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11 febbraio 2017

una mostruosa onda

Se il dubbio che spieghi il perché di questi lunghi silenzi è il mio eventuale essermi fidanzato con la donna più bella dell'intera galassia, also known as quella Valentina Lodovini che ha dato al concetto di Femmina un senso finalmente completo e definitivo, la risposta è -ahimé- no.
Non ancora diciamo, ma mi sto tenendo libero per l'eventuale suo offrirmi la possibilità, opera nella quale mi sono specializzato ulteriormente negli ultimi due anni prima di scoprire che avevo le stesse possibilità di contatto che ho con la Lodovini e allora irrealtà per irrealtà tantovale che sia la Lodovini con la quale oggi posso dire di averne persino di più di possibilità, oltre che di motivi.

Nel frattempo i lunghi silenzi sono dovuti a più fattori, primo tra i quali un lavoro che ormai ha toccato vette che abbatterebbero un cavallo fatte da settimane di cinque aerei in quattro giorni, un paio d'ore di sonno al giorno, applausi a ogni ingresso, successi a ogni uscita, la fila.
Amici e donne si sono ridotti a essere il numero uazzàp al quale invio inutili foto dei cinquanta dicasi cinquanta ricci che ho mangiato l'altra sera a Bari, sentimentali foto dei cartelli pubblicitari negli aeroporti a indicare che sono nella tua terra e tu no perché impegnata a trovare la tua prossima, ancora più inutili racconti dell'ennesimo successo ormai raccontabile solo a chi con me ha vissuto il precedente o si prepara a vivere il successivo, quel diabolico incrocio di destini che sfumano il confine tra colleghi e amici con i quali guadare ogni volta fiumi di arroganza, maleducazione, presunzione e un livello di ignoranza che danni ne sta arrecando oltre il limite del recuperabile o quantomeno del tellorabile o forse sono io che ho semplicemente superato la soglia e oggi sono invalicabile muro, o ponte per chi a differenza mia ad attraversarli nuotando ci prova ancora perché lo ritiene possibile in un paese ormai completamente impazzito.

Per un involontario svolgersi di calendari mi trovo oggi con una casa a Torino e una a Milano lasciata libera dagli inquilini, nella quale quindi oggi vivo quando torno in città per motivi di lavoro.
L'avere una casa a disposizione invece dell'albergo che negli ultimi 5 anni mi ha fatto da alternativa mi permette di programmare l'arrivo ma non la partenza, che ogni volta slitta in avanti di un giorno, poi due, poi tre, negli ultimi due mesi sono stato più a Milano che a Torino e in entrambi i casi oggi posso dire "a casa mia".
Il lavoro già insostenibile è ulteriormente montato come panna, la casa richiede lavori prima di essere riaffittata e quindi incrocio le due cose per occuparmi, come sempre da solo, di entrambe.
Piaciuta come la racconto?
Funziona?
No dai parliamone, è arrivata l'onda, come non mi conoscessi, anzi già tanto che per anni sia stata sotto controllo.
Vuoi l'entusiasmo, vuoi l'amore, vuoi i progetti di amicizia che hanno atteso anni prima di rivelarsi per quello che erano e cioè null'altro che l'ennesimo incontro con l'unico istinto che l'umano avrà sempre come faro di navigazione e cioè il salvare se stessi masticando e sputando chiunque si metta lungo la strada in posizione meno che a favore, vuoi una città che mi era diventata realmente tossica per tutta una serie di motivi che solo gli anni e il non essere più unica alternativa poteva in qualche maniera ammorbidire e quindi risolvere.
Sia quel che sia il tempo è stato necessario e in qualche modo amico perché ha atteso anni prima di rivelarmi la nuova stazione, oggi torno a Milano e l'aria è di nuovo respirabile, quello che doveva essere eliminato è oggi eliminato, quello che chiedeva tempo per tornare è tornato da solo, quello che mi attendeva al varco con i rasoi affilati ha capito che non era cosa, i pub mi accolgono abbracciandomi, gli amici si sono autoselezionati, se voglio toccare qualcosa che non sia la tastiera di un portatile e magari respiri e sappia di femmina è lì che lo trovo ad attendermi ogni volta che arrivo.
L'onda, ora devo mettere in campo tutte le energie che ho per resistere alla pressione dell'onda, perché dopo gli ultimi sei mesi si è caricata di una massa fatta di tutto ciò che a Torino è sfuggito alla speranza e mi sta guardando dal largo con l'esatta forma di uno tsunami che sta per scaricarmisi addosso e resistere al suo travolgermi sarà la mia prossima missione.
La differenza rispetto a sei anni fa è che oggi alla domanda sulla responsabilità rispondo senza ombra di dubbio: mia.
Motivo per cui comunque andrà è stato un successo, perché la differenza non è più il non essere in grado di sezionare quelle altrui ma la raggiunta consapevolezza di quanto a nulla serva farlo, opera nella quale ho perso almeno venti dei miei attuali quarantaquattro quasi quarantacinque anni e ogni volta a dirlo l'ultimo e se l''ultimo sarà, come è stato, davvero l'ultimo allora game set match.


29 ottobre 2016

Non dirgli mai di come è stato bello quella notte al mare

Se questo fosse il vecchio blog stasera porterei tra queste righe tutti i suoi personaggi, per raccontare loro dei cerchi che mi hanno aiutato ad aprire, attraversare e qualche volta chiudere non sempre come avremmo voluto e a volte meritato, altre volte sì.
Mario l'altra sera era insieme a Mario Bros come spesso capita da quando Mario se n'è andato da Milano, il suo lavoro di supereroe sempre in viaggio gli ha insegnato che le distanze non esistono se non nella mente, ogni altra è solo una scelta, una voglia, un metro che puoi moltiplicare per un milione sempre un metro resta e il Per (enne) che fa variabile è quell'istante della vita in cui realizzi che fare un metro e non farlo sono scelte separate solo da un foglio con due colonne, nella prima gli errori commessi, nella seconda lo stesso elenco ma a forma di nomi e il titolo Amici persi per stupidità, perché da giovani ci si pensa capaci di tutto e bisognosi di nessuno e quanto quella sensazione sia il titolo della prima delle due colonne lo si scopre quando l'elenco non potrà mai essere recuperato per intero.
Torino e Milano sono un'unica città, in una vivo nell'altra esco la sera, chi l'avrebbe detto sei anni fa che mi sarei trovato oggi a prendere treni per passare le serate con mio fratello, un passaggio da lei oggi che quel passaggio non ha più un prezzo, accompagnare a casa l'amico dopo aver finalmente accettato i suoi mille inviti per la voglia di raccontarmi cosa fa oggi che ha scelto di fare il salto, andare a leggere nel mio pub abituale che in sei anni non è riuscito a farsi sostituire da analogo torinese e allora cosa si fa, non si può non uscire, si prende un treno e si va a bere una birra a Milano nel pub più familiare del mondo, la città è un'unica città molto grande come nei sogni di chi le progettò entrambe pensando che un giorno si sarebbero espanse così tanto da unirsi ed eccoci qua, è successo.
Mario Bros mi chiede perché non torni a Torino la sera finite le riunioni così risparmierei ristorante e albergo, gli rispondo che se non lavorassi per pagarmi quello che desidero non avrebbe senso il sacrificio che mi richiede e dato che quando esco con lui sto bene fermarmi dà un senso al mio lavoro, ne è felice e lo capisco perché non lo esterna, mezz'ora a offrirci mezzo bicchiere di rhum mi saluta e va a dormire, io mi fermo a godermi la bellezza; quindici anni fa i birilli era erano gli stessi ma disposti esattamente all'opposto, esternava la felicità di stare con me, non lo era, io capivo fischi e bevevamo insieme decine di fiaschi, non dormivamo, morivamo ogni notte e chi non ci riusciva salvava l'altro.
Chiamerei Mario Senior per raccontargli come stia andando il progetto, la fatica di tenere insieme i pezzi, di lavorare sugli altri per impedire che il necessario tempo sommato a quello prevedibilmente imprevisto si faccia distrazione, dissuasione o cambio di direzione, di fare riunioni in cui alzarmi in piedi e recitare il mio show così che l'avvocato sappia, il socio capisca, vedere che l'unica voce dell'elenco dei problemi sembra incredibilmente l'entusiasmo di chiunque arrivato a fine performance scopre che davvero non esista nulla di simile a me in tutta italia e allora chi ci mette i soldi no grazie voglio solo i suoi, chi vorrebbe metterci la sede no grazie dev'essere Torino, chi ci metterebbe la sua assistente e parliamone perché l'ho vista, non mi stava ascoltando mi stava sposando, e quanto cambierebbe idea Mario Senior se vedesse dove si possa arrivare anche senza aver studiato, senza aver avuto nessuno, diavolo davvero nessuno, vicino negli anni in ginocchio a dirmi che ce l'avrei fatta a fare almeno una cosa nella vita come non la fa nessun altro.
Chiamerei lei che queste righe tanti anni fa abitò a forma di violenza, odio, buio della ragione e paura, per farle sapere che il tempo ci ha già perdonati e spiegati, per chiederle se quella foto scattata quindici anni dopo nel suo oggi è il suo racconto di direzioni inevitabili quanto il non poter uscire mai più da corpi amati nell'unico modo possibile e cioè oltre quel buio, oltre quella paura, così oltre qualsiasi ostacolo da raggiungere un cuore che quando ha provato a battere a sincrono non può più smettere di farlo, a meno di farlo rimettendo in scena lo spettacolo o chiudere il sipario e salutare il pubblico.
E chiamerei il Grande Regista Superiore, il personaggio dei personaggi, per chiedergli se sa che così come il mio perdono è arrivato il giorno del mio compleanno, quella foto, l'ho realizzato oggi, è arrivata il giorno del suo.
Domanda inutile, certo che lo sa, non sarebbe altrimenti il Grande Regista Superiore che innegabilmente è.
Quanto sa essere strana la vita quando non vuole smetterla di essere un film, un romanzo, una guerra e una pace.

Di nuovo auguri, Angela.
A te a a lui.


23 aprile 2015

CVD

Aprirsi e consegnare la propria nudità.
Estrarre l'intimo delicato e offrirlo.
Sperare, è sempre una scommessa, che venga maneggiato con cura, cautela, disinteresse.
Soprattutto disinteresse perché la chiave del rispetto necessario è lì ed è un confine sottile come un rasoio.
Perdere la scommessa e vedere quell'intimo usato, tritato, masticato e sputato su una tavola apparecchiata con meno colori possibile.
Vederlo usato come arma senza nemmeno il coraggio di farlo apertamente, che riduzione di sé dev'essere, immagino, una scelta così facile, così autoprotettiva, così efficace nel colpo ma senza il prezzo dell'onda d'urto che la spersonalizzazione disinnesca.
Io di nuovo guardare, osservare con quanta facilità si riesca a passare dal contorno della cosa più bella al peso della violenza più colposa per il solo salvare sé stessi, unica urgenza, la solita unica urgenza di chiunque.
Non è la prima né sarà l'ultima volta che vedrò una persona decidere di scendere così in basso pur di non precipitare.
Non è la prima né sarà l'ultima volta che ci avrò visto lungo non quando sono entrato in una casa, ma quando ne sono uscito dicendo a me stesso Non so perché ma è no.
Ora so anche il perché e dico meno male.
Diosanto meno male.

