Buon Natale.
Tra di voi ci sono davvero belle persone.

Un “Buon Natale” speciale a Lorenza.
Se il mio 2004 è stato così bello è anche grazie a lei.
Che merita il mondo più bello che ci sia, intorno a se.
Di cuore.
A una donna dal cuore grande.

15 dicembre 2004

Brevi consigli non richiesti

Non fare la cazzata di non chiamarmi solo perché pensi che non sarebbe giusto.
Io non farei la cazzata di fartelo notare.

11 dicembre 2004

(s)tornello

Aò… sto a’bbloggà d’a’capitale…
…che da quanno sò uaireles da’a’terza generazione 'n me ferma più nemmanco na'montagna!
So treggionni che stoqquà e già so’rrivati manco penniente Pitte Demòn Dddeniro e nartro paro demmerigani che si nun vengono ‘n cinque a compensà a gloria mia, qui se perdono li punti.

Abbellezza mia un’l’hovvista…
L’artrabbellezza mia manco…
A terza neppure…
Quimme stanno a’abbandonà tutte.
Pure l'ecs che staqquà pure lei peccaso m'ha evitato.
ciavrò a'peste.

Ce sò vvenuto n'zacco de vorte emmò c'hoppure li ricordi de la donna mia.
Che quelli n'me li leva manco lei chemm'evita.
Ciaddafà...m'haddetto.
Vabbè.
Ce credo, vah.
Pur'io...del resto... ciòddafà.

Però l’artra sera dar tassì ho visto Cesare, quello ca’a’esse de sapone.
Era lui! Ggggiuro!
C’aveva pure a’biga.
Er colosseo, er barcarolo quelo che va controcorente e a trattoria quella chettedanno da magnà’mmezzo a li politici quelli der magna magna appunto.
Ora sto’n’cammera a’aspettà er collega mio che m’haddetto che pè ccenà ce se vede tra cinque, e me vabbene perché n’effetti c’ho ‘na certa.
Eddomani se ritonna a’ccasa.

Però… se devo dire ‘e cose vere…
Roma cò li occhi ne li occhi tuoi è n’artra cosa proprio.
Scusa pe lì messaggi... 'nte volevo d'assillà.
è che Roma ettùa.
e ammè ma rimembrerà sempre er Pincio, aggiòstra,
e n’areo che n’ciavevo voglia de pià.

9 dicembre 2004

Per carità

Che fine ha fatto la gente normale? Perché il fondo non è mai quello che si vede? Dove sono le persone valide? Dov’è il limite del peggio? Dove sono i giorni in cui una persona ti ascolta davvero? Perché l’aiuto non ha più valore? Dov’è finito il lato umano? E la bontà vera? Chi ha visto dove si nasconde la verità? Quando gli occhi della gente hanno smesso di guardare? Quanta terra serve per sotterrare un vivente? Quanto si deve bere per avere fame? Perché la gente quando trova una porta chiusa cerca sempre di sfondarla? Quando gli uomini hanno smesso di vivere la propria vita per dedicarsi alla distruzione di quella degli altri? Dove si nasconde l’onore? E il rispetto? Ti sembro un albero? TI sembro un albero io? E allora perché pensi di poter venire a farti ombra sotto i miei imponenti rami? Pensi sia un diritto? Ho cuori incisi a decine su di me, con lettere dentro tra le quali la mia a volte nemmeno c’è e infallibili frecce a ricordo. Ma non sono albero per questo. Ho cerchi evidenti, anelli traditori di verità, anelli scoperti a protezione di anelli precedenti. Ma non sono albero per questo. I tuoi soldi sono fatti con carta ricavata dalle mie fibre. Questa è l’unica cosa che ci accomuna. Io cedo fibre alla gente come te. E la gente come te ci fa carta. C’è chi ci disegna sopra come se fosse preziosa carta artistica, c’è chi ne fa post it da attaccare al monitor, chi ci scrive poesie per la donna amata, c’è chi ci incarta il salame, c’è chi ci dipinge paesaggi da sogno e chi ci scrive la lista della spesa. E c’è chi come te ci sa solo stampare soldi in un percorso che non capirà mai essere irreversibile. Questo rende i ricchi vulnerabili. L’amaca per essere comoda ha sempre bisogno di ben due alberi solidi. E l’amaca è bella. L’amaca è comoda. Puoi anche comprarla fatta a mano con fili dorati in un viaggio in tibet. Hai notato che in messico vendono milioni di amache? Hai mai visto un solo albero in vendita? Questo rende i ricchi vulnerabili. Comprano anche le risposte. A forma di amache hi-tec in paradisi artificiali dove vi hanno venduto l'illusione di boschi in carbonio e cinguettanti cd new age serviti da buddha in persona, vi hanno detto, come aperitivo, tra altri alberi come voi incapaci ormai definitivamente di dar dimora alle fate. Belli, i vostri sostegni in elastico carbonio, belli. Vi vendono risposte a forma di amache hi-tec ogni giorno a voi ricchi e vi mandano allo sbaraglio, spiegandovi che se non trovate alberi nel vostro giardino vi potrete sempre comprare il “sostituisci i due alberi secolari se non sei capace di coltivarli - beghelli”. E voi dondolerete tutta la vita, soddisfatti, sprezzanti, mostrando la sicurezza di chi riesce sempre a dondolare, incapaci di vedere che se non vi appendete a qualcosa cadete. È bello superarmi al semaforo. Suona si, suona che è verde. Scusa se la mia 500 non solo non va da zero a cento in quattro secondi, ma nemmeno li ha mai visti i cento. Suona la tua bella canzone papparappà. Passa avanti che se no ti tocca incazzarti col concessionario. Corri, corri a tagliare l’aria. Corri che oggi iniziano saldi abbigliamento. Svendita totale divise crocerossa. Corri ricco corri. Magari trovi la tua misura. La mia non l’hanno voluta nemmeno indietro. “Non vende” mi hanno detto. Troppo strappata pare.
I ricchi, dicono, vogliono perfette anche queste.
Per vestire la mia strappata non servono soldi ma una dignità senza prezzo.
La ricevuta per l’acquisto del tuo posto in paradiso non porta il mio nome.
Non sarai mai come me.
Con i miei vestiti dismessi, al massimo, quelli come te ci rifanno carta.
Quella che gli alberi li ha stampati sopra a costante memoria.
Esposta in altari di preziosa ceramica.
Attaccati al muro.
Alla sinistra del tuo dorato cesso.

Stai lontano da mio fratello.
Stai lontano da me.
Quelli come te me lo stavano uccidendo.
Non gli servono i tuoi soldi.
Gli serve imparare a non vergognarsi di non averli.
E ad avere, finalmente, il salutare disprezzo per quelli come te.

Ti monetizzo il problema?
Sopravvivenza.
Pane e acqua.
Al massimo 3 euro.
Non ci serve un camion di pane, grazie.
Quella che sulle mie mani hai scambiato per cocaina, credimi, è farina.

5 dicembre 2004

Nei pensieri

Mario certe notti sognava Mario Senior.
Quella notte infatti Mario l’aveva sognato.
In realtà non aveva sognato lui, ma solo una casa in un bosco tutta di legno che lui sapeva che era di Mario Senior anche se non sapeva perché.
Quando Mario sognava Mario Senior non si svegliava triste, ma si svegliava felice, perché aveva incontrato Mario Senior.
In fondo, pensava Mario, l’aveva visto così poco che una volta in più era una cosa bella, non brutta.

Mario Senior aveva insegnato a Mario che certe volte quando si è lontani basta il pensiero e allora Mario aveva imparato a fare i pensieri.
“Mario Senior” per esempio era un pensiero.
“Mària” era un pensiero.
Mario stesso era un pensiero.
Tutti pensieri.
Mario era cresciuto facendo i pensieri.

Quando erano lunghi, da piccolo, li scriveva e prendeva i bei voti, anche una medaglia una volta.
Perché per Mario i pensieri erano davvero e allora quando gli dicevano “Scrivi un pensiero” lui scriveva le cose vere e tutti dicevano “Eh…che belli i pensieri” e lui pensava “Sono veri”.
Mario tutte le cose belle le aveva sempre avute tutte nei pensieri e quando gli chiedevano “Dov’è papà?” lui diceva “Nei pensieri” e tutti dicevano “Mi dispiace” e lui pensava “Perché?”.
Come quando lui diceva che nei suoi pensieri era felice e tutti gli dicevano “Non devi sognare” e lui pensava “Perché?”
Come quando lui diceva che nei pensieri Mària era bellissima.
Come quando lui diceva che nei pensieri Mario Bros guariva e stava bene.
E tutti pensavano che era sbagliato avere il mondo bello nei pensieri e Mario non riusciva a far capire che lui nei pensieri ci era cresciuto e che non era finto per questo, perché era vero per questo.
Come quando aveva Mario Senior nei pensieri.
Tutti non capivano Mario e Mario non capiva tutti.
E tutti per far capire a Mario che sbagliava gli dicevano “Perché nei pensieri ci sono i sogni” e lui pensava che era per quello che non sbagliava.
E infatti certe notti Mario sognava Mario Senior ed era contento perché era come quando lo andava a prendere per portarlo in giro sulla moto.
Quella volta Mario l’aveva sognato un giorno che era sabato.
Perché Mario era abituato così, a vederlo il sabato.
E continuava a vederlo il sabato.
Mario quando vedeva una cosa bella la metteva subito nei suoi pensieri e la faceva diventare bellissima, così ogni volta che l’avrebbe pensata sarebbe stato felice perché era una cosa bellissima.
Mario aveva messo la sua casa nei suoi pensieri e l’aveva fatta diventare bellissima.
E anche se non era vero alla fine la sua casa la vedeva bellissima.
E quindi era bellissima.
Mario aveva messo la sua famiglia nei suoi pensieri e l’aveva fatta diventare bellissima e alla fine era diventata bellissima.
E quindi era bellissima.
Mario aveva messo Mària nei pensieri e l’aveva fatta diventare bellissima e alla fine Mario la vedeva bellissima.
E quindi era bellissima.
Mario lo sapeva che non sbagliava.
Lo sapeva nei suoi pensieri.
Dove Mario Bros guariva, dove lui incontrava Mària, dove Mario Senior andava a trovarlo il sabato.
Come stanotte.
Che Mario si è svegliato bene.
Quindi non sbagliava.
Tutti gli altri si.

Mario pensava che chi divideva i pensieri dalle cose vere era sfortunato.
E che era per quello che tutti i giorni erano sempre arrabbiati.
Mario non era mai arrabbiato.
Nei pensieri lui era felice e per lui i pensieri erano le cose vere.
E quindi era felice.
Mario no, non sbagliava.
Anche se tutti cercavano di dirgli che sbagliava.
Forse erano invidiosi, perché Mario era l’Imperatore delle Galassie.

a Mario,
cresciuto su un trono.
che quando veniva toccato, si muoveva da solo.
e che per questo era magico davvero.
e che per questo, lui era felice.
davvero.

26 novembre 2004

Comprami, io sono in vendita

E non mi credere irraggiungibile.
Un po’ d’amore è un attimo.
Un uomo semplice.
Una parola, un gesto una poesia.
Mi basta per venir via.

25 novembre 2004

Alfonso

Alfonso merita due righe solo per lui.
Perché quel giorno le ho regalate tutte a Lila e alla sua felicità.
Perché era talmente tanta che mi aveva fatto dimenticare persino la mia.
La mia però c’era.
C’era eccome.
E dopo diversi giorni infatti è sempre qui.
E allora adesso che ho detto a Lila quanto sono felice per lei, per lei nel senso di quello che mi da anche solo il pensiero di lei, dico ad Alfonso quanto sono felice per lui, per lui nel senso di quello che mi ha dato il suo pensiero per me.

