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13 agosto 2017

Uomonologo

Mario in quegli anni era un numero di telefono e poco più, numero d'emergenza a disposizione di chiunque si trovasse nel raggio dell'onda d'urto generata dal quotidiano esplodere dell'inferno di Mario Bros, squadra di recupero pronta, una notte il pavimento di una sala, una notte di un bagno, una notte un letto, l'uomo rotto non si premura di scegliere posti nei quali cadere, qualsiasi teatro con le medesime quinte è lo stesso teatro, replica infinta, per platea la pietà, qualche volta l'amicizia, li raccolgo io i cocci, potete continuare, grazie e alla prossima, sipario.
La parte negli anni imparata a memoria prende possesso del tempo e lo rende infinito, dissolto il confine tra ieri e oggi la parola si fa primo attore richiamato da invisibili leve che nessun tempo potrà disattivare, va in scena senza invito alla sola vista di un pubblico ignaro del ruolo che sarà chiamato a svolgere, numero d'emergenza pronto all'onda d'urto non più di Mario Bros, squadra di recupero per Mario oggi, un letto, un risveglio, la luce di una nuova finestra al mattino, una bussola o chi ne fa le veci, la vergogna di scoprirsi nudo e ferito, il costume da supereroe abbandonato a terra, l'uomo che la notte volava è precipitato, visibilmente precipitato, maldestramente precipitato, qualcuno ne ha raccolto i cocci e deve aver dato loro anche un bacio o almeno l'essere ancora vivo questo lascia supporre, la memoria come sempre non sa dire, la vergogna come sempre preferisce non decidere.
Quando Mario dice che esistono luoghi in cui si sente libero di essere se stesso non parla di uno spettacolo bello da vedere, per quello lo dice piangendo, l'ultima cosa dignitosa che ricorda prima che una doccia cercasse di fare ciò che gli anni non riescono.
Mario è solo perché sa che il copione questo prevede perché lo spettacolo non muti in tragedia, ha'dasta'sìt, sobrio nei limiti, presente se necessario, assente se d'intralcio, bello, onesto, se serve emigra australia.


20 ottobre 2016

Asse-dio

"Traditore è colui che cambia agli occhi di coloro che non possono cambiare e non cambierebbero mai e odiano cambiare e non lo concepiscono, a parte il fatto che vogliono continuamente cambiare te: così la penso io. In altre parole agli occhi del fanatico il traditore è chiunque cambi. Triste alternativa quella fra il diventare un fanatico o un traditore. In un certo senso, non essere fanatici significa essere un traditore agli occhi dei fanatici. […]
E forse è giunto il tempo che ogni accademia, ogni università tenga quanto meno un paio di corsi sul fanatismo comparato, visto che esso dilaga ovunque. Non mi riferisco alle ovvie manifestazioni di fondamentalismo e oltranzismo. Non mi riferisco soltanto a questi fenomeni eclatanti, quelli che vediamo da noi attraverso la televisione, laddove folle isteriche agitano i pugni contro le telecamere e urlano slogan in lingue a noi ignote. No, perché il fanatismo è praticamente dappertutto, e nelle sue forme più silenziose e civili è presente tutto intorno a noi, e fors'anche dentro di noi. […] Insomma, non voglio certo dire che chiunque levi la voce contro qualunque cosa sia un fanatico. Non voglio lasciare intendere che ogni opinione convinta sia una forma di fanatismo, certo che no. Però penso che il seme del fanatismo si annidi immancabilmente nella rettitudine inflessibile, piaga di molti secoli. […] E tuttavia i fanatici hanno indistintamente una particolare predisposizione, un senso tutto loro del kitsch. Il più delle volte il fanatico riesce a contare solo fino a uno, perché due è un'entità troppo grande per lui. Al tempo stesso i fanatici sono quasi sempre degli incorreggibili romantici, preferiscono il sentimento al pensiero, e sono affascinati dalla loro stessa morte. Disprezzano questo mondo e lo barattano volentieri in cambio del "cielo". Il loro cielo, a ogni buon conto, è normalmente concepito in maniera non dissimile dal lieto fine cli un brutto film.
Conformismo e uniformità, il bisogno di appartenere e il desiderio che tutti gli altri appartengano sono tra le forme più diffuse, benché non pericolose, di fanatismo. […] In verità, dopo aver detto che il conformismo e l'uniformità sono forme lievi ma diffuse di fanatismo, debbo aggiungere che spessissimo il culto della personalità, l'idealizzazione di capi politici e religiosi, la venerazione di individui particolarmente brillanti, lo sono non di meno. E il xx secolo è stato generoso per quanto riguarda entrambe le forme. […]
Ritengo che l'essenza del fanatismo stia nel desiderio di costringere gli altri a cambiare. Quell'inclinazione comune a rendere migliore il tuo vicino, educare il tuo coniuge, programmare tuo figlio, raddrizzare tuo fratello, piuttosto che lasciarli vivere. Il fanatico è la creatura più disinteressata che ci sia. Il fanatico è un grande altruista. Il fanatico è più interessato a te che a se stesso, di solito. Vuole salvarti l'anima, vuole redimerti, vuole affrancarti dal peccato, dall'errore, dal fumo, dalla tua fede o dalla tua incredulità, vuole migliorare le tue abitudini alimentari, vuole impedirti di bere odi votare nel modo sbagliato. Il fanatico si preoccupa assai di te, e o ti si butta al collo perché ti vuol bene sul serio o punta alla gola, nell'eventualità che ti dimostri irriducibile. In entrambi i casi, da un punto di vista topografico il gesto è più o meno lo stesso. In un modo o nell'altro, il fanatico è più interessato a voi che a se stesso, per la semplice ragione che il fanatico ha un io molto piccolo, quando non ce l'ha affatto."