20 agosto 2014

Anniverbario

Il tempo che sono capace di riempire di parole si misura in ore, quello che sono capace di riempire di silenzi in anni.
Chi ha provato solo il tempo che riempio non immagina quanto sia pieno quello che svuoto.
Quando l'ultima parola emessa è la promessa che sarà l'ultima parola emessa, quella diventa l'ultima parola che emetto.
L'ho fatto due volte in vita mia, il resto di questa vita sarà dedicato a non doverlo fare una terza.
Sì, certo che lo so che giorno è oggi.
Ci sono dolori per diluire i quali il tempo non è una soluzione efficace.


6 aprile 2014

Confesso

Passeggio al mercato nel solito giretto del sabato con la mia borsa da dieci chili di spesa.
Il mercato è fatto in modo che il passaggio centrale sia un fiume di persone che fa fatica a procedere, anche a causa del fatto che non pochi utilizzino quel ristretto canale come personale salotto nel quale intrattenersi a chiacchierare Signora mia con il vicino di casa (farlo sul pianerottolo pare brutto?) come non ci fossero decine di persone che devono saltare sulle bancarelle per superare l'ostacolo del loro andare al mercato a fare public relation portandosi dietro l'intera famiglia nonni zii parenti badanti e non meno di sei bambini tutti sul loro passeggino d'ordinanza addobbato con tutto il necessario per i dieci minuti fuori casa come manco le Jeep alla Parigi-Dakar.
In senso contrario passa una signora, avrà una sessantina d'anni, un uomo, avrà quarantacinque anni mani da muratore e sguardo da grillino, accanto a me inverte la direzione, torna indietro, la ferma e le dice di aver sentito cosa lei gli ha detto dopo che lui inavvertitamente l'ha toccata procedendo nel fiume di gente.
I miei sensi di ragno mi impongono di fermarmi con loro.
Le va con la faccia a dieci centimetri dalla sua e le dice che questa volta le è andata bene ma se si permette un'altra volta di dirgli quello che ha detto, la prossima volta le gira la testa con un pugno.
Capisco che la scintilla è partita, metto giù la borsa e mi fermo accanto a loro a seguire la scena pronto a intervenire se dalle parole passa ai fatti anche solo prendendole un braccio, cosa che per non si sa quale scintilla di lucidità sembra riuscire a impedirsi di fare.
Seguo l'intera scena, la signora è di quel genere che a Torino è incontrabile con discreta frequenza e cioè quel genere di signora tutt'altro che gentile, tutt'altro che educata, tutt'altro che femminile, ai semafori di torino è più probabile incontrare signore inguainate in pantacollant leopardati infilati in stivali camperos che menano camionisti tenendo il ritmo dei pugni cantilenando bestemmie che il contrario, ma tant'è quella sempre una signora è e sempre sessant'anni come minimo ha e a una signora con quelle caratteristiche non vai a un centimetro dalla faccia minacciandola di girargliela con un pugno.

Parentesi.
Io non sono propriamente uno di quelli che se si ferma fa da argine, non intimorisco manco i dodicenni sull'autobus, peso venti chili e si vede lontano un miglio che mi abbatti con uno starnuto.
Ma sono nello stesso momento uno di quelli che in caso di necessità si è sempre fatto argine e, per non so quale legge della fisica, tutte le volte che si è messo in mezzo è sempre riuscito a prevalere senza portare a casa mai uno schiaffo (e forse è questo che mi inganna e mi porta a intervenire, perché la prima volta che lo prenderò serio lo prenderò con tutta la sua potenza e forse da quel momento in poi ci penserò due volte) e anzi riuscendo a fermare persone che per potenza e dimensione le stesse forze dell'ordine faticavano a contenere.
Sono uno di quelli pessimi, di quelli che non si muovono per superiore potenza ma per il contrario, quelli che pur consapevoli dell'inferiorità si muovono solo sulla base di un principio di giustizia, quella leva che annebbia la lucidità e fa sentire potenti e invulnerabili perché protetti dalla giustezza dei pensieri, una follia che prima o poi verrà interrotta dalla realtà che non so quanti anni ancora avrà voglia di darmi ragione.
Ho fermato mafiosi con la stessa polizia che mi suggeriva di non mettermici contro, ho fermato skinheads che erano il doppio di me sia in altezza che in larghezza e solo fissandoli negli occhi, occhi che quando spinti dalla ragione non lo so che forma assumano ma certo fino a oggi devono esser stati davvero imponenti perché hanno sempre prevalso, nei miei periodi di più alta esaltazione ho persino sedato risse nei locali sollevando di peso persone come sempre più grosse di me e buttandole fisicamente fuori lanciandoli sul marciapiede e forse è questo che mi rendeva efficace, la capacità di piegare le stesse leggi della fisica, ho fermato un uomo che in strada stava menando la sua ragazza semplicemente dicendogli "Meglio a me che a lei" alla sua minaccia di darle pure a me e nonostante il giorno dopo un'amica comune (di lei) mi abbia confermato che aveva ragione lui e che lei vuole che lui la meni.
Quelli come me sono il peggio, perché siamo quelli che non si girano mai dall'altra parte non per proteggere i deboli, che nella stragrande maggioranza dei casi sono comunque più forti di noi e pensa cosa mai potrai fare per proteggerli, ma per combattere la propria personale battaglia contro quel sé stesso che si sa essere debole, fragile, che se la farà sotto e non in senso solo letterale la prima volta che incontrerà, perché per quelli come me è solo questione di tempo, qualcuno che non si farà convincere dagli occhi Jedi, quelli che quasi se le cercano le occasioni per intervenire solo per dire al mondo "Ehi guardami! guardami anch'io posso proteggere i deboli!", siamo il peggio, fanfaroni che offrono a chi sta loro intorno più danni che soluzioni.
Ma siamo anche quelli che quando la personale asticella viene superata non li fermi manco con le cannonate e la mia personale asticella è sempre stata le persone che amo e ogni volta che nella mia vita qualcuno si è avvicinato minacciosamente a una persona che amo, quella persona non l'ha fatto una seconda volta.
Chiusa parentesi.

Sono fermo accanto a lui pronto a intervenire e nel frattempo non ascolto ciò che le sta dicendo ma, come sempre, mi ripasso nella mente ciò che gli dirò nel momento in cui deciderò che è il momento di intervenire e prendo le misure del fisico per capire da che parte aspettarmi il colpo, particolarmente concentrato su mani che da sole pesano quanto tutto me e che misuro bene essere sufficienti per risolvere a suo favore se riuscirà a portarne una al mio volto anche una sola definitiva volta.
Ma dalla mia parte ho il fatto che è più basso anche se massiccio come un blocco di cemento di quelli da posto di blocco e il ricordo di cosa mi disse il carabiniere che si occupava di proteggermi quando mi misi contro il mafioso "Tu in quel momento cambia lato della strada e lascia fare a noi, quelli grossi fanno solo più rumore quando cadono e cadono perché più sono grossi e più sono lenti" e così misuro l'altezza delle gambe sapendo che dovrò entrare lì facendolo il più velocemente possibile e pronto a fuggire via appena fatto perché la gente non veda i pantaloni bagnarsi.
Mentre mi faccio questo film lui conclude la sua scena e riprende a camminare senza averla toccata, lei riprende la sua direzione con la stessa faccia di prima, io mi metto a camminare accanto a lui seguendolo e continuando a misurarlo, pronto al momento in cui avesse voluto comunque portarsi a casa la sua rissa quotidiana ormai assaporata dopo aver notato che 'sto scemo non solo si era fermato ma lo seguiva pure.
Stavo continuando la mia battaglia con me stesso, non me ne fregava più nulla della signora, ero io il problema, era lui il problema, quasi mi auguravo che mi notasse perché anch'io ero rimasto a bocca asciutta in tutto quello.
Lo seguo, lo anticipo, lo supero, torno indietro e gli sto accanto ancora una cinquantina di metri, poi lo perdo e torno a casa a mani vuote, ma intere.
Torno a casa e dico a me stesso che di nuovo sono stato pronto a intervenire, di nuovo non mi sono girato dall'altra parte né sono passato oltre.
Passano dieci minuti e l'adrenalina sfuma via lasciando spazio alla lucidità, quella che mi fa rivedere la scena e mi fa vedere che sono stato fermo mentre un uomo di cemento minacciava una donna di paglia di girarle la faccia con un pugno e io non sono intervenuto perché impegnato a dirmi forte, a dirmi capace, a dirmi invincibile e a trovare un modo per controllare la vescica che già mi stava salutando al solo mio ipotizzare i vari possibili interventi.
E ho ripensato a quel fatto là che quelli come me, quelli aggressivi a parole, così eccitati dalla vittoria dei confronti verbali, dei duelli della logica, arroganti e sprezzanti a parole, stanno fermi quando c'è da intervenire fisicamente e in quella scena non c'era da intervenire solo se l'avesse toccata, perché la violenza era già nella minaccia non solo nella sua concretizzazione, perché la paura di quella signora era il fine e il fine era raggiunto con la violenza verbale, quella in cui io sono maestro e io invece l'ho guardata svolgersi senza fare nulla.
Sono uno di quelli che di persona ha paura e interviene solo quando è davvero necessario, sì, sono uno di quelli che nel restante novanta percento dei casi è quel che si dice solo chiacchiere e distintivo e quindi uno di quelli che si porta addosso la colpa, tutta, del fatto che uomini come quelli possono minacciare donne anziane senza che nessuno intervenga e quando dovete dare un volto a quei nessuno metteteci pure il mio che sarei intervenuto subito solo se quella donna fosse stata mia nonna e che quindi per quella donna sono stato nessuno intervenuto, esattamente come quelli che poi a parole descrivo come il peggio di questo paese.

Tanto dovevo all'onestà.
Almeno quella qualità posso vantarla.



12 marzo 2014

Di tutti un po'

Che poi diciamole due parole su quel breve istante in cui l’altra notte decisi di chiudere e nel giro di due ore cambiai idea.
Diciamo che prima di tutto cambiare idea è possibile, è persino facile, soprattutto è un diritto e almeno qui dove non devo nulla a nessuno mi concedo il lusso di esercitarlo.
Sistemata la questione formale andiamo a quella sostanziale, il perché.
Perché non c’era un perché, appunto.
E che non c’era un perché non l’ho capito da solo, ma nelle due ore tra il momento in cui decisi di chiudere e quello in cui cambiai idea, grazie a una serie di piccole cose.