Alfonso è uno di quelli che hanno finito di soffrire ieri.
Ieri nel senso che si vede che non soffre più, non come ieri almeno.
Che vuol dire non soffrire più.
Per fortuna.
Alfonso è uno di quelli.
Che ha il viso di uno che ha finito di soffrire ieri e per questo ancora non ride e non balla di nuovo come l’altro ieri, e sorride riservato e parla a bassa voce e chiede scusa prima di chiederti se può regalarti una cosa di tuo papà.

Di quelli incredibili.
Di quelli che il viso è dolce.
Ecco perché si vede che non soffre più come ieri.
Poi non ride e non urla e non salta.
Però ha il viso dolce e lo porta in giro per centinaia di chilometri solo per incontrare altri visi dolci.
E quella voglia lì, chi soffre oggi, non ce l’ha.
Ecco perché Alfonso ora non soffre e ha il viso dolce.
Domani magari riderà, anzi, sicuramente, però intanto oggi è dolce, e per questo non ha niente da invidiare agli altri.
Mentre ero nella chiesetta ad aspettare che Lila mi dedicasse il suo primo libro, un uomo col viso dolce mi ha avvicinato e dopo avermi chiesto se ero io Bruno (l’ha pronunciato con la U, lo ricordo benissimo), mi ha detto:
“Ho una cosa per te, ho trovato un libro di tuo papà. Se non ti dispiace te l’ho portato perché sapevo di trovarti qui”.
Se non mi dispiace.

Io non sapevo.
Io non immaginavo.
Nessuna mail, nessun preavviso, nessuna traccia.
Non potevo sapere.
Ero lì per Lila.
“Ho qui con me un libro di tuo padre. Però non volevo distrurbarti, che ho visto che sei con gli amici e allora ho aspettato che finissi con loro per non distrubare”
per non disturbare.
Me che sono andato subito dai miei amici a dir loro cosa mi era appena capitato all’improvviso e inaspettatamente e non sono nemmeno riuscito a farglielo capire come lo provavo io.

Sabato mentre ero in una chiesetta un uomo col viso dolce mi ha avvicinato e mi ha regalato un libro di mio papà.
Chissà da dove viene Alfonso con quel libro.
“Sai Bruno, non sono di Torino, ma il libro l’ho trovato là”.
“Ma dai, Torino.
Anch’io sono di Torino, pensa.
Anche mio papà era di Torino, pensa.”
Eh si.
Eh già.
Io e mio papà siamo di Torino.
“Eh certo, Alfonso. In effetti per statistica, sapendo che lui viveva a Torino, è più probabile trovarli sulle bancarelle torinesi, non ci avevo mai pensato”.
Per statistica.

Sabato mentre ero in una chiesetta un uomo col viso dolce che arrivava da torino mi ha portato un libro di mio papà.
Quell’uomo mi ha scritto una mail per ringraziarmi di quelle due righe dell’altro giorno.
Lui che mi ha regalato cento pagine ringrazia me per due righe.
Mi ha scritto che ha avuto voglia di leggerlo e che per questo è tornato là dove ha trovato il libro e ne ha trovata un’altra copia che ha comprato per lui.
Su una bancarella in Via Po, ha detto.

Sabato mentre ero in una chiesetta un uomo col viso dolce che arrivava da Torino mi ha portato un libro di mio papà trovato su una bancarella in via Po e dopo avermelo regalato è tornato sulla stessa bancarella e ne ha trovato un altro per se.

Io non credo in Dio.
Non sono religioso.
Di nessuna religione.
Per questo non divido le cose in terrene e sovrannaturali.
Divido le cose in belle e meravigliose.
Che è pure di più, visto che non c’è niente di sovrannaturale.
È tutto vero.
Tutto così.
Perfettamente umano.
Meravigliosamente terreno.
Fisico.
Di quelli che quando accadono li puoi toccare.
Puoi stringere loro la mano.
Così se rimangono lì, puoi sentirne il calore, se volano via puoi aggrapparti e seguirli.

Grazie Alfonso.
La casa alla quale rinunciai come eredità, se non ricordo male, era in via Po.
O forse mi convinco solo che sia così, per essere, come dicevi tu, felice.
che le cose belle accadono.
Ed è perché so che accadono, che scelsi di non volere nulla di suo che non stesse in una mano.
E, come vedi, accadono.

22 novembre 2004

Lila

Lila abita in campagna.
C’ha il suo gufo, o civetta, dipende dal documentario.
Lila c’ha gli amici e poi c’ha quelli ai quali vuole bene.
Lila balla senza scarpe, si emoziona per la torta, si mangia le unghie davanti al microfono.

Lila abita in campagna.
Dove abita Lila le ragazze sono tutte belle.
Forse è l’aria di campagna, non so.

Lila è bella e fa i massaggi a tutti.
C’ha il tatuaggio delle favole, i capelli del rinascimento e il fidanzato cavaliere guerriero.

Lila ha scritto un libro e io ancora non l’ho letto.
Quindi adesso ve ne parlo.
Perché quel libro lo conosco anche se non l’ho letto.
Perché so di chi parla.
Perché parla di Lila.
Quella che abita in campagna con le amiche belle, il fidanzato cavaliere e la fiaba tatuata.
E il libro parla di lei, che ride e diventa rossa, dei suoi amici che si muovono sempre in gruppo e dovunque ne trovi uno trovi anche gli altri, di alberi e di montagna, di birre e di musica, del suo essere piccola grande, del suo essere uoma e dell’essere donna in mezzo ad amici uomini che però sono anche donne, nella delicatezza, nella gentilezza, nel farti sentire a casa, negli occhi blu, negli occhi verdi, nel saltare, nel giocare, negli abbracci, nelle carezze, nel profumo sulle mani.
Lila è il suo gruppo di amici.
Nell’unico vero senso della parola.
E il libro parla di quello.
La storia scritta intorno poco importa.
Importa che c’è.
Che non è inventata.
Che se vuoi la puoi vedere.
Che se vai in campagna la trovi davvero.
Che ti fa venire voglia di essere nato là, per uscire di casa ogni giorno sapendo che quando torni a casa ci sono loro.

Sabato è stata una giornata bellissima.
Una giornata di libri magici.
Quelli che hanno dentro le storie vere.
Quelle storie che non serve leggerle per conoscerle.

Sabato sono tornato a casa con due libri.
Uno parlava di un amore, l’altro anche.

Grazie Lila.
Con così tanto amore dentro da aver bisogno di altre cinque persone per contenerlo tutto.

Grazie Alfonso.
Troppo timido per scrivermi ciò che ha pensato, ma che ho letto lo stesso.
Come dice Lila, tra le righe.

27 ottobre 2004

Umbria Géz

Ehi, Umbria, la riconsegno a te.
Ricordati stamattina di svegliarla bene, perché sarà un po’ triste.

Ehi, Umbria.
Falle ascoltare musica, oggi.
Quella che sai tu.
Perché altrimenti penserà che la musica è quella che ha ascoltato qui pensando sia più bella
e passerà la giornata pensando alla musica di ieri e sarà un po’ triste.
perché la musica che ha sentito qui è quella che ha portato lei, quella che ha lì da te.
Quella che può ascoltare tutti i giorni.

E falle vedere tutti i colori che hai tutti insieme,
perché altrimenti lei penserà a quelli che ha visto qui, quelli scuri, pensando siano più belli
e sarà un po’ triste, come i colori scuri che ha visto.
perché là da te ci sono milioni di colori in più da guardare.

Ehi Umbria, stamattina falle vedere che qualsiasi cosa si sia portata dietro da qui, quello che c’è lì sarà sempre più bello.
E che per questo non deve mai, essere triste.

 

24 settembre 2004

Lessico familiare

Ciao Broo,
ho trovato in casa un librino che potrebbe interessarti: è "Antiche Fiabe Cinesi". Ce l'hai ? Lo vuoi ? Manda indirizzo "fisico" che spedisco


Grazie, si!
E' uno di quelli che avevo prestato e non è più tornato!
Davvero me lo daresti?

Certamente. Basta che lo tieni bene (e non ho dubbi) - era sul comodino di mia madre. L'ho accompagnata recentemente anch'io, tenendone l'urna sulle ginocchia. Poi, per caso ho letto il tuo appello e insomma, mi farebbe piacere se lo avessi tu.
[…]E naturalmente dammi anche il tuo indirizzo.
Ho promesso di comprarli e voglio poter mantenere la promessa.
non ci pensare nemmeno: […] e NON pensare nemmeno a pagarmelo. Consideralo un regalo, anzi un prestito a lunga scadenza.


Allora facciamo così.
Io accetto il tuo regalo solo se sulla prima pagina bianca ci scrivi "Questo libro era sul comodino di.." e ci metti il nome di tua mamma, solo il nome.
Non mi far spiegare che non è un pensiero brutto questo, né un modo per appropriarmi di qualcosa di tuo.
Ma quel libro era di tua mamma e l'ha scritto mio padre.
Se su quella copia compariranno entrambi i nomi io sarò felice.

Fosse anche - e non lo è - un modo per appropriarsi di qualcosa di mio, ne sarei contento. Tutto quello che mia madre mi ha dato, e che mi porto dentro, non può essere solo mio.

E lo accetterò come un regalo.
Tuo e di tua mamma.
Perché se lei lo teneva sul comodino, io in qualche modo "grazie" per avermelo ridato lo vorrei dire anche a lei.
E ricordarmi il suo nome ogni volta che lo aprirò mi sembra un modo bello.

anche a me, per questo ci ho scritto qualcosa sul frontespizio.
E ti dirò, lo avrei fatto anche se non me lo avessi chiesto, a costo di mandarti un libro scarabocchiato.


Anche se non so chi fosse, anche se tu non sai chi sono io.
Ma del resto nemmeno lei sapeva chi era mio padre, e nemmeno io so chi sei tu.

Ha davvero importanza? Se abbiamo culo rimedieremo. L'importante è tutto nell' "Eppure" qui sotto.

Eppure c'è un libro che stava su un comodino, che ha fatto parlare due figli che si son portati in braccio un'urna, e che se deve tornare a me io sarò felice, ma sarò felice solo se si porterà scritta all'interno anche la storia del percorso che ha fatto, non solo quella mia e di mio padre.
Perchè se non fosse stato per te e tua mamma, io quel libro non l'avrei mai avuto.
Un'altra copia magari si, ma non quella.
Firmala, e accetta il mio grazie.

grazie accettato. E' bella questa tua ricerca, spero di riuscire ad aiutarti di nuovo.
ciao, uomo più bello del mondo. Il libro arriva presto, poste permettendo.
dario


“In nessun paese del mondo la lingua scritta è stata per millenni, ed è tutt’ora, tanto lontana e difficilmente raggiungibile da una così larga parte della popolazione come lo è in Cina. […] È naturale che, in una realtà sociale di questo genere, la letteratura popolare sia quanto mai viva e vitale e che abbia un peso e un valore molto diverso da quelli che ha comunemente in Occidente. Per la maggior parte dei cinesi, infatti, essa costituisce l’unica forma possibile di cultura, proprio perché nasce spontanea e non ha bisogno della carta per essere trasmessa agli altri o per essere tramandata ai posteri.

Comunemente chiamata “minore”, questa letteratura è stata per due millenni, e in larghi strati intellettuali cinesi lo è ancora oggi, apertamente disprezzata, trascurata e considerata indegna di essere “letta” e presa in considerazione. […]
Il suo patrimonio è costituito da fiabe e racconti di magia, da leggende, da poesie, da proverbi, da aneddoti, da storie, tutti trasmessi oralmente da una generazione all’altra e via via arricchiti e ampliati dalla fantasia e dall’estro dei narratori.