Pochi minuti dopo ho ricevuto una mail da voi due, con la foto dei libri appoggiati al computer e quella prima persona plurale che è per me sempre stata la prova più evidente dell’esistenza dell’amore e quanto è bello scoprire che c’è chi la usa davvero, usata per dirmi quelle cose là su di me che boh, e quelle altre cose là sulla guerra che altrettanto boh, sto pensando a come si possa rispondere e al momento penso solo col silenzio.
E ho pensato che cavolo, dieci anni diventano un libro detto e comparso come se io avessi davvero qualcosa da suggerire, diventano parole così belle che tu pensi se davvero lo vuoi perdere, non i dieci anni ma il risultato di quei dieci anni e pensi che no.
Mentre andavo in giro in cerca di parole non mie trovo un piccolo “Mi mancherai, proprio ora che” che non era per me ma aveva il suono della cosa più per me che volessi ascoltare in quel momento e allora ho fatto finta fosse stato messo lì per me e me lo sono rubato e rubandolo ho pensato perché, se davvero volessi perdere quel proprio ora che e ho pensato che no, davvero no.
Mentre discutevo, raccontavo, romanzavo e infilavo la cronosequenza degli elementi necessari perché tu invece capissi e mi dicessi non quello che volevo sentire ma quello che avevo bisogno, di sentire, mi sono chiesto se avessi voglia di perdere anche te e la possibilità di farmi indicare dove esattamente ho commesso la madre di tutti gli errori e scoprire che il punto era quello, esattamente quello, colpito e affondato come nemmeno chi mi conosce da vent’anni avrebbe saputo infilzare al primo colpo e indicarmi così nettamente dove io non vedevo alcun errore e tutto, solo, grazie a quanto io metto qui pensando siano sciocchezze quotidiane e invece quanto di me ci dev’essere, accipicchia, per rendermi così nudo da esserlo anche quando mi sento vestito così elegante o da ballo in maschera a seconda dei giorni e ho pensato che no, che perderlo anche se così recente sarebbe stata una perdita al pari di quelle così importanti da essere quella alla quale chiedi di dirti dove hai sbagliato, certo che lo farà, e lo farà.
Mentre tutto questo, intorno il silenzio di quelli di voi che amano così tanto il silenzio da averlo sempre scelto come modo per farmi sapere che stavate stringendo i pugni come me e con me e secondo me non solo per tifo ma perché in fondo un pochino alla volta, un giorno dopo l'altro, questo contro ogni logica ci crede davvero così tanto da mostrarlo possibile e contro ogni logica avevate iniziato a crederlo possibile anche voi ed era bello per una volta pensarlo davvero possibile, vero? Ecco, pensate io.
O tu, che mi dici che non intervieni perché quando io parlo apro cerchi che chiudo in quella maniera là che non serve aggiungere altro, che c’è tutto quello che serve, che sono cerchi autosufficienti, e io mi chiedo perché la precisazione, sembra quasi un tranquillizzarmi non necessario, ma poi riavvolgo riascolto e sento che no, era davvero un modo di dirmi che disegno cerchi perfetti e ho pensato che no, che sette anni sette a conservare ciò che hai conservato certa che un giorno me li avresti dati tutti e sette e tutto solo perché i cerchi mi escono perfetti, sarebbe stata una perdita.
E persino tu, che vorresti sotterrarmi di pugni e del cinismo col quale sono certo hai reagito in questi mesi ma che tieni fermissimo al prezzo di tenere fermo tutto solo per non rischiare di dirmi “Sì ok però anche basta ‘sta lagna” e io sorrido e penso che non darti più una lagna al giorno sarebbe una perdita non per te, ma per me che sorrido immaginando con quanto rispetto stai tenendo a freno i tasti.
E tu che non stai bene, che non ti disturbo finché non torni tu e il perché anche solo sapere che c’è un posto dove tornerai è per me motivo per tenere quel posto pronto, è un perché fatto di parole che non serve dire, bastino quelle che ci siamo detti tutte le volte che ci siamo seduti davanti a una bistecca e a un buon vino, che più o meno è coinciso sempre con il momento in cui uno dei due ne aveva bisogno e ehi, sono qui.
E ognuno di quelli che mi scrive per dirmi il perché mi legge e mi aspetta, quante case mi ospiterebbero e tutto perché sembro uno che non farebbe mai del male a nessuno ed è vero, non più.
E quelle piccole a me sconosciute città negli accessi, sì le vedo e come potrei non vederle tante volte mi bussano alla porta e ora che lo dico non lo faranno più o lo faranno di più per farmi ciao con la mano, sarà comunque curioso guardarlo accadere, che ogni volta che le vedo mi piace immaginarle abitate da qualcuno che chissà quanti anni fa o qualcuno che chissà tra quanti anni ma intanto è qui ed è ora e se scompaio poi dove sarà, se sarà, perché magari non sarà più e se fossi tu, ancora tu, ma non dovevamo vederci più? Ma soprattutto tu come stai? Sei come sempre arrivata lì dopo aver girato e rigirato senza sapere dove andare? E tu come vivi? Come ti trovi? Chi viene a prenderti? Chi ti apre lo sportello? Chi segue ogni tuo passo? Chi ti telefona e ti domanda adesso tu come stai?
E quelli che lo so, lo so che vengono qui augurandosi di trovarmi ferito e so che è importante, è una responsabilità che sento quasi come un dovere, le mie cadute sono ossigeno per tante di quelle persone da aver acquisito quella che è a tutti gli effetti una funzione sociale e so che finché gliele fornisco soddisfandone la fame non corro il rischio di vederli venirsele a cercare di persona e a me una vita con la certezza di non attraversare mai più lo stesso lato di strada che calpestano loro è orizzonte sufficiente per offrirmi ferito a qualsiasi godimento, più io sono ferito più sono soddisfatti, più sono soddisfatti più sono fermi dove sono, più sono fermi dove sono meno sono vicini, meno sono vicini più io sto bene, più io sto bene più voi state bene, ricordatevelo sempre, meglio io ferito che voi feriti, io lo so e per questo un posto dove offrirmi ferito è un posto importante, per non dire necessario, per la sopravvivenza reciproca; il patto è questo: io mi offro ferito ogni volta che sarò ferito, voi non commettete una seconda volta l'azzardo di oltrepassare questo vetro, uscirne illesi è un bonus che la ditta non offre due volte.
E tu, dura che più dura non si può, più con te stessa che con me, non mi manchi perché so che non ci sei e so che non ci sei perché posso controllare se ci sei e se non potessi più controllare non saprei più che non ci sei e se non sapessi più che non ci sei non mi mancheresti e vinceresti tu, ci perderemmo per sempre, e invece io spero che prima o poi a mangiare in quel posto là mollando i bimbi al tuo ex marito o lasciandogli la casa libera per una sera, visto che per quel giorno avranno tra i venti e i trent’anni e noi cinquanta o sessanta, mi ci porterai ma se non hai dove dirmelo dove me lo diresti? In mail? Al telefono? Tu? Campa cavallo, meglio lasciare questo posto pronto per quando capirai, perché capirai, che si può essere anche amici ed è bello quando ci si riesce davvero e quando invece non ci si riesce in dialetto si dice Perdita, comunque, e allora scusa ma tantovale, no?
E tu che quanti sono, dieci anni, e facciamone altri dieci se davvero mi dici che ti servono per dire a parole mie le cose tue che non sai dire però dai, facciamo un patto tra adulti, smettiamola di chiamarle cose nostre, dieci anni fa poteva funzionare ma oggi, a questa età, le cose nostre hanno una forma che oggi non hanno.
E tutti quelli, si ok dai quelle, che fanno finta di leggermi ogni tanto, sempre dopo un sacco di tempo, certo, lo so, vuoi che non lo sappia, quello che non so è perché ci sia bisogno sempre di precisarlo ma immagino ci sia quel perché se viene ogni volta precisato e quindi facciamo che io dico Ok, non ti sei persa niente in quel sacco di tempo, e che la cosa è reciproca, ecco una cosa sulla quale ci assomigliamo, tengo aperto così ce lo possiamo riconfermare tra un altro sacco di tempo. Tu nel frattempo continua a non lasciar passare giorno senza ricordare alla rete che ti piace fare pompini, così io posso continuare a non lasciar passare giorno senza ricordarmi il perché ho buttato fuori di casa quell'irrisolto che per amore chiamavo la mia fidanzata. Tenere aperto entrambi è in fondo un modo per darci qualcosa a vicenda.
E poi mio padre che mi legge dalla Russia. Sì, lo so, è morto, ma se avete creduto possibile quella storia là non vedo perché non possiate credere possibile anche questa storia qua, io ci riesco su entrambe, tengo aperto così continuo a spiegarvi come si fa.
E Gianluca che magari tra altri sei mesi o di nuovo tra un altro anno gli viene voglia di ridirmi che amici come noi da venticinque anni non ce ne sono in giro e che ci vogliamo bene e metti che non sappia dove trovarmi, ciao sono qui.

È che chiudere un posto come questo che non chiede e non pretende è come quando finisce la scuola e ci si stringe, non ci perdiamo, mi raccomando rivediamoci, almeno una pizzata al mese e poi dal giorno dopo nemmeno ricordi i nomi, giusto qualche immagine tra le migliori, qualche sigaretta nei bagni, le prima cosa che da quel giorno in poi avresti saputo chiamarsi tette, qualche nome cercato in gùgol e il dubbio che sia lui, l’assenza di posti dove raggiungerli, facebook non mi avrà.
Tengo aperto perché questa è una trincea in prima linea sul campo di battaglia con quelli là di facebook e di twitter e di tutte quelle diavolerie da mille contatti ma chi, chi di loro può dire di averne anche uno solo come voi?
Dai su, non scherziamo.

)

15 gennaio 2014

FYI

Quello che dovevo sapere l'ho saputo nella prima fase i osservazione, quello che dovevo misurare l'ho misurato nella seconda, quanto sia buio e profondo il pozzo l'ho misurato nella terza.

La mia osservazione del tuo nuovo mondo, e in parallelo di quello dei personaggi pittoreschi che hai selezionato per allestirlo il più possibile innocuo, finisce qui.
In un punto in cui la mortificazione per lo stato in cui, inconsapevolmente, sei è direttamente proporzionale all'amore provato per te.
Fa quasi male guardarti oggi sapendo quanto lontana tu sia dal realizzare cosa ti è accaduto e quanto lontano chiunque possa essere dal poterti aiutare a non costruire una caduta da così in alto come quella verso la quale al contrario sei lanciata a tutta velocità.
Sono mesi che mi immagino la stesura degli argomenti raccolti nella mia quotidiana pratica del tuo nuovo mondo fatato, ma la realtà è che è semplicemente tutto molto brutto, abbastanza da toglier senso a qualsiasi parola, persino le mie che un senso riescono a inventarselo piuttosto che ammettere di non averlo.
E' la tua vita e come chiunque hai tutto il diritto di farne ciò che pensi meriti, che questo per il resto del mondo significhi o meno sminuirla, ridurla, ridicolizzarla o, peggio, venderla al miglior offerente in cambio di qualche altro anno di inerziale mimetismo.
Che mi servirà da lezione non rende abbastanza l'idea.

Io mi fermo qui, nel punto in cui sento di essere ancora in grado di non farla pagare a nessuno che non sia tu e quindi, per una forma di pena che mai ho provato così forte verso una tanto incontrollata fragilità, a nessuno.
Io la passeggiata dentro le sabbie mobili dovevo farla e l'ho fatta, se una cosa so fare è non sottrarmi al necessario, ora è il momento del tratto successivo nel quale tu non rientri in alcuna forma. 
Se hai ragione tu ti salverai, se ho ragione io ci vediamo tra non meno di tre anni.
Tanti te ne serviranno per finire la spinta, e poi auguri.
A te e a chiunque si trovi nel raggio dell'onda d'urto che si genererà dall'impatto tra la te stessa che nei prossimi tre anni avrai pensato di aver mostrato e quella che in realtà gli occhi degli altri nello stesso momento vedevano.
Tu non ci crederai ma ti auguro di non scorpirla mai, la distanza tra le due.
Si può vivere benissimo anche nell'inconsapevolezza e certe vite conviene non si spingano mai per nessun motivo sotto la superficie.
Mi devi molto.
In cima a tutto la possibilità di essere ancora arrogante, di quell'arroganza che ti ha accompagnata attraverso queste parole e, unica guida, ti fará da volàno da qui al giorno in cui di colpo realizzerai che se non ti ho colpita è solo perché consapevole fin dal principio del male che avrei fatto e di quanto ti avrei azzerata e che per questo, solo per questo, ho preferito lasciarti potente, al prezzo di apparire io sconfitto.
Non mi ringrazierai mai, non lo puoi capire quanto amore c'è in questo, anche in questo.
Non l'avevo mai provata, ma a sensazione e a volergli dare un contorno mi viene da pensare che sia ciò che ho sempre sentito definire Pietà senza capire mai realmente in cosa differisse dalla protezione, che fino a oggi vedevo sinonimo.
Ora lo so: differisce nel punto in cui la protezione è la scelta di riparare qualcuno dal male altrui, la pietà dal suo stesso.

28 settembre 2013

Margini, appunto.

Gli uomini non saranno mai cosa per te.
Due che non ne fanno uno nemmeno se li metti uno sull'altro.
Twitolo: (Si scrive "Contorto", si legge "Pavido". La paura di sé stessi e uno specchio)

25 settembre 2013

No, non tu, l'altro.

E capita che davanti a una birra con il cugino ti ritrovi a dover inventare un esempio per spiegargli il concetto di banalità, di miseria intellettuale presentata (e vissuta!) come fosse filosofia dispensata a ritmo di dieci perle al giorno una più preziosa e imperdibile dell'altra, tutte prodotte con l'aria di chi ha riassunto dieci volte al giorno, trenta volte al mese, 12 mesi l'anno, cento anni un secolo, la sintesi della vita e la generosità di chi la regala al prossimo, perché è chiaro che quando sei così illuminato non puoi che essere anche generoso, ché se sul palco ci sali col trucco ma senza il parrucco saresti un improvvisato ed è chiaro che non lo sei.
Perché quando ci si percepisce depositari di tanta illuminazione si sente il dovere di aiutare gli altri a nutrirsene perché anche loro si elevino e tocchino la saggezza che tu hai donato loro, inconsapevole vittima di una psicotica autopercezione che ci porta a credere non solo che sia possibile una roba che nemmeno Terzani, e stiamo parlando di Terzani, avrebbe mai avuto la presunzione necessaria per credersi capace di fare pur essendo forse l'unico al mondo a potersela permettere e infatti guarda che intima e viscerale umiltà scelse per vivere e morire, ma che soprattutto una cosa tanto irreale è stata data proprio a noi.
Manco Cristo, e stiamo parlando di Cristo, si percepiva così.

E per trovare l'esempio che alla curiosità del cugino riassuma in pochi caratteri tutto questo non fai altro che prendere l'algoritmo che ormai hai capito stare dietro la costruzione delle perle di saggezza e lo applichi al concetto più banale che ti venga in mente nei primi secondi, per non stare a investirne più del necessario in un esempio che sia chiaro.
E capita che stamattina ti svegli, apri la pagina del pacifista amante del dolore altrui e scopri che 3 ore fa l'ha scritto così come l'avevi pensato tu ieri sera le-tte-ra-le.
E allora o io prevedo il futuro (e non sarebbe la prima volta solo che in genere non mi è possibile dimostrarlo così chiaramente) o il Grande Regista Superiore continua a divertirsi o tu sei veramente la materializzazione di ciò che è più facile pensare quando serve spiegare a qualcuno il concetto di banalità umana.
Qualsiasi sia la verità, resta che ieri sera per raccontare il nulla ho inventato ciò che tu stamattina hai inventato per raccontare il tutto.
E tutto questo è sufficiente per spiegarsi ogni perché e per continuare a giocare con il Grande Regista Superiore.
Che se voleva farmi giocare solo con la banalità si sarebbe limitato a farmene trovare la copia da qualche parte in rete, ma che al contrario come abbiamo visto durante la mia campagna bellica ama divertirsi fino in fondo e per questo tra duecento milioni di utenti attivi ha scelto di farla pronunciare proprio a te e proprio stamattina.
Siamo dentro un grande gioco superiore e perdonami se al momento nonostante la tua illuminazione ti dica il contrario io sono in incredibile vantaggio.
Tu pensi quello che io dico agli altri che tu pensi e dopo poche ore lo scrivi convinto di, dandomi così l'inattesa possibilità di mostrarglielo per chiudere la dimostrazione in una maniera che non avresti potuto rendermi più facile e dirgli "Visto? Se io penso una cosa entro breve quella cosa si materializza" e lui, con una saggezza che non sa di avere ma che in realtà è solo inesperienza a maneggiarla, rispondermi "Potrei chiamarti veggente ma questa è tutta logica".
E' tutta logica, esatto.
Poi c'è il resto, la materializzazione temporale, che è tutta roba mia e ultimamente direi che si è riattivata con una certa intensità.
Se io sono quello che tu pensi io sia, fossi in te mi preoccuperei perché significherebbe che come pensieri vali proprio poco.
Se non lo sono, mi preoccuperei anche di più perché significherebbe che vali anche meno.
Ma tu non ti preoccuperai in entrambi i casi, perché in realtà vali nulla.
Io lo so, tu inconsciamente lo sai altrimenti non ti danneresti a dissimularlo con tanto fervore, l'importante per entrambi è che continui a non capirlo lei, così siamo salvi entrambi.

Il problema è che quando io amo tendo sempre a sopravvalutare e invece guarda lì quant'era facile, un algoritmo e il nulla diviene tutto.
Ma è un problema mio, tu sei perfetto così e non potresti essere più adeguato.
Mi raccomando resta sempre così, finché ci sono quelli come te noi possiamo continuare a sentirci giganti.

5 giugno 2012

I miei prossimi quarant'anni


La differenza tra quando hai compiuto trent’anni e oggi che ne fai quaranta, la si può riassumere nel fatto che invece di comprare weekend adrenalinici ,in rete compri esami flebologici.
Poi a quaranta non fai gli esami che pure hai comprato esattamente come a trenta non andavi ai weekend adrenalici e questo significa che sei lo stesso scrutatore non votante di quando ne avevi trenta e questa è una costanza che merita almeno la celebrazione dell’evidenza.

Si sta in quella fase lì, quella in cui sei abbastanza avanti da avere un bagaglio sufficiente per poter cominciare ad abbassare il margine di errore, ma non ancora così avanti da potersi permettere di smettere di considerare maturità ciò che in realtà era solo sinergia tra istinto e stanchezza, così da finalmente liberarne la potenza in qualsiasi direzione abbia bisogno di sfogare e non più solo in quelle che vengono bene in foto.

Per il resto mi sembra tutto abbastanza usuale, familiare quanto lo era ieri, e credo che questo abbia qualcosa a che fare col fatto che io quarant’anni li ho da quando ne ho nove.
Sono uno di quelli che è dovuto andare da zero a cento in quattro secondi e spesso, ma oserei dire quasi sempre, mio malgrado; il mondo non sempre ti chiede prima quanti anni hai e poi se sei in grado di averne di più, a volte salta i preliminari.

Il vantaggio è che stai sempre un passo avanti agli altri, tutti gli altri, compreso te stesso e allora oggi so che nei prossimi non conquisterò più la luna, non condurrò popoli alla liberazione, non guarirò malati, non girerò film come stutman, non aprirò una mia azienda, non farò il maestro d’asilo, non avrò una famiglia numerosa una casa in montagna e un allevamento di cani.
Oggi penso che se anche solo riuscissi a riposare un po’, potrò esser certo di aver davvero capitalizzato anche il male e quindi aver fatto l’unica cosa che in tutta onestà non ho voglia, prima che forza, di fare.
A uno come me non bastano quarant’anni di tentativi per prendere atto che davvero tra le alternative possibili non c’è la soluzione ma solo diversi modi per conviverci.

Io penso molto, questo sì.
A una velocità e un ritmo tali da aver bisogno di strumenti espressamente studiati per tenere lontano il rischio di esagerare, col risultato di avere in testa Pelè con due nani attaccati ai polpacci.
Non me ne voglio liberare per il loro non piacermi, sono lì attaccati da talmente tanto tempo che dovendomeli tenere ho almeno imparato a palleggiarci e quindi alla fine ci condivido anche parte dei meriti da ammirazione, me ne voglio liberare perché so cosa il mio pensiero potrebbe fare se lasciato libero di muoversi in proporzione alle possibilità: Tutto.
Anche cose che oggi mi vengono per sbaglio.
Soprattutto quelle che fino a oggi mi sono venute per sbaglio e che mi fa così incazzare l’impossibilità di replicarle perché distratto.
La mia mente fa cose davvero speciali.