L’elemento fiabesco, fantastico trae spunto da fatti e situazioni molto comuni, non è artificio e non lo potrebbe essere, è un fiabesco popolano, fatto per incantare i semplici. […]

I narratori e i cantastorie ai quali si deve l’immensa fortuna di cui gode questa tipo di letteratura sono solo ricchi di esperienza di vita, di fantasia, di voglia di dilettare gli altri, di incuriosire, di catturare l’attenzione del pubblico.[…] Insomma, i fruitori di questa letteratura sono soprattutto coloro che s’aggirano in un mercato di piazza, in un cortile di un tempio, in un giorno di festa o in una fiera paesana. Quella di cui parliamo, però, rimane ancora oggi letteratura principalmente orale: la pagina scritta, la fotografia, la fossilizza e la uccide. Non lascia più spazio per le estrose variazioni del cantore e del narratore, non c’è più un dicitore e tanti ascoltatori, c’è una pagina e un lettore: è diventata, insomma, letteratura non più minore o popolare. […]

Ed è proprio tale massa, non piccola, di sconfitti che ha costituito nei secoli l’esercito di autori della letteratura popolare […] Ed erano quasi sempre essi stessi che tenevano nascosto il proprio nome, se ne vergognavano, e mandavano per il mondo i loro scritti orfani di padre, quasi per sfogare in qualche modo l’amarezza che gonfia l’animo e fa le notti lunghe. […]
Scrivevano di tutto e su tutto questi anonimi, e tutto in lingua parlata, perché scrivevano per il popolo, per i cantastorie, per i teatri popolari, per i saltimbanchi da fiera e le loro opere passavano poi di bocca in bocca rifatte, rimaneggiate, modificate, adattate sempre ai mutevoli gusti degli ascoltatori.
A volte riprendevano e arricchivano leggende e racconti popolari, a volte adattavano per il popolo minuto i libri della letteratura colta, ufficiale, i classici insomma, che altrimenti non avrebbero avuto alcuna possibilità di arrivare fino alla gente comune.
Nel corso dei secoli si è così formato un patrimonio letterario sterminato, bellissimo, affascinante. Ed è arrivato fino a noi nonostante l’aperto disprezzo della cultura ufficiale e dei letterati di professione.

Ancora oggi è praticamente sconosciuto al di fuori della Cina: nessuno si preoccupa di conoscerlo e di farlo conoscere.
Questa brevissima raccolta significa poco, molto poco: è come se di un bellissimo e ricchissimo abito, con pizzi, merletti, ricami, ori e perle, si mostrasse solo il bottone. Per quanto bello sia, riuscirà solo a dare una pallida idea dell’abito da cui proviene.


Antiche Fiabe cinesi.
Edi Bozza.”


Questo facevi.
Andavi in giro per il mondo a cercare quel fascino che non volevi si perdesse.
Andavi in giro ad ascoltare cantastorie.
Andavi in giro ad ascoltare fiabe per raccontarle a tua volta.
Come potrei pensare che sei stato cattivo?

È stato bello riascoltarti,
raccontarmi perché scrivo, in questo gigantesco mercato di piazza.
È stato bello.

Grazie Dario
Grazie Pierangela.

È un libro ingiallito, usato, consumato, vissuto, ascoltato, quello che mi avete regalato.
E in quelle pieghe c’è il motivo per cui lo scrisse.
Raccontare una fiaba.

Vi devo tanto stasera.
Fondamentalmente vi devo la mia.

Grazie.
Per gli scarabocchi.


22 settembre 2004

Batman è mio papà

Che poi ieri pensavo a quel tizio là, quello vestito da batman che è entrato a Bachingam Palas.
E pensavo a tutto il putiferio che s’è creato e il terrorismo e la guerra e la sicurezza e la beffa ai servizi segreti e la regina arrabbiatissima e i controlli e l’MI5 e James Bond e i tiggì e i poliziotti e casca la terra e tutti giù per terra.
E vabbè nulla da dire tutto vero tutto giusto c’è la guerra.
Poi l’altro giorno ho anche visto il precedente, quell’altro che per lo stesso motivo si era vestito da uomo ragno e se n’è stato appollaiato su una gru per qualche ora perché l’ex moglie non gli faceva vedere il figlio e il giudice diceva che va bene così.
E in mezzo a tutte le cose che la guerra e la sicurezza e Bachingam Palas e l’MI5 e James Bond e il terrorismo e le pagine e le foto e casca la terra e tutti giù per terra, non ho letto nemmeno una parola su una cosa che per me invece è la chiave di tutto.
Si, vabbè tutti hanno detto che si era vestito da Batman, grazie al cazzo era vestito da batman e stava in piedi su un cornicione, difficile evitare di citarlo, come quell’altro vestito da uomo ragno che stava sulla gru, difficile non notarlo.
Ma io mi riferivo al perché.

Tutti hanno scritto che era vestito da batman e poi il resto dell’articolo a parlare di sicurezza di violazione dei controlli, di terrorismo, di falso allarme, di regina che incazzata di carlo che imbizzarrito e via così.
E intanto quello se ne stava sul cornicione.
E tutti a credere che fosse lì per farsi vedere dalla gente, dal giudice, dall’ex moglie, dalla tivvù.
E tutti a credere che volesse farsi notare per sollevare il caso e per discutere la causa e per far sentire la vece dell’associazione che rappresenta.
Si, si, tutto vero.
Ma quello è il motivo per cui stava su un cornicione.
Ma il vestito di Batman, quello vero, quello blu, quello no.
Quello era per far ridere suo figlio.
E nessuno che ne abbia fatto un servizio.
Come se fosse una roba da coglioni quel costume lì a cui prestare attenzione solo per l’eccentricità.
E invece era la cosa più bella, quella di cui avrebbero dovuto tutti parlare di più.

Perché il motivo per cui era su quel cornicione era certo perché il giudice gli ha imposto di vedere il figlio una volta, una sola stronzissima volta all’anno, e lui non voleva, ma il motivo per cui era vestito da Batman era sì che lui voleva vederlo, ma soprattutto voleva che suo figlio guardasse lui, che giocasse con lui, che ridesse con lui, che si divertisse a guardarlo, che dicesse a scuola “Quello è mio padre!” come ogni padre vorrebbe accadesse, e non poteva salirci vestito normale su quel cornicione, perché il figlio a scuola si sarebbe sentito dire che era matto e invece adesso i suoi compagni non vedevano un matto, ma Batman, e non lo avrebbero preso in giro, ma invidiato, perché lui in quel momento era il figlio di Batman e cosa cazzo c’è di più bello di un padre che fa una cosa del genere non per far incazzare la regina, ma solo perché è l’unico modo per giocare con suo figlio, eh, ditemi, cosa cazzo c’è?
Non voleva attirare l’attenzione delle televisioni con quel costume.
Voleva far ridere suo figlio!

E i giorni dopo tutti in piazza i papà d’Italia con gli striscioni, a dire “Anche noi! Anche noi!” nella solita puttanata italica sempre dopo gli altri e sempre meno intelligente degli altri, tutti convinti di aver capito che bisogna cercare una telecamera e scrivere una puttanata su un lenzuolo, e come se fosse il nuovo simbolo di tutti i padri tutti a mettersi la bella mascherina di Batman, ritagliata a mano sulla carta, con una maglietta blu come se bastasse quella per far credere ai propri figli di essere batman. In una versione sempre più piccola di chi si è inventato una cosa che non voleva diventasse un corteo ma solo un sorriso, ma gli italiani non l’hanno capito nemmeno per le palle e hanno pensato che la maschera servisse per andare sui tiggì e quindi non ci hanno pensato che i figli non sono scemi, che l’avrebbero scoperto subito che non sono batman, perché batman non può essere venti persone tutte insieme e i bambini lo sanno e poi il costume quello vero lo conoscono bene non è una maglietta blu e infatti il tizio inglese aveva quello originale, ci era andato, per suo figlio, in un negozio a spendere cento e rotti euro pur di essere il vero batman e non una cazzo di caricatura di cartone che solo un adulto avrebbe scambiato per quella vera e invece loro no, perché evidentemente non avevano capito che non era batman per le telecamere ma per suo figlio e se l’avessero capito, invece di inventarsi ‘sta cazzata di “Tutti con le maschere di batman” avrebbero fatto quello che ogni bambino vuole vedere quando di eroi in piazza ce ne sono tanti.

Non cento batman con magliette da mercato.
I bambini non sono stupidi.
Ma i veri costumi dell’Uomo ragno, i Fantastici Quattro, Thor, Dylan Dog, Braccio di Ferro, Topolino, gli X-Men.

Non hanno capito un cazzo quel gruppo di italiani.
Hanno voluto dare alla televisione cinquanta dimostranti.
E invece avrebbero dovuto usare le telecamere per dare ad ogni bambino il suo supereroe personale.
Un padre.


15 settembre 2004

C'è tempo

Ridisegno, di nuovo, il mio concetto di tempo.
Lo prendo, lo dilato, lo tiro, lo allungo, lo moltiplico e aggiungo uno zero.
Convinco me stesso che le mille cose che ogni giorno ho incartato con fiocchi colorati, non siano state accantonate come oggetti di scarso valore. Cercando di spiegare ad ognuna di loro che arriverà il loro tempo, provando ad azzardare un minimo di gerarchia tra loro per stabilire quale soddisferò il mese prossimo quale quello dopo e quale tra dieci anni, litigando con ognuna di loro che giustamente pretende il suo giusto posto, in un gruppo fatto da un numero di fiocchi incredibilmente superiore alle occasioni che ho per donarli.

Mi consegno la medaglia della prova tempo più che superata.
Mi stringo la mano.
E vado da mammà a chiederle di rispiegarmi bene cosa intendeva quando mi disse “vivi”.
Non per altro, è che quando me lo disse avevo zero anni, a trentadue credo di avere più possibilità di capire.

Essere single per scelta non significa fare ciò che si desidera.
Anzi.

24 agosto 2004

Tutti al mare

Mario quell’anno era andato in vacanza con tutte le magliette per la spiaggia e le scarpe per camminare tanto perché doveva andare tante volte dalla nonna e ci andava sempre a piedi e poi doveva tornare sempre alla spiaggia e tornava sempre a piedi e non aveva portato niente per uscire alla sera perché tanto alla sera la nonna dormiva sempre e alla spiaggia non si andava quindi lui non doveva andare da nessuna parte alla sera.
C’erano i gelati che lui si ricordava, quelli che si chiamano i coni regina, ma quest’anno li facevano più piccolini che li mangiavi con un boccone solo o forse è solo che Mario adesso era più grande lui e allora i gelati erano uguali e sembravano più piccoli solo perché era lui che era cresciuto ma intanto quando era piccolo ne mangiava uno e invece quest’anno ne mangiava sei o sette e quindi Mario pensava che no, li facevano davvero più piccoli.
Mario usciva tutte le sere a comprare i gelati per tutti. Un vassoio intero ogni sera ne portava a casa, perché a tutti piacevano e a lui piaceva che tutti erano contenti e aveva anche portato le scarpe per camminare e allora non gli dispiaceva avere un posto dove andare ogni sera a prendere i gelati per tutti perché tanto non aveva altri posti dove andare quell’anno, di sera, perché tanto la nonna dormiva e la spiaggia era buia e quindi aveva tempo libero per andare in gelateria per tutti tutte le sere perché tanto quelle scarpe le aveva portate proprio per andare tutti i giorni in posti dove si tornava con qualcosa di bello tipo la gelateria, o la spiaggia, o la casa della nonna, quelle scarpe erano fatte per andare nei posti belli e Mario lo sapeva che erano contente anche loro perché servivano per quello.