Comunque: finalmente mi piace leggere, vado molto in bici, al parco a fissare il vuoto, faccio i lavoretti da hobbysta aggiustatutto, sono senza soldi e senza lavoro, ho una fidanzata che l’ultima volta che m’ha detto che sono sbagliato è stato cinque anni fa quando mi ha conosciuto, una famiglia intorno che si fa urlare contro le peggio cose e quando finisco mi danno i baci, una città insospettabilmente bella, amici che non mi vengono a trovare e quindi vado io a trovare loro, mi è stato detto che uno dei miei fratelli mi renderà zio, una nonna che dopo un anno e mezzo ha finalmente iniziato a chiedermi se le do una mano.
Piccole cose, l’immondizia, la soletta da incollare alle scarpe, la lampadina.
Con calma, abbiamo tempo.


15 dicembre 2011

Apppunti per romanzo in 3 atti


I Atto: 
Ossessione

Il disturbo ossessivo-compulsivo o DOC (in inglese obsessive-compulsive disorder o OCD) viene chiamato anche sindrome ossessivo-compulsiva o SOC (in inglese obsessive-compulsive syndrome o OCS).
[...]
Tale disturbo consiste in un disordine psichiatrico che si manifesta in una gran varietà di forme, ma è principalmente caratterizzato dall'anancasmo, una sintomatologia costituita da pensieri ossessivi associati a compulsioni (azioni particolari o rituali da eseguire) che tentano di neutralizzare l'ossessione.
[...]
il fatto di avere genitori o figure importanti durante l'infanzia e l'adolescenza affetti da DOC o da tratti di personalità ossessiva, influisce in modo decisivo sullo sviluppo del disturbo ossessivo-compulsivo;[...], pare che il DOC sia scatenato dall'aver avuto genitori assenti, cioè ipoprotettivi, o, soprattutto, iperprotettivi e insicuri nei confronti del mondo.



II Atto: 
Stalking: quando le attenzioni diventano persecuzione 

L'attenzione che si trasforma in ossessione. Molestie quotidiane, silenziose, difficili da individuare e arrestare. E il sospetto diventa paura, erode la libertà fino a costringersi in una prigione soffocante. Questo è lo stalking: comportamenti reiterati di sorveglianza, controllo, contatto pressante e minaccia che invadono con insistenza la vita di una persona per toglierle la quiete e l’autonomia. Gli atti persecutori sono ora un reato ben definito, punito con condanne da sei mesi a quattro anni di reclusione.

Dall'entrata in vigore della legge sullo stalking, il 25 febbraio scorso, è emerso un fenomeno dalle dimensioni allarmanti, portando alla luce centinaia di richieste di aiuto da parte delle vittime.



III Atto:  
La sentenza n. 14402/2011 - Danno esistenziale, danno morale, personalizzazione ed integrale risarcimento dei danni:

«Orbene, va anzitutto precisato che, diversamente da quanto affermato nell'impugnata sentenza, il “cosiddetto danno esistenziale” non consiste invero nella “privazione di attività non remunerative, fonti di compiacimento o benessere” bensì, come da questa Corte anche di recente ribadito, nel pregiudizio del fare aredittuale del soggetto determinante una modifica peggiorativa della personalità da cui consegue uno sconvolgimento dell'esistenza, e in particolare delle abitudini di vita, con alterazione del modo di rapportarsi con gli altri nell'ambito della comune vita di relazione, sia all'interno che all'esterno del nucleo familiare (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972; Cass., 12/6/2006, n. 13546; Cass., Sez. Un., 24/3/2006, n. 6572).

È lo sconvolgimento foriero di “scelte di vita diverse”, in altre parole, lo sconvolgimento dell'esistenza obiettivamente accertabile in, ragione dell'alterazione del modo di rapportarsi con gli altri nell'ambito della vita comune di relazione, sia all'interno che all'esterno del nucleo familiare, che, pur senza degenerare in patologie medicalmente accertabili (danno biologico), si rifletta in un'alterazione della sua personalità tale da comportare o indurlo a scelte di vita diverse ad assumere essenziale rilievo ai fini della configurabilità e ristorabilità di siffatto profilo del danno non patrimoniale (v. Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972; Cass., 12/6/2006, n. 13546; Cass., Sez. Un., 24/3/2006, n. 6572).
Deve quindi adeguatamente sottolinearsi che, come le Sezioni Unite del 2008 hanno avuto modo di porre in adeguato rilievo, quando il fatto illecito come nella specie si configura (anche solo astrattamente: v. già Cass., Sez. Un., 6/12/1982, n. 6651) come reato, il danno non patrimoniale sofferto dalla persona offesa e dagli ulteriori eventuali danneggiati (nel caso di illecito plurioffensivo: v. Cass. n. 4186 del 1998; Cass., Sez. Un., n. 9556 del 2002) è risarcibile nella più ampia accezione di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, giacché in tal caso, superato il tradizionale orientamento che limitava il risarcimento al solo danno morale soggettivo, identificato con il patema d'animo transeunte, ed affermata la risarcibilità del danno non patrimoniale nella sua più ampia accezione, anche il pregiudizio non patrimoniale consistente nel non poter fare (ma sarebbe meglio dire: nella sofferenza morale determinata dal non poter fare) è risarcibile (così Cass., 11/11/2008, n. 26972).

10 settembre 2009

FaceBroo

Quando si ascoltano due versioni di uno stesso fatto, quando le si ascoltano raccontate dai due protagonisti, si aprono due strade: non prendere posizione in assoluto, o prendere quella che ci sembra la migliore.

Il 99% della gente sceglie questa seconda strada.

Se si sceglie di non prendere posizione in assoluto, partecipare comunque alla obbiettiva valutazione del fatto è pratica inutile se non addirittura peggiorativa del fatto stesso.
Se al contrario si sceglie di prendere quella che ci sembra la migliore, si aprono due strade: prenderla basandosi su quanto la versione offerta ci risulti quella rispondente alla realtà, o prenderla basandosi sul rapporto con la persona che ha esposto la propria versione.

Il 99% della gente sceglie questa seconda strada.

Se si sceglie di prenderla basandosi sul rapporto che si ha con la persona che quella versione ci ha offerto, partecipare comunque alla obbiettiva valutazione del fatto è pratica inutile se non addirittura peggiorativa del rapporto stesso.
Se al contrario si sceglie di prenderla basandosi su quale delle due versioni offerte ci appare più rispondente alla realtà, si aprono due strade: prenderla basandosi su quella che è la realtà della persona che ce l’ha offerta, o prenderla basandosi su quella che è la realtà a noi comprensibile.

Il 99% della gente sceglie questa seconda strada.

Se si sceglie di prenderla basandosi sulla realtà di chi quella versione ci ha offerto, partecipare comunque alla ricerca della verità è pratica inutile se non addirittura peggiorativa del percorso per conoscere la realtà.
Se al contrario si sceglie di prenderla basandosi sulla realtà a noi comprensibile, si aprono due strade: aprirsi alla possibilità di scoprire che la versione a noi offerta dalla persona con la quale si ha un rapporto non era quella vera, o chiudersi alla possibilità di migliorare quel rapporto.

Il 99% della gente sceglie questa seconda strada.

Quando si ascoltano due versioni di un fatto, qualunque sia il nostro rapporto con le persone dalle quali le si ascoltano, non bisognerebbe mai dimenticarsi che no, la verità non sta mai nel mezzo.
Una delle due è la versione reale, l’altra no.

Per avere una ragionevole possibilità di assegnare a entrambe la loro corretta posizione, non bisogna valutarle partendo dal rapporto, ma partendo dalla versione stessa.
Per individuare quella falsa basterà osservare quale delle due si occupa di giustificare quanto avvenuto dopo il fatto che finge di narrare.
Per individuare quella vera basterà osservare quale delle due non spende nemmeno una parola su quel dopo.

Il 99% della gente nel 99% dei casi ha un bisogno viscerale di giustificare, prima che le proprie azioni, i propri errori.
Quando si ascolta una versione di un fatto che tradisce ansia di giustificare ciò che si è scelto di conseguenza, nel 99% dei casi si avrà davanti una mistificazione.

Se è un amico, si aprono due strade: affrontare la realtà del rapporto, prima che quella di quell’amico, o lavarsene le mani e chiamare lo stesso tutto questo “amicizia”.

Il 99% della gente sceglie questa seconda strada.

Da quando io non ci riesco più mi si sono aperte due strade: combattere ogni giorno per restituire al rapporto, a ogni rapporto, i contorni del vero significato della parola amicizia, o accettare che non possiamo aiutare tutti quelli che vorremmo aiutare, lasciando ciascuno al proprio destino.

Se si sceglie la prima, si dovrà esser pronti a essere considerati nemici dai propri stessi amici.
Se si sceglie la seconda, si dovrà esser pronti a essere eliminati dai 99 amici che il 99% delle persone che conosco dice di avere, per diventare parte di quell’1% di gente che non ha 99 amici che a loro volta ne hanno altri 99 che a loro volta ne hanno altri 99.

Il 99% della gente non avrà mai le palle per andare incontro consapevolmente alle conseguenze di entrambe le strade.

Per questo il 99% della gente conosce il 99% delle cose che il 99% dei propri amici dice del restante 99% delle persone che conosce, ma non sa nemmeno l’1% di quanto il 99% delle persone che conosce dice di lui.

Milano tiene la propria economia interamente in piedi su questo semplice assunto.


22 aprile 2009

Se questa casa non ha più pareti ma alberi, alberi siano

Nel 2010 saranno esattamente venti anni di lavoro, venti anni nei quali non c’è stato un solo giorno, uno solo, sotto padrone né con un qualsiasi tipo di contratto che non fosse la parola mai scritta.
Vent’anni di strette di mano, anche per rapporti di qualche anno, mai una firma o un foglio a forma di salvagente.

Non so come ci sia riuscito, certo un mix di fattori non tutti dipendenti soltanto da me stesso.
Per esempio un bel ruolo non può che averlo avuto la fiducia concessami nel tempo, perché se è vero che non ho mai avuto alcuna garanzia scritta per tutelarmi dalle cazzate di chi mi stava sopra, è anche vero che loro a loro volta non hanno mai avuto alcuna garanzia a tutela degli eventuali danni delle mie.
Dopo vent’anni posso permettermi un piccolo bilancio intermedio rispetto a questa cosa della tutela scritta, un bilancio che vantando un monte-cazzate (reciproche) pari a zero, mi rivela che in assenza di armi certe, si finisce col non cercare mai di spararsi a vicenda se non in pochi rari casi di livello umano troppo basso per far statistica.

Venti anni così però un problema lo creano ed è un problema visibile solo se ci si sofferma a pensarci e dopo vent’anni l’ho fatto: ho realizzato che vent’anni così, se all’inizio sono una bella scommessa, quando consolidati e fattisi schema diventano uno schema irreversibile.
Io non sarò mai capace di lavorare sotto padrone.
Le libertà garantite da questo tipo di rapporto, che all’inizio sono solo velleità, a schema consolidato diventano l’unico schema possibile.