Mario quell’anno aveva camminato proprio tanto perché tutti i giorni andava a pranzo dalla nonna e poi tornava in spiaggia con Mario Bros che anche lui aveva portato le scarpe per camminare tanto e camminavano tanto anche le sue infatti.
Mario e Mario Bros mentre camminavano non parlavano tanto perché Mario Bros era tutto impegnato a guardarsi le scarpe mentre camminava perché lui non ci credeva che anche le sue erano fatte per andare nei posti belli e allora mentre camminava lui le guardava stupito e non aveva tempo per parlare anche con Mario, che però era contento lo stesso perché vedeva che Mario Bros era contento di avere anche lui le scarpe quelle che ti portano nei posti belli e non gli interessava che Mario Bros parlasse perché sapeva che certe volte basta mettere quelle scarpe magiche e lasciarsi camminare in silenzio, così, in due, per sapere che accanto c’è qualcuno, e sapeva che sapere che c’è qualcuno certe volte basta e avanza per stare bene.
Mario quell’anno non era andato a Sciarmelscieich perché quando ci era andato aveva scoperto che non fanno le cose buone che sa cucinare la nonna e lui quell’anno voleva mangiare tante di quelle cose buone e voleva che anche Mario Bros le mangiasse perché quando si mangiano le cose che cucina la nonna dopo si sta sempre bene ma non con la pancia ma proprio bene tutto il corpo la pancia le mani gli occhi il cuore i capelli le orecchie tutto insomma e lui voleva stare bene tutto insomma e voleva che anche Mario Bros stesse un po’ bene tutto insomma e allora aveva detto che per quell’anno lui voleva andare in vacanza con la famiglia tutti insieme anche per stare bene tutto insomma tutti insieme che anche quello serve per stare bene anche nei capelli.
E allora quell’anno Mario passò tutta l’estate uguale camminando ogni giorno con le sue scarpe magiche insieme a Mario Bros con le sue scarpe magiche in silenzio per andare dalla nonna che era felice perché le loro scarpe li portavano tutti i giorni da lei a darle i baci e a mangiare tutte le cose buone che lei le cucinava tutte a forma di cuore e di sorrisi e ogni giorno era così sempre uguale ma ogni giorno con un po’ di silenzio in meno mentre camminavano verso i posti belli e ogni giorno si camminava e si andava nei posti belli e si mangiavano le cose a forma di cuore e sorrisi e si diceva una parola e poi il giorno dopo si camminava e si andava nei posti belli e si mangiavano le cose a forma di cuore e sorrisi e si dicevano due parole e poi il giorno dopo si camminava e si andava nei posti belli e si mangiavano le cose a forma di cuore e sorrisi e si dicevano tre parole e poi il giorno dopo si camminava e si andava nei posti belli e si mangiavano le cose a forma di cuore e sorrisi e si dicevano quattro parole e poi il giorno dopo si camminava e si andava nei posti belli e si mangiavano le cose a forma di cuore e sorrisi e si dicevano cinque parole fino all’ultimo giorno, quando Mario vide Mario Bros mentre guardava la nonna cucinare le cose a forma di cuore e di sorrisi e pensò che forse poteva rischiare, forse quella sera poteva provare a dirne sei di parole, bastava scegliere bene la sesta, perché doveva essere bella e per essere certo di non perdersela prese la sua macchina fotografica magica che aveva portato nel caso le scarpe magiche lo avessero davvero portato in un posto bello, la accarezzò come si fa con la lampada magica perché quella macchina fotografica era magica come la lampada ma aveva un solo desiderio a disposizione e quando la strofinò la macchina fotografica magica gli disse “Dai, hai un desiderio a disposizione”.
Mario non ci pensò due volte e disse le sei parole che aveva scelto.
“Valentino, me lo fai un sorriso?”

A mia nonna.
e a quando da piccoli ci ha insegnato come si fa ad amare.
e a quando ci ha insegnato la ricetta per vincere contro tutto.

31 luglio 2004

Filastrocca

Indovina indovinello
qui si parla di Brunello
che nel suo tecno-diario
si spacciava per tal Mario.

Di vacanza ne parlava
titubante e preoccupato
per la troppo dura prova
che si era immaginato.

“Già la tavola è imbandita!”
disse mamma dal paesello
“la famiglia s’è stupita
del ritorno di Brunello!”.

Certo è bello immaginare
tutto come fosse un pasto
in quel caso un tovagliolo
spazzerebbe tutto il resto.

Ma purtroppo con il vino
anche quando di valore
il fratello Valentino
proverebbe più dolore.

Perché quando un certo male
vien tenuto lì latente
si chiarisce come il sole
se qualcosa apre la mente.

E in quel caso il nostro Mario
che di quello ha un po’ paura
si dovrebbe rassegnare
all’altezza delle mura.

Senza tavole imbandite
né famiglie festeggianti
solo lacrime tenute
e ricordi dirompenti.

Ma se invece Valentino
come il sole quando è alto
si ritroverà un pochino
dentro il mare blu cobalto

sarà Mario il primo a dire
“Alzo il calice al più bello,
non mi serve più mentire
non son io, è mio fratello!”.

E domani inizia il viaggio
come un pranzo a lungo atteso
dove Mario con coraggio
cercherà di prender peso.

Che sia pasta o sian sorrisi
saran chili di calore
equamente suddivisi
tra il suo stomaco e il suo cuore.

29 luglio 2004

Film&Troy&recensione&pareri&pubblico

Ecco insomma stasera sono (siamo) andato (andati) a vedere Troy perché non l’avevo (avevamo) ancora visto e mi (ci) sono (siamo) detto (detti) “Eh beh…un film con quelle scenografie, quei panorami, quelle scene epiche… va visto sul grande schermo!”.
Ora…
Gli unici commenti che mi vengono da fare sono:

Che in effetti forse è giusto dire che…dai si… siamo onesti… forse non sono proprio il più bello del mondo… cioè si, ma bisogna dire che qualcosina credo la raccolga anche lui…sarà l’incredibile somiglianza…pazzesco… incredibile… identici… mio padre dev’essere passato anche dagli Stati Uniti non c’è altra spiegazione…e non dico “Mia mamma” solo per non dare il via a facili battute… ora poi che ho tagliato i capelli guarda caso lunghi uguali ai suoi che però è più giusto dire lui lunghi uguali ai miei e se non ci credete sappiate che quando Le ho chiesto se aveva notato l’incredibile somiglianza Lei mi ha detto “Si” e mi ha dato una carezza quindi vuol dire che è vero.

Che io questa cosa qui dei verbi che “chi se ne fotte” sta iniziando davvero a starmi sulle palle e ormai tutti pensano che uno sbaglia solo se dice “se dovrei” e invece sta passando praticamente inosservato che da un po’ di tempo a questa parte ormai dovunque in tivvù sui giornali e mo pure al cinema sembra normale (e per i più piccoli diventerà persino corretto) dire “Se c’eri vedevi” invece di “Se ci fossi stato avresti visto” o “Se ti preparavi arrivavi prima” invece di “Se ti fossi preparato saresti arrivato prima” ed è allucinante perché a me che sta sulle palle e quindi lo sto notando ogni volta che lo becco io l’ho sentito dire pure al telegiornale durante un servizio e quindi vaffanculo allora perché non iniziate a scrivere anche i giornali con le K ke tanto ki se n fotte della bellezza della lingua corretta e allora in quel film che uno dice “Beh… visto da dove è tratto…visto che è storico… visto che se la saranno menata a farne un bel film….” uno (io) non è che è (sono) proprio felice quando sente (sento) la mia controfigura (Brad) che dopo aver concluso l’invasione della spiaggia di Troia sconfiggendo qualche migliaio di soldati semplicemente al comando della sua personale squadra di cinquanta antenati delle teste di cuoio, accoglie il resto dell’esercito greco con la meravigliosa frase “Se aspettavate ancora di più arrivavate alla fine della guerra” e se nemmeno in un film del genere si difende la lingua allora vaffanculo è davvero solo questione di tempo.

Che io non capisco perché al cinema non vendono i panini cioè se non hai fatto in tempo a cenare e vuoi qualcosa di salato puoi mangiarti solo un secchio di pop corn da due chili oppure mille altre cose dolci ma di un panino nemmeno l’ombra manco un toast, pizzette PIZZEEEEETTE? E si pulisce da solo!
Che se passi davanti a S.Vittore e ti soffermi a leggere le scritte sui muri scopri che là dentro c’è gente a cui qualcuno vuole bene e soprattutto l’intera famiglia di un tizio che la reclama tutta in blocco chissà cosa han fatto.

Che in tre giorni hai messo tre vestiti diversi che ti han fatto essere bellissima in tre modi diversi e tre rossetti diversi che hanno un sapore tre volte diverso e che per sapere se ho ragione io (più che altro per farlo vedere a te) ho dovuto provare tre strade diverse fino ad arrivare a portarti là dove non puoi parlare se no ad incazzarsi non sono solo io.

Hai visto che avevo ragione io quanto è stato bello mi prometti che non parlerai mai tutta la vita se non per dire “Si” o “Quanto sei bello anche oggi” o “Hai ragione tu”?
Non per altro, giusto per non ritrovarti un giorno a dire “Se ti ascoltavo non ti arrabbiavo”.
Che nessuno è perfetto.
Che anche quelli come me e Brad hanno il loro tallone.


Se saprei parlare senza farti diventare rossa
Se dovrei vestire i panni senza toglierli di dossA
Se potrei dir cose meno imbarazzanti le direi
Ma no sarei più gradito in una boooyband.

12 luglio 2004

Ferro

E diciamolo cazzo!

Questa cosa che bisogna essere intellettuali per forza, che bisogna dire che si leggono i libroni e non si guarda la televisione e quando ti chiedono che musica ascolti stai li a sbatterti per trovare un nome di quelli che vanno ai festival d’avanguardia con tre o quattro spettatori per dire che tu c’eri e gli altri tre certo non ti leggono perché sono impegnati a fare ricerche fisico nucleari e allora non possono smentire e ogni tanto ci butti le citazioni che fanno intellettuale per far vedere che tu sei più su della media e tutto questo lo fai al bar, tra amici, in famiglia, sul lavoro, ogni giorno ogni minuto mamma che sbattimento pazzesco che poi fai tutta ‘sta fatica manco avessi a che fare ogni giorno con dei premi nobel e sembra che quasi ti devi vergognare perché invece sei di una banalità sconcertante e allora diciamolo che sono di una banalità sconcertante!
SONO DI UNA BANALITÀ SCONCERTANTE!

Ma noooo…
Mica su tutto…
Però mi sarei un po’ rotto i coglioni di questa storia che sembra che se ti piace l’ultima canzone di Tiziano Ferro ti devi nascondere perché ha rotto le palle e che noia e che barba ed è un idiota ma chi cazzo lo ascolta quello lì

IO!
MI PIACE L’ULTIMA CANZONE DI TIZIANO FERRO!
LA TROVO MUSICALMENTE MOLTO MENO BANALE DELLA MEDIA ITALIANA E IL TESTO NON È AFFATTO STUPIDO!
ECCHECCAZZO!
L’HO DETTO!
ECCO!!!
E adesso ditemi che sono un coglione anch’io.
NON ME NE FREGA UN CAZZO!

E “anche se non valgo niente, per lo meno a te ti permetto di sognare”
per me è una frase bellissima.
E non vedo perché ci si debba vergognare a dirlo.
Intellettuali del cazzo.

7 luglio 2004

I 3 giorni del cuore

Oggi la mia fidanzata viene a Milano per stare da me tre giorni.

Dato che in campagna da lei non c’è il metrò, le paninoteche, i blockbusters, pastaritopizzarito, il bingo, i semafori, il riscaldamento a gas, i microonde, i parcheggi con il gratta e sosta, le vie con i negozi, le lavanderie a gettoni, le fermate del tram con i display, i giapponesi con le macchine fotografiche, gli ausiliari della sosta, gli ape, i navigli, i locali trendy, la musica chill out, e nemmeno le strisce pedonali, credo che non scriverò per un paio di giorni perché sarò troppo impegnato a spiegarle un sacco di cose che lei dice che parla le lingue straniere ma io lo so che poi mi si perde per la citi andando a chiedere “Noio vulevam savuà l’indiris” che già suo padre le ha detto che al nord giovedì piove e la foto col colbacco non l’ho trovata perché se no l’avrei messa perché sono certo che oggi dal treno mi scende un po’ così e se siete di milano e domani passate in zona stazione centrale verso le tre ci riconoscerete, saremo quello più bello del mondo insieme a quella più bella del mondo.

Lei è quella col colbacco.
Io quello che dice perbacco.

5 luglio 2004

Volàno

Mario da piccolo l’estate andava sempre al mare con Mamma Mària e Mario Bros da Nonna Mària a casa della bisnonna MàriaMarìa che aveva la gondola con la ballerina sopra che girava quando le luci si accendevano colorate o viceversa non so, perché accadeva sempre insieme.
C’era la cassapanca che conteneva tutta l’estate di Mario e Mario Bros dentro e due maschere e quattro pinne e due racchette e i camion e le biglie e ogni giorno che si arrivava col treno si correva dietro alla casa ad aprire la cassapanca per tirare fuori tutta l’estate e poi si andava al mare al lido la rocchetta che aveva il giùbocs e i video giochi ma anche quelli che arrivavano dal paese dei mafiosi e infatti erano mafiosi.
E Màrio e Màrio Bros che non venivano dal paese dei mafiosi guardavano sempre quelli che alla sera tutte le sere alla stessa ora si picchiavano mentre loro mangiavano il cono regina che stava nella cassapanca insieme a tutta l’estate e infatti non lo trovavi da nessun’altra parte perché stava dentro la cassapanca tutto l’inverno e pensavano che loro non avevano nessuno da picchiare e allora passeggiavano sul corso che aveva sempre le luci che partivano da un palazzo e arrivavano all’altro palazzo.

Poi un giorno Mario Bros è diventato più grande di Mario e non andava più ad aprire la cassapanca ma andava dalle ragazze che facevano il fuoco in spiaggia e Mario non c’era mai perché lui giocava con le biglie e la notte sulla sabbia non le vedevi e quando ci andava vedeva sempre Mario Bros che diceva alle donne grandi che anche lui era grande e loro ci credevano e lo portavano con loro non ha mai capito dove perché stavano sempre via un sacco di tempo e così da quel giorno per sempre quando si arrivava col treno solo Mario andava alla cassapanca e tirava fuori solo una maschera, due pinne i camion le biglie e le racchette che a lungo andare era diventato bravo a tenerne una nella mano destra e una nella mano sinistra e oggi sa far saltare la palla gialla di spugna mille volte senza farla cadere.

Mario Bros intanto teneva una donna grande nella mano destra e una donna grande nella sinistra e Mario pensava sempre che un giorno anche lui l’avrebbe fatto ma prima doveva arrivare a mille e uno con la palla di spugna così avrebbe detto a tutti che lui era bravo anche con le racchette che se adesso volevano ci andava anche lui al falò a giocare con le racchette e se c’era una donna grande che voleva giocare con lui poteva perché ne aveva due.

Poi però la bisnonna MàriaMarìa un giorno non ci fu più e la casa crollò perché i figli sono come tutti i figli dei genitori che non ci sono più, non più fratelli.
E allora non ci fu più neanche la cassapanca e il cono regina e la passeggiata sul corso e il lido la rocchetta e la musica nella piazza e Mario Bros non aveva problemi perché lui voleva solo le donne grandi e quelle c’erano ancora, mentre invece Mario che non aveva più una cassapanca da aprire con l’estate dentro non andava più al mare e il treno lo prendeva per andare dalle altre parti.

Poi un giorno Mario Bros che non è stato bene ha detto a Mario che lui non aveva mai avuto la mamma, né il papà, né il fratello, che lui aveva sempre avuto solo le donne grandi e le teneva tutte nella mano destra e le altre nella mano sinistra perché doveva fare tutto lui e che Mario era sempre piccolo che voleva sempre giocare con le racchette che erano nella cassapanca e che lui era grande come le donne che teneva nelle mani e poi quando le donne che teneva nelle mani l’hanno visto che non stava bene se ne sono andate con quelli che stavano bene lui ha detto che è da solo anche se c'è Mario e c’è Mamma Mària perché lui non li vede perché non ha mai imparato a guardare altro che le donne grandi che adesso non c’erano più.

E Mario lo sapeva che non era vero che Mario Bros era da solo, perché lui e Mamma Mària ci sono e allora hanno pensato che forse quest’anno per l’estate si poteva andare tutti insieme al mare dove una volta c’era la cassapanca e allora che oggi sono tutti grandi forse Mario Bros li vedrà perché sono più grandi e le donne grandi non ci sono più ad ingombrare la vista e magari Mario Bros che non sta tanto bene se li vede vicini forse un pochino capisce che ci sono e che anche se grandi possono ancora essere una famiglia che non importa se è finta, tanto lui non la vedrebbe neanche la differenza, però almeno non direbbe più che è solo perché non ha una famiglia perché invece la famiglia ce l’avrebbe tutta davanti.

E allora anche Mario che adesso è grande ed è diventato bravo a tenere una donna grande con la mano destra mentre fa mille e uno rimbalzi con una sola racchetta nella mano sinistra quest’estate va al mare con la famiglia che lo sa che c’è sempre stata e va al mare alla mattina tutti insieme come una volta a fare tutte le cose che quando le faceva da solo Mario un po’ si annoiava perché Mario Bros era sempre via e oggi che invece non può andare via Mario lo sa che Mario Bros non è capace di giocare da solo con le racchette e allora invece di andare a sciarmelscieich va al mare dove c’era la cassapanca per riprendere le racchette tutt’e due per giocare con Mario Bros che così magari senza che se ne accorge impara anche lui a fare mille rimbalzi e se non è capace gli fa vedere come si fa e intanto Mamma Mària cucina il pranzo felice perché Mario e Mario Bros giocano insieme come lei ha sempre voluto e Nonna Mària è contenta perché c’ha i suoi nipotoni insieme e Mario non lo sa se questo servirà a qualcosa ma crede che quando uno si sente solo se tutti intorno giocano con lui lui magari dopo si sente un po’ meno solo e non dice che guarisce ma almeno scopre che vicino a lui c’è Mario, c’è Mamma Mària, Nonna Mària e tutti quelli che non andavano ai falò ma che gli volevano bene e anche se non c’è più la cassapanca con l’estate dentro, non è tardi per imparare a fare mille ribalzi con le racchette, basta che prende una racchetta con la mano destra e la mano di Mario con la sinistra.

E colpisce la palla gialla di spugna ogni volta che gli arriva e lo fa tutte le volte che vuole perché tanto Mario è li per lui, solo per insegnargli a giocare con le racchette, e se gli serve giocare tutto il tempo Mario giocherà con lui tutto il tempo che serve, ed è contento di farlo perché lui ha sempre voluto giocare con le racchette che erano nella cassapanca insieme a lui ma lui non c’era mai mentre Mario invece c’è sempre stato e se oggi per farglielo capire serve tornare ad aprire quella cassapanca per giocare con le racchette allora Mario è contento perché dice che forse non gli daranno mai il nobel per la medicina però lui è convinto che ci sono delle malattie che per guarire basta giocare come quando erano piccoli, senza motivo, se non che erano fratelli.



a Mario Bros,
a quando non ha mai voluto imparare a fare i castelli di sabbia perchè lui era grande,
e per questo non ha mai imparato che possono crollare.

18 giugno 2004

Se ricordo bene

Se ricordo bene sorriderò.
Se ricordo bene sarò sereno.
Se ricordo bene mi sentirò fiero.
Se ricordo bene indosserò la tua pelle.
Se ricordo bene non avrò voglia di tornare, da solo.

Se ricordo bene io, una cosa così, non l'avevo mai fatta.

17 giugno 2004

Un giorno me ne andrò

Quando devono commissionarmi un lavoro mi arriva una telefonata.
Ci si mette d’accordo sui tempi e sui modi di consegna delle cose che mi servono.
Se sono files c’è la mail, se sono materiali mi mandano un pony o un taxi a casa.
Se sono via c’è il bar della mia ex che mi fa da casella postale sia in ingresso che in uscita.
Mi arriva la roba, io scendo dal letto, apro la mail o il portone, guardo quanta roba effettivamente è, vado al bar per tre ore a pensare a come farla e me ne torno a casa a lavorare.
Finito il lavoro spedisco tutto via mail, faccio una telefonata di conferma cifra e spedisco la fattura via mail.
Un bonifico mi paga qualche mese dopo.
A volte nemmeno vedo per chi lavoro.
Se mi serve una sala riunioni c’è sempre il bar di cui sopra, ormai abituato a vedermi fare riunioni di lavoro in fondo alla sala tra birre, fogli e patatine.

Non mi serve macchina non mi serve ufficio non mi serve niente.
Non so cos’è il traffico pur vivendo a Milano non ho mai timbrato un cartellino né ho mai avuto un capo, decido se e quando lavorare, non ho pause pranzo da aspettare con ansia e le commissioni me le faccio nella fascia oraria in cui in giro ci siamo io, i pensionati e gli studenti che saltano scuola.
Oggi un cliente è venuto a fare una riunione a casa mia e mentre si beveva una birra sul terrazzo parlandomi del lavoro io tiravo fuori la roba dalla lavatrice.

Il motivo per cui nessuno riesce a convincermi a cambiare stile di lavoro nemmeno di fronte a corpose proposte?
Se domani mi compro una casa in un bosco e tiro un lunghissimo cavo in fibra che arriva fino a Milano nessuno se ne accorge.
Domani, dopodomani, adesso vediamo.
Sicuramente è l’unico progetto che ho in testa da quando avevo vent’anni.
Sono anni che mi sto costruendo a mano la mia rampa di lancio.
È quasi pronta.
Certo non la butto giù proprio adesso per infilarmi nel traffico insieme a tutti gli altri.

Dalla finestra della sua cameretta mio figlio dovrà vedere o alberi o mare.
E la cosa, mi spiace per chi ancora ci prova, non è monetizzabile.

15 giugno 2004

Metà

Fino a te vedevo vuota la metà del letto.
Dopo te è vuota la metà del corridoio, la metà del bagno, la metà della cucina, la metà del terrazzo…

Guarda che roba…
…Non ti sembra manchi qualcosa?



a me si,
ma non ai fornelli.

"...potremmo essere felici e fare un mucchio di peccati..."

13 giugno 2004

Memorie

C’è che la memoria fotografica io ce l’ho solo per le sensazioni.
Il resto col tempo me lo perdo sempre.
Mi perdo i contorni, mi perdo i colori, mi perdo i profumi.
Ma ho una memoria formidabile per le sensazioni.
E così uso quella per ricordarmi i contorni, i colori, i profumi.

E così mi capita da giorni di cercare di ricordare il tuo viso in ogni suo particolare, in ogni suo dettaglio, ostacolato dai giorni passati.
E certo sono felice anche di quei piccoli particolari che ricordo.
Come sorridi, gli occhi piccoli senza occhiali, i capelli lisci e anche mossi, quella piccola cicatrice sopra l’occhio.
Ma il totale un po’ mi manca.
Forse è per quello che si dice “Due metà”.