Ci pensavo ancora oggi, dopo l’ennesimo utilizzo della libertà più grande tra queste: la libertà di mandare affanculo chi pensa di starti sopra anche fisicamente.
Ci pensavo oggi, quando mi sono reso conto che in questi vent’anni ogni volta che nella mia mente è apparsa la parola “Vaffanculo” quella parola ha sempre e immancabilmente preso la via della bocca nel giro di uno al massimo due secondi, prezzo conseguente pagato sempre ma sempre e immancabilmente considerato inferiore al piacere della liberazione della parola.
Ci pensavo oggi quando mi sono reso conto che i secondi successivi alla parola, da sempre imbevuti di solo piacere, per un istante sono stati attraversati anche da una nuova e inattesa consapevolezza: a ogni vaffanculo io metto a rischio il domani.

Mi son chiesto il perché di questa novità, io che al domani in effetti ci pensavo già ieri pur liquidando la domanda con la risposta: andrà bene.
A colpi di esclusione ho capito che la novità è che il domani al quale pensavo fino a ieri era il mio domani e che quindi in quel domani avrei avuto da metterci solo e soltanto le mie scommesse, a oggi tutte vinte, mentre il domani al quale penso oggi è il nostro, nel quale le scommesse e gli azzardi cambiano il corso di due vite, non più solo della mia.

Io sono uno di quegli uomini noiosissimi ai quali piace dipingersi come provati dalla vita al punto da non voler più dire scemenze quali “Ti amo” più per l’affascinante immagine burbera che pensano di restituire di sé stessi, che per reale incapacità di pronunciarle, altro bilancio.
Poi mando affanculo qualcuno con la stessa velocità con la quale lo facevo ieri, ma a differenza di ieri sento di aver messo in qualche modo a repentaglio il futuro di qualcun altro che non sono io e a quel vaffanculo ci penso in maniera diversa, meno pancia piena, per un brevissimo istante vicina al concetto a me così estraneo di disponibilità al compromesso, se serve.

Non lo so se sarò mai capace di lavorare sotto padrone, né se sarò mai capace di tenermi in gola il prossimo vaffanculo, così come non lo so quando mi uscirà il prossimo “Ti amo”.
Quello che penso stasera è semplicemente una roba che se dovessi descrivere con uno dei miei divertentissimi (ridere, grazie) giochi di parole calembour parafrasi e giochi verbali vari ed eventuali assomiglierebbe a una roba tipo che sento la mia libertà pronta a finire anche domani, se mi si garantisce che in quell’esatto istante inizia la tua.

Nel mio sogno di amore una roba così non è ancora amore, ma se per la media delle persone questo è amore, allora facciamo che è amore.
Tanto è una convenzione, possiamo anche chiamarlo “bicchiere” (ri-ridere, grazie) ché la sostanza non cambierebbe e la sostanza è che a me della casa non me n’è mai fregato nulla e se oggi mi arredi e rubi e invadi ogni angolo davvero l’unica cosa che mi resta è che a oggi ogni angolo di spazio modificato mi è sembrato più bello di quando me ne occupavo io.
Con il futuro il discorso è più o meno lo stesso e quindi fai pure, male non fare paura non avere o mettersi d’accordo per averla uno dei due a turno così non sarà mai paura ma relax.
Ché se c’è una libertà che davvero io non mi sono mai potuto permettere è proprio quella di avere paura, quella oltre l’istante che la genera, quella riflettuta, quella che si prende il tempo necessario per rivelarsi interamente senza l’ansia di vederlo sottratto a quello necessario per risolvere.

Ecco, permettimi di avere paura per il tempo necessario per rendermi conto che se andrà bene non dipenderà solo dal mio non essermi distratto nemmeno un istante e io in cambio restituirò qualcosa che apparirà amore anche a me e non solo alla media della gente.
Perché amore per me è questo, il dare qualcosa mai dato prima e io “Ti amo” l’ho già detto e se c’è un’altra cosa che in tanti anni non ho mai fatto è il riciclare un regalo fatto a qualche ex e poi restituitomi perché non gradito e anche questo è purtroppo schema irreversibile.

Domani ho un’altra regia da fare, che significa qualche centinaio di ordini al secondo da dare a gente che deve attendere il mio tre due uno via pure per staccare le mani dalla consolle e bere un bicchiere d’acqua.
Trentasei anni passati a pensare dieci volte prima di bere anche solo un bicchier d'acqua non potevano che trasformarmi in uno la cui abilità più grande è la capacità di avere in testa contemporaneamente dieci teste non sue necessarie per fare una azione sola e conseguenza sapere esattamente quando avviare contemporaneamente venti mani non sue.
Questo mi rende così bravo nel mio lavoro, l'aver saputo rendere abilità la cosa peggiore che mi sia stata imposta.
Per questo non ho bisogno di garanzie scritte, ho capitalizzato una patologia psichiatrica in una società composta da malati di mente pieni di soldi; non mi mancherà mai il lavoro e anzi, più vaffanculo tiro e più lavoro avrò perché a 'sti malati di mente piace sapere di pagare uno squilibrato quanto loro, da loro l'impressione di poter controllare la loro stessa patologia per trasfer.

Ma se in tutto questo tornassi a casa portandomi in valigia il timore di scoprire che durante uno dei mie continui viaggi mi hai abbattuto una parete senza il mio permesso, non sarebbe un tornare a casa ma solo l’ennesima regia e invece io a casa ci voglio tornare per riposarmi, ché ne ho davvero bisogno.

Quindi se abbattere una parete quando sono via per lavoro ti fa sentire meglio, abbatti una parete.
(tre)
Il limite
(due)
è che non
(uno)
ti scopi il muratore
(ridere!)

Se per la media della gente questo è amore, allora facciamo che è amore.

‘notte da lontano.


12 gennaio 2009

Grazie prego scusi tornerò

Insieme alle altre bottiglie di vino, una del 2002 sta lì in attesa di una apertura che temo non arriverà mai.

Quando mi trasferii nella mia prima casa avevo tipo vent’anni, nella mia compagnia una specie di eroe e una casa che per logica ottimizzazione divenne il punto di ritrovo di tutti gli altri che al tempo non avevano da offrire un proprio spazio al gruppo dove fare tutto ciò che fino al mio trasferimento era esclusiva dei pochi week end di ‘casa libera’ che a turno i genitori di ognuno lasciavano.
Divenne norma l’arrivo di ogni cosa fosse possibile bere ogni volta che qualcuno oltrepassava la soglia di casa, fino a quando il tempo non scremò e cominciò a far arrivare anche cose gradevoli.
La sempre più frequente scelta del momento della cena come ritrovo, fece sì che il vino venisse a poco a poco eletto come unico omaggio, facendomi così arrivare in casa bottiglie di vino sempre più particolari, quella fatta da mio nonno, quella l’ho rubata dalla cantina, questa l’ho pagata un sacco, questa oh questa solo col brasato.
In cambio io imposi, non senza difficoltà, una regola: ogni bottiglia di vino andava necessariamente aperta e bevuta solo in presenza di chi l’aveva portata.
Non senza difficoltà nel senso che non sempre si finiva nella serata ciò che nella serata era stato portato e questo portava spesso ad avere serate nelle quali qualcuno voleva aprire bottiglie di vino portate precedentemente, magari da persone che nella serata in questione non c’erano.
Un giorno ricordo persino una litigata con gli amici i quali, a vino esaurito, mi videro far scudo tra loro e una bottiglia, l’unica rimasta, che stava lì in attesa di una serata nella quale ci fosse anche l’amico che me la regalò.

Si pensa spesso, sbagliando, che l’educazione sia una forzatura di forma.
Questo malinteso porta spesso le persone a scambiare o, peggio, a mettere in parallelo l’educazione con la mancanza di confidenza.
Conseguente, si pensa che con il tempo e la crescita della confidenza, sia naturale e quasi dovuta una riduzione delle forme di educazione presenti nella relazione, ritenute una formalità forzata e per questo la loro eliminazione un traguardo raggiungibile grazie al ‘favore’ di chi si relaziona.
Concedere a qualcuno la possibilità di non vivere la relazione di amicizia anche sulla base di regole di educazione, appare sempre più come uno degli aspetti del raggiungimento di quella amicizia e chi questa possibilità la concede o quantomeno la offre (“Non serve che mi ringrazi”) sovente si stupisce o comunque non è in grado di capire il motivo per il quale questa offerta cade quasi sempre nel vuoto, per quanto gradita.
Quando questi due concetti di educazione si incontrano, un punto comune di comprensione è impossibile se non là dove la comprensione viene sostituita dalla tolleranza, altro aspetto fondamentale del raggiungimento dell’amicizia e della confidenza.

L’educazione (quella base intendo, quella fatta di rispetto per il gesto tradotto in rispetto per chi il gesto lo compie, di gratitudine per il non dovuto, di riconoscimento di spazi altrui pari al proprio, di rinnovamento quotidiano dell’analisi del ricevuto e del dato, di alternanza tra diritti e doveri, ma soprattutto di rispetto per la eguale condizione di partenza tra noi stessi e gli altri) è al contrario tutt’altro che una questione di forma.
Lo è solo per coloro i quali entrano nel mondo dell’educazione in una fase ormai consolidata della propria crescita, quando anche imparare una nuova lingua diventa pratica faticosissima, quando cercare di appassionarsi alla lettura diventa opera titanica, quando tutto ciò che non ha fatto parte della fase sviluppo e costruzione della persona e della propria storia, faticherà il triplo per entrare a farne parte, sovente senza possibilità di successo.

Al contrario, per una persona che l’educazione l’ha vista imposta fin dal suo primo giorno, ad essere faticosa in fasi successive, anche decenni dopo, sarà la sua eliminazione o anche solo una relazione con le persone che non si basi principalmente e comunque su quelle due regole fondamentali.
Quando si cresce appoggiati su uno schema educativo che tiene conto principalmente delle persone intorno (questa è educazione base) in maniera positiva e non riduttiva (delle proprie libertà), si potrà vivere la propria autonomia solo se legata a quelle regole.
E, qui sta il malinteso di chi questa cosa non la capisce, la cosa avverrà con naturalezza fisiologica, non con forzatura formale.
Chi è educato e lo è per formazione in fase di sviluppo, lo è istintivamente, non analizza il contesto di volta in volta per valutare l’opportunità, lo è come condizione di partenza indipendentemente dal contesto del caso.
Per capire come avvenga questo processo, si può pensare al Trattamento Ludovico di Arancia Meccanica; Il processo è lo stesso ed è altrettanto fisico.
Quando l’educazione all’altro è resa istintiva dal suo averne iniziato l’insegnamento fin da piccoli, farne forma di relazione da adulti è semplice quanto lo è il camminare, il respirare, il parlare.
Al contrario, faticosa diventa qualsiasi altra forma di relazione.
Ringraziare qualcuno per qualcosa per la quale si è grati non è faticoso, è naturale.
È la materializzazione, la somatizzazione di una condizione interna, avviene senza intervento della volontà.
La volontà al contrario serve per intervenire in questo processo naturale, per bloccarlo per qualche motivo, foss’anche solo la richiesta di chi si relaziona con l’educato.
Per bloccare questo processo fisico serve la volontà e per attivare la volontà serve sempre la stessa unica singola cosa: un perché.
Alzarsi per salutare qualcuno non è faticoso perché è una forma di rispetto e il corpo si alza da solo perché lo fa istintivamente.
Faticoso è restare seduti perché la volontà in quel momento interviene a bloccare un processo istintivo ormai attivato e per farlo deve avere un perché.
Il problema è che un perché non c’è e per questo per restare seduti serve uno sforzo senza una motivazione.
E non c’è un perché, perché ci fosse, significherebbe che della persona che si sta salutando non si ha rispetto, ma in assenza di quello non scatta nemmeno l’istinto ad alzarsi e quindi ad essere assente è la condizione iniziale alla nascita dell’istinto ad alzarsi.
Il Trattamento Ludovico porta le persone che hanno ricevuto la giusta (per me) forma di educazione a sentirsi affaticate se NON mettono in pratica certe forme di relazione, non se le mettono in atto.