E allora ogni volta che il totale un po’ mi manca, più o meno ogni secondo, uso la mia memoria per le sensazioni e per ricordarmi come sei fatta ritorno indietro a quel giorno, anzi, a quella sera, anzi ad entrambi.
Quando guardandoti mi vennero gli occhi un po’ lucidi.
E allora sono contento di nuovo.
Perché quella sensazione me la ricordo davvero bene.
E così mi ricordo bene quanto sei bella anche senza ricordare bene i contorni.
Solo che dopo, ogni volta, mi manchi di più.
Tipo che dormo con la tua sciarpa.
E mi sciolgo quando ti sento ridere al telefono.

Ti voglio accanto.

1 giugno 2004

Lei è Lorenza

Lei ha le mani curate ma non laccate, non porta collant ma calzine colorate, se le porgi il braccio non arretra e se piove non si preoccupa che i capelli si arriccino.
Lei beve solo birre piccole ma ne beve diciotto e se desidera una musica la gente glie la canta e se vuole le patatine glie ne portano un sacco.
Lei ha la pelle quella che s’intona con le lenzuola colorate ed è sexy con i guanti di topolino.
Lei non sa dire la “gl” e ride che fa star bene, ti stringe che senti il cuore e ti accarezza che senti caldo.
Lei ha le scarpe da ginnastica e quelle con i tacchi che hanno i colori e le stelle.
Lei esce dalla doccia che sembra quelle foto e ha gli occhi blu blu e l’accappatoio giallo giallo e i capelli tutti bagnati che lei dice di no ma sono belli.
Lei la mattina sei contento che c’è ancora.
Lei ha gli amici che gli puoi saltare in braccio e poi lei abbraccia i tuoi e capisci.
Lei ti guarda anche con gli occhiali da sole e ti dice “vieni qui” sorridendo con gli occhi e tu lo vedi anche se ha gli occhiali.
Lei quando le dici “Sei bella” ti dice “Sei bello”.
Lei però è bella davvero.
Lei ride se la prendi in giro e fa le smorfie che tu la vuoi mangiare di baci.
Lei si siede e si attorciglia a te e se ti alzi lo senti che non c’è più e allora torni subito.
Lei ti aspetta se cammina e ti da i baci senza fermarsi.
Lei c’ha il nome che dopo due giorni tu senti di non averlo detto abbastanza perché c’era sempre e allora lo ripeti senza motivo perché meritava il suo momenti lo stesso.
Lei quando le dici di guardare fuori ti dice che il cielo è bellissimo ma poi ammette che senza occhiali non vede niente e lo dice ridendo.
Lei fa l’amore che non s’imbarazza e ti guarda negli occhi fisso fisso.
Lei abita lontano e “lontano” è dove tu hai sempre saputo di andare.
Lei ordina le salsiccette con gli occhi che dicono “Ma si”.
Lei si addormenta dopo e si sveglia prima e così tu ti addormenti e ti svegli sempre con gli occhi blu che ti guardano.
Lei ti dice “Mangiamo sul letto?” e ti dice che la tua pizza alla cipolla non è stata una bellissima idea.
Lei ti lascia il profumo sulle mani anche se non la tocchi.
Lei non riesci a non toccarla anche se guidi.
Lei seduta sul prato la guardi e lei sorride e canta per te.
Lei esce per telefonare e non guarda mai l’ora.
Lei sa di buono.
Lei dice la verità.
Lei se ho capito bene l’ho trovata ed è tutta mia.
E ancora non ho capito cosa ho fatto di così bello da meritarla.

Lei è venuta a prendersi la sua rosa.
e a regalarmi la mia.

27 maggio 2004

CPS

A Milano c’è un posto che si chiama CPS con dentro tante stanze.
In ogni stanza c’è qualcosa.
In alcune c’è chi guarda il muro fisso per essere certo che continui ad esserci, in altre ci sono giornali solo per donne, in altre ancora tre sedie e un tavolo e assolutamente nient’altro nemmeno una penna nemmeno un fiore.
Poi c’è l’ascensore con due porte una davanti e una di fianco perché all'architetto non avevano spiegato che quello è un posto per gente che ha bisogno di certezze.
Poi c’è un piano tutto vuoto che se vuoi tu domani entri e ti fai un giretto dentro tutto solo, schiacci i tasti della fotocopiatrice, tiri su il telefono, attacchi qualche post-it sulla lavagnetta.

Certi giorni capita che tu devi andarci per forza perché c’è qualcuno che ha bisogno di un paio di informazioni perché dice che gli servono per capire e tu dici ma certo, sono qui per spiegare.
E c’hai davanti uno più giovane di te che come se fosse unto dal signore ha potere di vita o di morte.
E a quel ragazzo gli hanno detto che per fare bene il suo lavoro deve avere sempre lo sguardo pensante di quello che ascolta, deve avere almeno un foglio davanti con un paio di domande nell’ordine, e sotto scritte un po’ più chiare le risposte che deve dare indipendentemente da quello che gli racconti tu perché il capitolo due del manuale delle giovani marmotte da definizioni belle chiare e precise e non serve improvvisare anzi.

Allora questo ragazzo che l’hanno messo in questo CPS la mia famiglia l’ha conosciuta mica tanto nell’ordine che gli avevano scritto, soprattutto me che sono andato a minacciarlo e lui che gli avevano detto che il suo lavoro sarebbe stato facile alla fine ha telefonato a casa e ha detto se potevo farmi accompagnare dai genitori e allora oggi siamo andati tutti belli felici a fare la famigliola che corre alla chiamata del bravo ragazzo che vuole solo avere ulteriori informazioni per capire e lui è stato tanto gentile perché dopo aver furbamente portato la mamma a tirar fuori tutto il rancore che aveva per il mio papà poi allora mi ha guardato che io guardavo fuori dalla finestra e ha detto che lui non voleva tirare fuori quell’argomento che mi faceva un po’ soffrire che lui lo faceva solo perché deve capire e io gli ho detto che papà non c’è più e mi sembrava che avesse ottenuto sufficienti informazioni per capire e che poteva anche lasciare in pace la mamma e poi gli ho fatto capire che sono più grande di lui, che anche se non c’ho il camice bianco io il mio elenco di domande lo conosco molto bene e sono soprattutto più bravo a dare ad ogni domanda la risposta giusta anche se non nell’ordine che ci si aspetta tipo quando mi ha chiesto come vedevo il futuro di mio fratello e gli ho risposto che dipende dalle sue capacità e che al momento lo vedo abbastanza nero nell’ordine esatto in cui non se lo aspettava e che anche se non sono stato unto dal signore io potere di vita o di morte ce l’ho tanto quanto lui.

Poi quando esci da quel posto la gente scatta al semaforo in ufficio ti dicono che il cliente stressa al bar i clienti sono sempre sposati con la donna sbagliata nel tuo palazzo il cane fa la cacca sullo zerbino di quello accanto che urla e tu chiudi la porta mandi un paio di messaggi ti assicuri che qualcuno che ti vuole bene ci sia anche oggi e chiudi la tua giornata sorridendo a quel mondo che non immagina nemmeno che a Milano non c’è un posto che non si chiami CPS ma è meglio che nessuno lo sappia perché tutti continuino a credere che avere risposte nell’ordine giusto significhi aver capito la domanda.

13 maggio 2004

Tesì io pure

Ho offerto il mio aiuto per la preparazione di un esame di Economia ambientale.
Mi son sentito rispondere “Lasa ‘stà”, come se fossi l’ultimo degli scemi e invece non lo sono e io di economia ambientale so tutto quello che c’è da sapere.
E la persona che mi ha detto “Lasa ‘stà” poi ha detto che lei non ha minimamente le idee chiare.
E allora dov’è la differenza? Ho pensato io.
Se servono delle idee precise, e tu non le hai, e io nemmeno, ma a te questo non impedisce di provarci, perché dovrebbe impedirlo a me?
Non le hai tu quelle che servono, non le ho io.
Fammi provare, no?
Partiamo uguali, in un certo senso.
E poi magari invece scopri che io sono intelligentissssssimo anche in economia ambientale e che c’ho l’idea quella che tu non trovavi e io la trovo per intuito o fantasia che dir si voglia non importa, importa che arrivi, no?

Io poi sarò anche scemo, ma più o meno su tutti gli argomenti ti saprei dire la cosa che ti serve per trovare l’idea che ti serve, basta inventare un po’, e io, non foss’altro che per il tempo dedicato a quell’attività ogni volta che me la racconto, ho sviluppato una certa esperienza in codesta arte, sai?

Per esempio…
Ti serve un’idea per una tesina di economia ambientale?
Guarda…io la intitolaterei così:
"Risparmio sui costi dei prodotti di consumo in funzione della protezione del patrimonio naturale"
E poi la svilupperei così:

Per fare un tavolo
ci vuole il le-gno
per fare il le-gno
ci vuole l'albero
per fare l'albero
ci vuo-le il se-me
per fa-re il se-me
ci vuo-le il fru-tto
per fa-re il fru-u-tto
ci vuo-le il fio-re
ci vuo-le un fiooore
ci vuo-le un fiooore
per fare un ta-vo-lo
ci vuo-le un fio-o-re.

E poi la concluderei con la tesi:
“Un tavolo potrebbe costare quanto una margherita se solo si avesse la pazienza di aspettare”.

Allora?
Non meritavo un po' di fiducia?
Guarda, davvero non temere.
Tu chiedi, qualcosa si trova sempre.

Domani che problema vuoi che ti risolvo?
Affrontiamo fisica quantistica?
Ancora più facile.
Titolo:
“Quanto sono bello?”
Sviluppo:
“Di brutto”.
Tesi:
“Basta crederci nelle cose”.

Come si fa a non amarmi?

Le cose d'ogni giorno
raccontano segreti
a chi le sa guardare
ed ascoltare

(G. Rodari - L.E. Bacalov - S. Endrigo)

7 maggio 2004

Piccole principesse

È un po’ di tempo che da queste parti compare in diversi modi il piccolo principe.
C’è chi vorrebbe sapere che nome ho dato alla rosa, chi mi chiede se la pecora l’ha mangiata, chi crede nelle favole e chi ci vede attraverso.

L’avevo letto tanti anni fa “Il piccolo Principe”, mi fu prestato da una persona che un giorno mi disse “Devi leggerlo, TU devi leggerlo” ma poi quando la nostra storia finì se lo riprese perché era la sua copia personale.
Strana allegoria.

L’altro giorno ero in autogrill e non sapevo che rivista comprare per il viaggio.
C’erano anche dei libri, e io un po’ scherzando un po’ no mi sono detto “Ma si, se c’è mi ricompro la mia copia”.
C’era.
In autogrill.

Oggi sono tornato da Roma con il treno e per il viaggio ho appoggiato il libro sul tavolinetto e mi sono messo a leggere il giornale.
“Pensa” ho detto al mio collega “se adesso arriva una bambina e si fa tutto il viaggio qui con noi facendo casino perché sua mamma non le ha comprato niente da fare e lei ci farà impazzire per cinque ore”.

Eravamo io e il mio collega, io con il giornale in mano e il Piccolo Principe sul tavolinetto.
È arrivata una bambina con la sua mamma e si sono sedute accanto a noi.
La mamma era davvero bella, al massimo trent’anni, la bambina era davvero bella, al massimo cinque anni.
Si sono sedute e hanno iniziato a giocare tra loro perché non le aveva comprato nulla per il viaggio se no, assicurava lei, non l’avremmo neanche sentita.
Il mio collega mi dice che questa cosa l’ha sempre spaventato e quando io gli chiesi cosa, l’altro giorno quando me lo disse, mi rispose “Questa cosa che tu quando parli nemmeno te ne accorgi ma una volta su quattro senti quello che sta per succedere e senza accorgertene lo dici”

Ma intanto le nostre compagne di viaggio giocavano ridendo come due amiche e la bambina giocava e la mamma giocava e insieme mettevano un’allegria che nessuno era disposto a dire qualcosa perché quel baccano finisse perché nessuno riusciva a non ridere guardando quella mamma e quella bambina che erano così belle insieme.
E allora in un attimo di silenzio io glie l’ho detto alla mamma che aveva una figlia meravigliosa e che si vedeva che era felice.
“Beh… oggi era un po’ scontenta perché l’ho portata al mare ma pioveva”.
“Intendevo felice in generale, con i suoi malumori, certo, ma si vedeva che era felice”.