A casa mia si iniziava a mangiare solo quando tutti erano seduti a tavola.
Pare regola senza motivazioni sostanziali, mentre al contrario ha dentro un codice di rispetto fondamentale.
Prima di tutto comunica che non c’è condizione di partenza diversa tra i commensali; poi, di più, è una forma di rispetto per chi la cena l’ha preparata e in genere anche servita.
Iniziare a mangiare quando il cibo è nel piatto, porta la persona che l’ha ricevuto per primo a mangiare da solo per un breve lasso di tempo e a ricevere quindi un privilegio che non ha un perché, ma soprattutto porta chi quel cibo lo sta servendo a essere la persona che mangerà per ultima (a meno di non interrompere la distribuzione), per logico scorrere del tempo senza la compagnia del primo che l’ha ricevuto, per lo stesso scorrere del tempo anche a una temperatura diversa dal primo, in una condizione finale di assenza di ogni privilegio ma rivestendo nello stesso momento il ruolo di chi per gratitudine dovrebbe essere la persona che ne riceve di più.
C’è un perché possibile a questa inversione di privilegi?
No.
Iniziare a mangiare solo quando tutti hanno il proprio piatto pieno e alzarsi da tavola solo quando tutti hanno il proprio piatto vuoto, al contrario, risolve questa invertita (e di conseguenza ingiusta) distribuzione dei privilegi.
Si pensa che una persona educata faccia questi complessi e quindi faticosi ragionamenti ogni volta che si siede a tavola e invece non è così, il Trattamento Ludovico si occupa di far sì che la sequenza dei ragionamenti avvenga in una frazione di secondo e che la sua materializzazione avvenga in maniera altrettanto veloce.
Chi materializza questo non se ne accorge nemmeno, così come nessuno di noi quando cammina pensa che se alterna il piede destro al sinistro resta in equilibrio e lo pensa a ritmo di due volte al secondo.
Al contrario, è l’iniziare prima che chi ha servito la cena sia seduto(a) a tavola che è pratica faticosa, perché l’educato che verrà in qualche modo costretto a fare questo sentirà dentro una forzatura alla sua natura e per farlo dovrà cercare necessariamente un perché, un perché che non troverà mai e che dovrà sostituire con una imposizione immotivata che sarà oltretutto accompagnata da quella sgradevole sensazione (ecco Ludovico) di aver mancato di rispetto a chi, offrendoci il suo lavoro, il suo cibo, il suo tempo, il rispetto lo meritava tutto e anche di più.

Essere educati è tutt’altro che una forma di relazione verso l’esterno sulla quale si può mediare o alla quale si vogliono (o si possono) trovare forme ridotte.
È prima di tutto l’unica possibile forma di mantenimento della condizione di benessere interiore.
Solo in secondo momento, per trasformazione indiretta, si traduce anche in una forma di relazione dei cui risultati gode chi si relaziona con chi è educato.

Se dite a un amico educato che può anche abbandonare i suoi vincoli perché è tra amici, non gli state dicendo che può sentirsi a suo agio.
Prima di tutto l’errore che commetterete è quello di chiamare vincoli ciò che per lui vincoli non sono e qui farete il primo errore di relazione, cercando di sostituire al suo il vostro codice di vita.
Ma soprattutto gli chiederete di spendere il suo tempo a cercare dei perché che non troverà mai, che saranno sempre dei perché vostri ma non suoi e fare questo sarà faticoso, lungo, soprattutto immotivato perché per lui sarete amici, fratelli, familiari, compagne, e se non dico grazie a ‘sta gente qui, a chi lo dico, al portinaio?

Pensavo a ‘ste cose qui l’altro giorno, quando ho spostato la bottiglia di vino che non seppe essere più veloce della guerra tra me e chi me la regalò.
Ridendo mi sono reso conto che senza volerlo, senza fatica, quella bottiglia s’è fatta il trasloco con me, è entrata nella nuova cucina, una cucina nella quale la persona che me la regalò è destinata a non entrare mai perché io da persona educata ho fatto male, molto male a tanta gente tra cui lui ma quel vincolo di bere solo con chi mi regala il vino è istintivo, viene così, senza intervento di volontà e senza intervento di volontà non c’è fatica e senza fatica quella bottiglia me la sono scarrozzata da una casa all’altra pur sapendo che è solo questione di forma e senza fatica e ridendo mi sono reso conto che mi seguirà anche nella prossima casa, nella quale chissà, forse un giorno Miki verrà a sentirmi raccontare come un giorno si arrivi così, a capire che a volte si sbaglia più verso noi stessi che verso gli altri e che il male fatto agli altri è solo una secondaria faccenducola marginale che va al di là della volontà e che per questo a volte per fortuna con un bicchiere di vino tra adulti forse è possibile anche rispedire in quel passato nel quale di errori se n’è fatti tutti tanti e non sempre per colpa, anzi, si era solo molto leggeri, giovani, immortali, e invece.

Il vino è sempre qua, se mi leggi, dal 2002 bello tappato.
Non ti ho difeso da lei, ma ho difeso il tuo vino dai miei stessi amici.
Lei è stata spedita in quell’iperspazio che meritava.
Quel vino e quegli amici stanno invecchiando accanto a me e qui un perché c’è.
Se vuoi unirti, ti concedo anche quel pugno che non mi hai dato e che pure meritavo.
C’è anche la possibilità che ti arrivi un grazie, in risposta.


23 dicembre 2008

ScrOOdge

Quando la sera vado a letto partono ore e ore di soffitto guardato durante le quali metto in scena le mie arringhe, provo i discorsi, le espressioni del viso, testo le situazioni e come io risponderei.
Dormo poco non perché soffra d’insonnia, ma perché i discorsi che mi vengono la notte sono talmente perfetti che è la mia stessa mente a chiedermi di non interromperli addormentandomi.
Mi riescono bene, sento che in un’aula sarebbero arringhe recitabili come minimo da un Al Pacino, hanno quell’efficacia lì.
Spesso alla fine mi chiedo perché non li abbia trascritti, perché non abbia registrato il tutto, sento che se il giorno dopo li leggessi mi mostrerebbero soluzioni che con la luce del giorno a volte faccio fatica a vedere.
L’altra notte ho speso qualcosa come tre ore a filosofeggiare sul compromesso e sul prezzo del.
Il bello di queste notti è che il divertimento sta nel fluire dei ragionamenti uno inanellato al precedente, non nel conoscere la soluzione; io parto col tema del giorno e poi vado avanti a colpi di ragionamenti successivi, senza sapere dove mi porteranno, semplicemente perché mi diverte farli, scoprendo alla fine che mentre io mi divertivo a recitare Al Pacino, tre ore dopo ciò a cui giungo è la risposta che attendevo.
Quella storia del compromesso, per esempio.
Mai intorno a un concetto così apparentemente noto avevo prodotto un così alto numero di ragionamenti a me ignoti.
Quest’anno sarà uno dei natali più difficili che a oggi la mia famiglia abbia attraversato, forse l’ultimo di mio fratello, certamente il mio primo tra mura diverse da quelle tra le quali ho passato tutti i trentacinque precedenti.
Al Pacino mi ha detto che nella vita di chiunque esistono momenti in cui bisogna essere disposti a puntare una pistola alla tempia di chi si ama, che la vita si svolge su due piani separati, uno quotidiano il cui ciclo si riapre ogni ventiquattro ore e uno che si apre alla nascita e si chiude alla morte.
Il natale si rinnova ogni anno, la vita è una.
Mi ha detto che ciò che accade nel ciclo delle ventiquattro ore non necessariamente influisce sul piano sovrastante, ché possono accadere cose, in quel ciclo, che vengono risolte nelle ventiquattro ore successive senza modificazione alcuna delle cose che nel frattempo e spesso nostro malgrado accadono intanto nel piano sovrastante che si è aperto molti anni prima.
Viceversa, ciò che avviene nel piano sovrastante può influire in ognuno dei cicli che quotidianamente si ripetono e se ci si può per qualche tempo non preoccupare delle cose che si aprono e si chiudono ogni ventiquattro ore, se si vuole dare una direzione al piano sovrastante bisogna fare, in ogni modulo del ciclo ventiquattro, scelte i cui risultati forse saranno visibili decine e a volte centinaia di cicli dopo e senza la certezza che i risultati siano quelli che si cercano.
Io sono protagonista di un compromesso accettato trentacinque anni fa, mi ha detto Al Pacino con una faccia assolutamente convincente.
Protagonista ma non responsabile, ne sono il prezzo.
E il prezzo di un compromesso accettato nel piano sovrastante non potrà che esser visto sempre, con moto ripetuto e rinnovato ogni ventiquattro ore, come qualcosa da mantenere schiacciato, chiuso, soprattutto quando bisognoso d’aiuto.
Al Pacino mi ha detto che non otterrò mai ciò per cui sto lottando finché mi concentrerò sui cicli delle ventiquattro ore, che se voglio vincere, devo dimostrare il compromesso che da trentacinque anni gli fa da rotta e chiudere quello.
Allora io questo natale lo vedo come uno dei più duri e difficili che abbia mai passato, ma nello stesso momento come uno dei più sinceri, consapevoli e viscerali che abbia mai attraversato.
Durante le notti delle mie difficili solitarie e sofferenti arringhe ho accanto una donna che dorme e sogna e certe volte scoppia a ridere.
Per natale vi auguro questo.
Di prendere in mano non quella parte della vostra vita che si svolge nei cicli delle ventiquattro ore, non è un hobby, non una momentanea compagnia che pare sposarsi perfettamente col ciclo del momento, non la soddisfazione di aver portato a casa anche oggi qualcosa che appare come voluto cercato e costruito, non lo è.
Vi auguro di sentire dentro di aver lasciato i cicli al loro destino, di aver lasciato che a decidere la loro direzione non sia più la volontà e la capacità di stabilirla ma quell’inconsapevole direzione che non si sa da che parte arriverà quando si concluderà ma che se mentre si svolge sotto il vostro respiro e sotto le vostre arringhe viene bruscamente interrotta da una donna che mentre sogna ride, ride di gusto, forse anche di voi, beh accidenti, voi state vivendo nel giusto e qualsiasi conseguenza a questo, anche drammatica, non sarà nulla in confronto al compromesso che avreste, e quasi certamente avete accettato quando il vostro impegno era tutto speso ad arrivare felici alla fine di ogni singolo giorno.
Anche, ma non solo, per il fatto che per quel compromesso quasi sempre pagherà qualcuno che non siete voi e questo renderà la vostra vita, anche se composta da trecentosessantacinque vite da ventiquattrore moltiplicate per qualche decina una più bella dell’altra, una vita sbagliata nel piano sovrastante, quello dove le persone che vi stanno accanto sono felici di starvi accanto anche se soffrite e magari non siete proprio quello che nelle ventiquattro ore del momento avrebbero voluto accanto ma che non per questo non le fa sognare cose delle quali certamente, quando Al Pacino avrà finito la sua arringa e il giudice gli avrà dato ragione ma magari anche no, riderete insieme.
Il natale più difficile mai passato fino a oggi, è il primo natale nel quale la mia vita ha un senso nel piano lungo.
Finisse domani, avrà comunque avuto un senso che fino a oggi non aveva mai avuto.
Una donna che mentre voi soffrite sogna ridendo, non può che essere la più bella testimonianza del vostro essere nel giusto.
Sentirlo non lenisce la sofferenza che accade nei cicli quotidiani, ma fa bene in quell’unico, lungo, sovrastante.
Un po’ Dickens come sapore, ma se qualcosa di bello sento di voler augurare, qualcosa di bello a oggi mi sembra questo.