E lei che mi ha raccontato che è bravissima, che mangia le cose che gli altri bambini fanno i capricci e lei no, le verdure le ama, e poi fa casino ma se le dici di smetterla la smette sorridendo, che la notte dorme tutta la notte e non ha mai creato un problema tanto che lei ha un po’ paura che con una bambina così lei non è mai messa alla prova e le sembra di non essere nemmeno una buona madre e io le ho risposto che se quella bambina è così felice lei non può che essere una madre meravigliosa e la bambina è venuta a sedersi tra noi e mi ha detto “Io sono una principessa” e la mamma le ha detto “no, tu non sei una principessa, tu sei una bambina” e lei che insisteva e per fare tutta la principessa vamp ha tirato fuori dallo zaino la sua stola di pelliccia e l’ha indossata e mi ha guardato e mi ha detto indicando la stola “Guarda! Lo vedi che sono una principessa” e la mamma le ha detto “Ma dove l’hai visto che le principesse si vestono così?” e lei non sapeva cosa rispondere e stava per dire “è vero” e allora io in quel momento ho fatto un sorriso che si è visto dalla locomotiva e sono intervenuto in sua difesa e le ho detto “Qui! L’ha visto qui! Diglielo alla mamma che hai ragione tu che le principesse sono così! Guarda è qui, fai vedere il disegno alla mamma” porgendole il libro con il principe disegnato sulla copertina con la sciarpa e lei tutta felice che diceva alla mamma “Guarda! Guarda! Sono una principessa!” e la mamma che le ha detto “Ma quel principe ha una sciarpa, tu hai messo il tuo pupazzo” e lei che non sapeva cosa rispondere e stava per dire “è vero” e io in quel momento mi sono accorto di un particolare che non avevo visto fino a quel momento e l’ho guardata bene per vedere se era davvero una principessa e ho visto che il pupazzo che aveva al collo era un elefante e allora mi è venuto un sorriso che l’ha visto anche la locomotiva del pendolino che arrivava in senso contrario e le ho detto “NO!!! Guarda! Hai ragione tu sei una principessa!!!” aprendo il libro alla pagina dove ci sono i due disegni, quello del principe e quello dell’elefante e le ho chiesto “Cos’è questo?” “Un principe!” “E questo?” “Un elefante! Io ce l’ho vedi mamma?!” e allora la mamma si è convinta e l’ha presa in braccio e io le ho detto “Lo vuoi il libro?” ma la bambina mi diceva di no come a quattro anni si dice di no quando si vorrebbe dire di si ma la mamma ti guarda e allora io le ho detto “Tanto lo so che mi dici di no ma in fondo se ti regalo il libro sei contenta anche a quattro anni perché sei una principessa” e la mamma che mi dice che lei fa così anche con le caramelle se sono di altri non accetta mai niente e allora ha preso il libro e ha fatto vedere a tutti che a quattro anni lei sapeva riconoscere le lettere ed era vero ne avrà sbagliate tre su venti e a quattro anni vuol dire qualcosa ma ovviamente sapeva i nomi delle lettere, non ne conosceva il suono e quindi sapeva riconoscere le lettere ma non sapeva leggere “Questa è una Pì!” ma non sapeva che quello era il nome mentre per leggere bisogna sapere il suono.

O meglio, non lo sapeva la mamma, finchè la bambina ha preso il libro ha letto quattro lettere riconoscendole tutte e finito l’elenco delle lettere ha detto la parola intera ghiacciando la madre impallidita di fronte al fatto che aveva letto la sua prima parola, che detto così sembra poco, perché ci si emoziona sempre quando “ha Detto la prima parola” e ci si dimentica che i bambini imparano a parlare tanto quanto imparano a leggere, cioè per loro non è una cosa normale e la mamma stava a due metri da terra dalla gioia e mi diceva “Non le ho detto io la parola, giuro! L’ha letta lei! È la prima volta! Non ci credo!” e la bambina a quel punto ha iniziato a ripetere la parola fino a storpiarla come fanno i grandi e ha iniziato a parlarmi in quel modo la che i grandi non capiscono e io mi sono girato verso la mamma e le ho detto “Ma tu la capisci?” e lei mi ha detto “Non ti preoccupare, ogni tanto fa così, si mette a parlare la sua lingua strana” e non rimetto il link perché se no si pensa che io sia innamorato di quello la del post sotto, ma quando è successa la scenetta della lingua strana io ho proprio pensato a lui e a quel suo post dove diceva che i bambini non inventano nulla, è solo una lingua che usano per parlare con i loro amici immaginari, e io non sapevo più come dire a me stesso quello che stava accadendo ed ero due metri sopra a tutti pure io, perché avevo davanti una bambina meravigliosa con due occhi che avevano ipnotizzato tutto il treno che ha preso il suo elefante, l’ha indossato, mi ha detto “Sono una principessa” e ha letto la sua prima parola su quel libro che io non ho potuto far altro che regalarle anche se lei non lo voleva ma io era ormai un’ora che pensavo che quel libro doveva andare a lei, anche solo per guardare le figure come quella del serpente che ha mangiato l’elefante che non serve saper leggere per capire che lei era davvero la principessa che diceva e quel libro così come non mi era rimasto la prima volta che lo lessi, se n’è andato anche questa volta ed è bellissimo che se ne sia andato così, da quella principessa di quattro anni che aveva un elefante per sciarpa e ha accettato il libro perché la mamma dopo che io le spiegai che quel libro era già suo, le disse “Accettalo, lo leggiamo insieme” dicendo a me che senza saperlo sono stato il primo a farle il regalo di compleanno perché tra qualche giorno è la sua festa e io non lo so perché sono tornato a casa con questa cosa pazzesca negli occhi perché si chiamino coincidenze, fiabe, menate, invenzioni, sogni, li si chiami come si vuole ma lei era troppo lei, l’elefante era troppo l’elefante la parola letta era vera, come vera era la poesia che quelle due hanno regalato all’intero treno fino all’arrivo quando lei dimenticando tutto il resto come è giusto che sia è saltata giù dalla poltrona ed è corsa al finestrino, urlando “Papà! Papà!” guardando fuori in mezzo a mille persone che aspettavano il treno lungo lungo con mille finestrini possibili e quando il treno si è fermato c’era una principessa con un elefante al collo, un vetro, e dall’altra parte, esattamente in quel punto, suo papà a braccia aperte.

Martina, si chiama.
Lei dice MaTtina per giocare a storpiare la erre che non sa dire molto bene ma io le dicevo “MaRtina! Con la ERRE!” e lei insisteva, mi diceva “No! MaTTina!”.

E sia.
Anche per me è più bello Mattina.

29 aprile 2004

Il post d’onore

Ti avevo scritto un post lungo lungo, per non lasciarti la sotto, nascosta tra i commenti.
Per darti il posto che meriti.
E ho pensato a te, a noi, al passato e al presente.
A quel presente nel quale oggi la ragazza che 13 anni fa mi insegnò l’amore, regalandomi la fortuna di poter dire di aver fatto l’amore per la prima volta con la donna che amavo, è cresciuta.
E mi sono reso conto che questo è anche il presente nel quale quella ragazza oggi è mamma.
E allora ho ripreso tutte le parole e le ho rimesse al loro posto, nel mio cuore.
Credo sia più giusto così.

Con te sono diventato l’uomo che sono.
In te.
Ti devo più di quanto immagini.
Grazie.

28 aprile 2004

Pane e acqua

Mario quel giorno imparò a pescare che non ci voleva tanto perché il fiume era pieno di pesci
E Mario quel giorno prese più pesci di tutti, anche più della mamma Mària e di Mario Bros.
Allora Mario quel giorno imparò anche che è il risultato quello che conta.
Mario Senior era già partito per lavoro quel giorno.

Mario e Mario Bros da piccoli facevano tutte le cose in due perché mamma Mària andava a lavorare tutto il giorno e anche tutta la notte perché Mario Senior la aveva lasciata da sola con loro e loro dovevano fare tutte le cose dei grandi ma essendo piccoli le facevano sempre in due.
Mario faceva i letti e Mario Bros cucinava.
Mario comprava il pane e Mario Bros il latte.
Mario giocava a pelota con la stanghetta di sinistra e Mario Bros con quella di destra.
Mario aveva Force Commander e Mario Bros Baron Karza.
Perché Mario e Mario Bros stavano sempre insieme.

Poi un giorno Mario Bros iniziò a crescere più in fretta di Mario e iniziò a giocare con le Mariette.
E a Mario lui un po’ mancava e non capiva perché Mario Bros cresceva sempre e lui no.
Ma Mario Bros non giocava più con Mario perché aveva sempre altro da fare e allora Mario chiese a Babbo Natale il telescopio che almeno quando stava da solo in camera lui poteva guardare la luna e le stelle.
E allora Babbo Natale gli portò il telescopio.
E Mario da quel giorno imparò anche che le cose belle anche se sono lontane possono essere lo stesso vicine.
Come la luna nel telescopio.
E quel giorno Mario disse alla luna di aspettare li, che un giorno Mario Bros sarebbe tornato a giocare con lui e glie l’avrebbe presentato che Mario Bros era tanto bravo.
E anche se Mario Bros oggi è lontano perchè non sta tanto bene Mario oggi sa che la luna ha capito e infatti è per quello che ogni sera lei è li che aspetta.
E anche Mario ogni sera ancora aspetta.
E ancora spera.
E finché la luna avrà pazienza Mario ha promesso che ce l’avrà anche lui.



A Mario e Mario Bros,
a quando facevano le cose in due perchè da soli era difficile,
a quando stavano sempre insieme,
come il pane e l'acqua.

23 aprile 2004

Un sogno

Mi sono svegliato mezzo incriccato vestito di tutto punto come ero vestito ieri sul lavoro di traverso sul letto pieno di vestiti e con la valigia ancora chiusa sopra, con i capelli ancora legati e un rincoglionimento degno di chi torna da chissà quale missione di guerra.
Non ricordo come sia successo, però sono riuscito a cucinarmi una abbondantissima cena e questo lo ricordo, dopodiché mi sono letto la posta e questo lo ricordo e poi mi sono detto “Mi appoggio un attimo sul letto” e questo lo ricordo.
Poi il buio.
E ho sognato e questo lo ricordo.