Buon natale.


(spoiler)

4 novembre 2008

Kamate kamate uh

Oggi ho guadagnato un centimetro per il quale ho cominciato a correre 6 anni fa.

Ieri credevo di no.
Stanotte con il mio centimetro in tasca so che posso farcela.
Mi mancano solo altri ottomila chilometri.



17 luglio 2008

Per me bottiglie di rhum grazie, non fate i pidocchiosi del cazzo con acqua mezza bevuta

Oggi parlano di reversbilità delle decisioni.

Ok, ci sta.
Provo...
...
Fatto.
Non si è 'reversito'.

Allora lo ricordo, così che se capitasse domani sia anche chiaro che nei tre anni passati no, grazie, non ho cambiato idea.

Ribadisco quanto detto qualche anno fa:

Oggi dico una cosa che, anche se sembra triste, è una cosa che una sola volta nella vita, in stato di coscienza e lucidità tutti dovrebbero fare.
Oggi dirò cosa fare se.

Staccate la spina.

E se non ve lo consentiranno inciampate nel filo.
E se non ve lo consentiranno fate lo sgambetto al medico facendolo cadere sul filo.
E se vi controlleranno a vista appoggiatevi al letto come per farmi una carezza e premete col gomito il tubo della flebo il tempo necessario, una frazione di secondo, per formare nel flusso del liquido una piccolissima ma definitiva bolla d’aria.
E fatelo per me.
E fatelo sapendo che è quello che desidero.
E se in quel momento cortei di persone si metteranno a confondervi le idee inscenando veglie di preghiera per me, fottetevene.
E se decine di persone si incerotteranno la bocca per convincervi che solo Dio può decidere di togliermi la vita, dite loro di impegnare il loro tempo nei loro affari, nelle loro menate quotidiane, nell’educazione dei loro figli, nell’estinzione del loro mutuo, nel nascondere i loro scheletri.
Qualsiasi cosa basta che non si facciano i cazzi miei.

Non date loro la possibilità di farmi impersonare l’alibi per i loro errori.
Non permettete loro di interessarsi a me, perché quella che per loro è una battaglia ideologica dello stesso valore della difesa della pelliccia delle foche, per me significherà sofferenza.
Non date loro la possibilità di firmare col mio nome il loro biglietto per il paradiso.
E se fior di teologi impegneranno i loro preziosi giorni in dibattiti televisivi il cui unico scopo è infilare il loro credo anche nella mia vita, nonostante io l’abbia spesa per tenerli al di fuori, impediteglielo con tutte le vostre forze.
Dite loro che non mi interessa il loro parere.
Dite loro che non ho chiesto il loro aiuto.

Spegnetemi.
Non lasciate che la mia vita diventi merce di scambio.
Non condannatemi a guardare il soffitto di una stanza per il resto della mia vita.
E se per caso il dilemma riguardasse il fatto che l’eventuale malattia mi avrà tolto l’uso dei muscoli ma non quello della coscienza, se per caso il mio essere malato non riguarderà la lucidità mentale, allora sappiate che per me la sofferenza sarà doppia.
E se loro diranno che ancora sorrido, se diranno che non muovo più un muscolo ma il cervello ancora funziona, ancora di più combattete per spegnermi.
Perché per me la condanna sarà ancora più dura.
Perché vorrà dire che avrò la capacità di rendermi conto che sto vivendo quella che non sarà una vita.
E io quella vita non la voglio vivere.

E non titubate di fronte ai miei occhi.
Se vi troverete a dover interpretare il mio battito di palpebre, se dovrete scegliere se chiudendole avrò detto “Si” oppure “No” oppure “grazie”, sappiate che quelle palpebre staranno dicendo solo “basta”.
E se le chiuderò un’altra volta vi starò dicendo anche “per favore” oltre che “basta”.

E non fatevi scrupoli.
Sarà proprio il mio essere cosciente, il motivo per il quale dovrete scegliere di spegnermi.
Non obbligatemi a rendermi conto per uno, dieci, venti anni, che il mio mondo sarà circoscritto nell’area di un lenzuolo.
Non condannatemi a tanto.
Quella sarebbe la vera sofferenza.

E se per caso non dovessi nemmeno essere cosciente, allora ancora di più, spegnetemi.
Perché amo chi mi starebbe accanto.
E alle persone che amo io non vorrei mai regalare anni di sofferenza.
E non mi interessa avere qualcuno che mi fa fare ginnastica per gambe che comunque non userò mai.
E non voglio che la fine della mia vita sia la fine anche della vita delle persone che amo.
Vivete.
Spegnetemi e vivete al posto mio.
Non voglio che il salotto della casa dove sono cresciuto si trasformi in una stanza d’ospedale per il resto della mia vita.
Metteteci una mia foto, al massimo, e ricordatemi quando correvo, quando pattinavo, quando sorridevo, quando amavo.

E se per caso qualche pezzo di me dovesse risultare ancora utilizzabile, non esitate a regalarlo.
E quello che avanza riducetelo in polvere.
Perché io non sono un’anima che si porta in giro un corpo.
Io sono un corpo.

Io sono le mie mani, io sono il mio cuore, io sono i miei occhi.
E le mie mani sono cresciute toccando, penetrando, graffiando, non possono vivere altrimenti.
E il mio cuore è cresciuto emozionandosi, scoppiando, rallentando, sanguinando, non potrebbe vivere altrimenti.
E i miei occhi hanno visto il mondo, hanno pianto per amore, si sono gonfiati per l’emozione, hanno cercato la bellezza in ogni stronzissimo battito di ciglia, non vogliono altro.
E se io non sarò più in grado di portarli in giro per il mondo, che sia qualcun altro a farlo.
Non togliete anche a loro la possibilità di vivere.
Non togliete al mio cuore la possibilità di amare, non impedite ai miei polmoni di farsi ancora canne, lasciate al mio fegato la possibilità di filtrare ancora un buon rhum cubano, una grappa morbida della Valtellina.
E se ve lo consentiranno, anche i miei capelli regalate, perché siano ancora una volta accarezzati.
La mia vita serve solo a rendere onore a tutto questo.
Ha senso solo se potrò avere tutto questo.

E a tutti quelli che diranno che solo dio dà la vita e solo dio può toglierla, tu, mamma, fatti guerriero per me.
Perché la vita me l’hai data tu, non dio.
E me l’hai data, non me l’hai prestata.
Ora è mia.
E io voglio farne ciò che ritengo giusto per me, non per la chiesa, non per la coscienza di cento, mille, centomila stronzi che domani, finita l’ennesima battaglia alla moda, a differenza di me potranno andare al mare a nuotare, potranno tenere in braccio il loro figlio, potranno scopare, potranno fare tutto ciò che secondo loro io dovrò solo immaginare da quel giorno in poi immobilizzato in un letto.
Nemmeno guardare.
Solo pensare.
Immaginare.
Ricordare.
Dio che condanna sarebbe.

Guardami quel giorno, se mai dovesse capitare.
Pensa a me, a tutto quello che hai letto di me, a tutte le emozioni grazie alle quali ho vissuto, alle mie donne, ai miei amici, al cibo, al buon vino, alle giornate al mare, alla tavola della nonna, ai natali in famiglia, a quando ballavo da piccolo, a quando ho pianto da grande, alle ginocchia sbucciate, ai treni presi, ai regali scartati, ai fiori comprati, alle battaglie combattute, alle paure sconfitte, alla chitarra suonata, ai bei voti presi a scuola, ai vestiti che mi andavano grandi.

Guardami quel giorno.
E ricordati che per me, vivere, vuol dire tutto questo.
Vuol dire pelle d’oca, vuol dire sapori, vuol dire profumi, vuol dire emozioni.
E se ti diranno che l’espressione che vedi sul mio viso è un sorriso, e quindi coscienza, rispondi loro che no.
Non è coscienza.
Quel sorriso, quel giorno, significherà soltanto ”Grazie”.

Per quello che è stato.
E perché mi darai la possibilità di non soffrire più.
Quel sorriso sarà soltanto la certezza che tu, almeno tu, non mi costringerai a soffrire ulteriormente.
E per quel sollievo io sorriderò.
Perché saprò che almeno su di te potrò contare.
E perché saprò che la tua vicinanza significherà che tutto quell’orrenda vita starà finalmente per finire.
Non mi abbandonare, quel giorno.
Fai quello per cui mi hai creato.
Fammi felice.
Dammi un bacio sulla fronte e spegnimi come mi hai acceso.

Con amore.
Non chiedo altro.

Questo è un testamento biologico.
Scritto e salvato su un server attraverso password che solo io conosco.
E secondo le nuove leggi che regolano internet, se non sbaglio, ha valore legale.