Uno di quei sogni che sono stancanti, perché pieni di protagonisti stancanti che anche in sogno obbligano a ragionare, in situazioni stancanti perché piene di pericoli e di cose da valutare prima di agire, e questo lo ricordo.
Ho sognato che mio padre non era morto davvero nel senso che non era morto come sappiamo noi anzi come sanno loro perché io lo so che non è andata così come sanno loro, ma era ancora vivo almeno fino al momento del mio sogno perché in questo sogno ero in una sala d’aspetto di un consultorio o giù di li con una televisione attaccata al muro che trasmetteva il tiggì nel quale si annunciava l’omicidio di un occidentale e se ne mostrava la foto del corpo riverso sopra un altro corpo e quello sopra era mio padre quello sotto non lo so e si raccontava la storia di questo tizio che stava lavorando a dei documentari e conduceva una trasmissione dove i suoi documentari venivano trasmessi e poi qualcuno gli sparò e quel qualcuno era un tossico seduto davanti a me in questa sala d’aspetto e io lo sapevo che era lui mentre lui non sapeva chi ero io e quindi non poteva sospettare che l’avrei seguito per rubargli la sua borsa per sapere cosa conteneva e quando sono uscito con la sua borsa per sapere cosa conteneva ho guardato dentro e conteneva un sacco a pelo vuoto e visto che era solo un sacco a pelo ho pensato di riportarglielo perché magari mi ero sbagliato e quando sono tornato nella sala d’aspetto del consultorio ho visto che sulla porta c’era mio fratello che lo stava guardando e senza chiedergli nulla ho capito che quel tossico era in pericolo perché mentre io avevo capito che lui non c’entrava se non per il fatto che era un tossico e questo lo candidava ad essere un possibile omicida, mio fratello non gli avrebbe riservato lo stesso trattamento di favore e anzi glie lo leggevo in faccia che era pronto a vendicare nostro padre e questo lo ricordo come ricordo che appena entrato in quel consultorio il problema da risolvere era impedire a mio fratello di fare la cazzata che la sua mente in questo momento non gli impedirebbe di fare e non era tanto per proteggere il tossico quanto per non far fare a mio fratello una cosa per la quale avrebbe pagato un altro prezzo ma vaglielo a spiegare a lui che si trovava di fronte a quello che gli aveva portato via papà mica sarebbe stato facile, e mentre pensavo di impedire a mio fratello di seguire il suo e il mio istinto mi resi conto con soddisfazione che il tossico non c’era più e invece di incazzarmi perché volevo guardarlo in faccia mi aveva fatto tirare un sospiro di sollievo perché almeno non dovevo più stare attento a mio fratello, ed ero pure contento per aver scoperto che non essendo mio padre morto tre anni fa ma solo oggi, doveva aver scritto almeno altri due libri che a questo punto avrei potuto leggere e avrei anche potuto guardare quelle trasmissioni che conduceva per vedere che faccia aveva in questi ultimi tre anni di cui ignoravo l’esistenza e questo lo ricordo bene.

Poi mi sono svegliato e lo so che non glie ne frega un cazzo a nessuno di questo sogno, come a me non frega un cazzo del fatto che a nessuno frega un cazzo, e che non ha nessun alone poetico ne parole d’amore ne pensieri su cui riflettere tra le righe, mi sono svegliato vestito com’ero con una fretta pazzesca di scrivermi da qualche parte questo sogno prima che mi passasse di mente per motivi miei e l’ho fatto qui.
Ora faccio quello che avrei dovuto fare ieri e in una specie di gioco del tempo al contrario mi svesto, mi lavo e disfo la valigia pensando al perché di questi tre anni ricomparsi così mentre sono crollato dal sonno.
Perché non basta dirmi che ho dormito con la tivù accesa che parlava del grande fratello, dell’incidente ferroviario in Cina e dell’ostaggio italiano.

Dev’essere come i dejavù di Matrix.
Al regista del Brooman Show stanotte dev’essere sfuggito qualcosa.
O gli autori hanno litigato tra loro e qualcuno per sfottò mi ha fatto vedere qualcosa che non doveva farmi vedere o il programma ha subito l’attacco di qualche hacker che vuole salvarmi.
E non si parla di segnali onirici o paranormali.
Ma perché Splinder ha cancellato gli ultimi dieci giorni e solo quelli?
Eppure io li ricordo.
Ma non ci sono.
E mi son subito detto che può succedere, che possono sparire così solo determinati pezzi, sono computer e quindi sbagliano anche loro.
Quello che non capisco è il counter tornato indietro a dieci giorni fa.
Cos’è che non dovevo vedere?

18 aprile 2004

Fabio the Calendar boy

Che tanto poi lo sappiamo tutti che ci si perde.
Perché questo è scritto nel corso delle cose.
E ti ritrovi a salutare un amico che parte e tutti a dire “Ci sentiamo, scriviamoci, una mail, ti verremo a trovare”.
Ma tanto lo sai che non succederà.
Perché è scritto nel corso delle cose che col tempo ci si perde, soprattutto quando è di due continenti che si parla.
Perché andare a vivere negli Stati Uniti non è come sposarsi.
Li, si, al massimo ci si ritaglia un martedì con gli amici a bere rum, ma gli Stati Uniti no, quelli sono lontani.
E allora lo guardi dicendo a te stesso che se succede quello che tu speri che succeda tu non lo rivedi più.
Perché ti auguri che realizzi ogni suo sogno, ogni suo desiderio.
Come ogni uomo sulla terra degno di tale nome merita.
E sai che se dovesse riuscirci significherà che non ci si rivedrà più, o comunque non ci si rivedrà per chissà quanto tempo.
Ed è strano salutare qualcuno sapendo che se realizzerà quello che lui sogna tu non lo vedrai più.
Ed è strano perché ti ritrovi a dire “Spero di rivederti il più tardi possibile” intendendo una cosa bella.
Ed è strano perchè sai che se succede, nella tua vita ci sarà un Uomo in meno col quale bere qualcosa la sera.
E non è poco sapere che gli Uomini che hai intorno sono, da stasera, uno in meno.
E c’è anche un po’ di invidia mentre lo saluti, perché sai che domani c’è un aereo che lo porterà la dove sognava di andare da quando ha iniziato a sognare.
E allora è stima quella che racchiudi nel tuo saluto.
Per un uomo che ha tenuto fede ai suoi sogni.
Che li ha costruiti, rincorsi.
E che finalmente ha dato loro il via.
E te ne fotti se tu sei d’accordo o meno, perché non è la tua vita, è la sua.
E allora gli auguri di farcela, di spaccare il culo al mondo.
Sognando si, di andare a trovarlo quando lo premieranno con l’oscar.
Tutti insieme, come si diceva stasera, a urlare che noi lo sapevamo, mentre ti si salutava, che ce l’avresti fatta.
Per quel film che sei finalmente riuscito a girare come regista, con Spike Lee come aiuto regista.
Immaginando, forse sperando, che un giorno, quando farai colazione con Michelle Pfeiffer ti ricordi di me.
E che tra un pan cake e un orange juice tu le dica “Sai, a migliaia di chilometri da qui ci sono degli amici a cui ancora oggi, dopo anni, manco un po’”.

Take care of you Fabio.

14 aprile 2004

La (sottile) linea rossa

C’è un confine sottile in ognuno di noi che per ignote ragioni dalla stragrande maggioranza delle persone non viene superato.
È un confine dentro la testa, una sottile linea rossa che ognuno ha, quasi mai, ben presente.
Al di qua di quella linea ci sono quelli che si chiamano normali, al di là di quella linea si trovano quelli che non riescono più a fingere.
Quasi sempre si è portati a pensare che chi ha superato quel confine sia uno strano, un perdente, uno che ha perso perché ha ceduto, ha gettato le armi con le quali ognuno di noi ogni giorno senza saperlo si difende dal rischio di oltrepassare quella linea rossa.
E quando si ha ogni giorno a che fare con una persona che quella linea suo malgrado l’ha oltrepassata, un po’ alla volta, ci si rende conto di quanto siamo tutti lì, pronti a fare il salto di là ogni minuto della giornata, di quanto sia sbagliato pensare che quella linea divida i normali dai malati, i forti dai deboli, i giusti dagli sbagliati.
La vicinanza con chi quel confine l’ha oltrepassato toglie ogni giorno un mattoncino da quel muro di consapevolezza che ognuno di noi ha, il cui unico scopo è quello di non farci guardare al di là, per continuare a lasciarci nell’illusione che la realtà al di la di quel muro sia fatta da uomini diversi da noi.
Ed è fortunato chi non ha a che fare ogni giorno con qualcuno che ha saltato la linea rossa, perché così può continuare a pensare che a lui non potrebbe mai accadere perché quelli la sono malati, lui no.
L’ignoranza a volte è davvero un biglietto per un viaggio felice.
Con i finestrini chiusi.

Chi invece per sfiga, per destino, per chissà quale assurda ragione non può fare a meno di tenere la mano ogni giorno a chi si trova al di là di quel muro sa bene che di la c’è gente come noi, normale, con gli stessi identici problemi, gli stessi bisogni le stesse incertezze.
Solo molto più grandi.
Non diverse.
E anch’io a volte ho paura della solitudine, oggi o in futuro, come lui, solo che non ne ho il terrore e allora riesco a conviverci.
Come anch’io ho bisogno di sapere che valgo qualcosa per qualcuno, come lui, solo che quando non ho nessuno riesco a valere qualcosa almeno per me e allora non ne vengo divorato.
Ma il problema è lo stesso suo.
Solo non così grande.
La differenza non è nei problemi diversi, ma nella consapevolezza di poterli superare.

E ogni giorno un po’ alla volta inizi a guardare la gente che litiga al semaforo scommettendo su chi dei due oltrepasserà quella linea, perché entrambi sono li li per farlo e tu lo sai, loro no.
E inizi a guardare uomini che tradiscono le proprie donne e viceversa e un po’ alla volta ti accorgi di quanto terrore della solitudine ci sia dietro a un sacco di gesti che ognuno di noi ogni giorno compie abilmente tenuto all’oscuro dei reali motivi che quei gesti generano da una società che passa il suo tempo a dire a tutti che stiamo bene e abbiamo tutto e siamo giusti e siamo forti.
E allora la tua inguaribile ostinazione a cercare sempre qualcosa di buono nelle cose anche questa volta è uscita dal cilindro pronta a darti qualcosa se non da guadagnare, almeno da cui imparare.
E allora io certo vorrei che mio fratello stesse bene, e non dico guarisse perché non è malato, il più presto possibile.
Però nel frattempo in fondo lo ringrazio perché mi sta facendo vedere un sacco di cose della realtà, anche se dura anzi sempre più dura.
Perché cazzo si sta facendo veramente dura e quella linea rossa è sempre più vicina anche a me ma in fondo vederla sempre li bella davanti mi sta facendo vivere un po’ meglio anche in mezzo ad una realtà che dura è dire poco.
E mi sta facendo capire quanto valga l’affetto nella scala dei bisogni di ognuno di noi.
E mi sta facendo capire però anche quanto sia davvero fondamentale imparare a stare bene anche da soli.
Sognando certo di avere qualcuno per cui sorridere ogni giorno, ma contenti anche se quel qualcuno siamo noi stessi anche se per esclusione.
E mi sta insegnando a non considerarmi esente dagli errori.
Perché di errori cazzo ne faccio anch’io e quando sbaglio sbaglio forte ma oggi lo so che c’è una sottile linea rossa oltre la quale non bisogna andare perché tornare indietro è davvero dura e non è detto nemmeno che ce la si faccia.
E questo in fondo lo devo a lui.

Quella linea rossa ha un tremendo nome clinico che però non rappresenta tutto quello che c’è dopo, ma solo il confine superato.
Oltre c’è gente normale, come me, come te.
Credimi, anche come te.
E bisognerebbe che qualcuno lo spiegasse cosa c’è dietro alla moda di fottere il prossimo, dietro alle mancanze di rispetto per la propria donna, per il proprio marito, ai tradimenti degli amici, alle violenze sui bambini, ai quotidiani pezzi di coca.
E bisognerebbe che un giorno a testa, un solo giorno per ognuno degli abitanti della terra venisse costretto ognuno di noi a guardare chi c’è al di la di quel confine per fargli vedere quante persone con le quali prende il caffè ogni giorno ci sono.
Così da fargli sapere che se ci sono loro forse ci può essere anche lui.
Così da fargli capire che violenza è violenza non c’è differenza se non nell’intensità.
E paura è paura, senza compromessi.
Vera, dura, pesante, mortale.
Non esiste nessuno che non abbia paura di qualche fantasma.
Nessuno.

E allora ve lo spiego io dov’è la sottile differenza tra noi al di qua e loro al di la.
La differenza è semplicemente che noi tra le nostre vittime non includiamo noi stessi.
Anche se il più delle volte, anche questa, è una comoda illusione donataci dall'ignoranza.