Contro il fanatismo - Amos Oz



3 luglio 2016

Fegatelli

Stanco, ma tanto, da questo continuo incontro con gli anti, anti tutto, anti itaglioti, anti governo, anti banche, anti quelli che lavorano, anti quelli che hanno letto due libri, anti anti, escono dalle fottute pareti e nemmeno augurarsi che come ogni setta che si rispetti decidano a un certo punto di riunirsi su un'isola per il solenne suicidio di massa, affronto gli europei con un per me nuovo spirito patriottico che mi porta a godere della visione collettiva delle partite, al pub come da programma di quelli con l'autoradio sempre nella mano destra, quando ce la portavamo appresso.
Della partita effettivamente me ne frega meno di zero, ma quell'aria di collettività mi attrae e mi spinge, l'amico Andrea partita e birra mi sembra una piacevole combinazione e occasione da sfruttare.
Esco a fumare, accanto a me la mia missione di Paperinik del giorno è somalo e per motivi che non sto a indagare indossa il tricolore come fosse la sua bandiera.
Da una tavolata di una ventina di imbecilli iper eccitati e naturalmente in trance da dio patria e famiglia lo deridono e, con palesi motivazioni razziste, spezzettano il pane che hanno sul tavolo e glielo tirano facendo finta di nulla dopo ogni lancio.
E uno, e due, e tre, mi sposto e mi metto accanto a lui, li guardo, mi guardano, gli dico "Basta", mi dice "Basta cosa?" gli dico "Ho detto basta così", con il mio fisico da terrore della notte di quelli che gli sarebbe bastato tirare dell'altro pane per abbattere sia me che il somalo ottengo in risposta un "Boh" la faccia di chi finge di non capire e la finiscono, mi chiedo come mai mi riesca sempre, credo dipenda dal fatto che quando le persone vedono i miei 12 chili complessivi assumere posa di chi intima e minaccia, penseranno che o sono completamente folle e non è il caso di mettersi con uno completamente folle oppure ho in tasca una beretta, perché altrimenti non si spiega come non mi abbiano ancora riempito di botte.
Il somalo non si accorge di nulla sia perché è completamente ubriaco sia perché è troppo preso dalla partita, si accorge però che gli sto accanto e attacca bottone, in somalo, un dialogo inesistente ma utile per me a simulare che fossimo effettivamente amici così se devono tirare di nuovo il pane adesso lo devono tirare a due, anzi tre perché nel frattempo entro dentro da Andrea e gli dico che io continuo a vedere la partita da fuori e che dato che c'è la possibilità che mi metta a litigare con venti imbecilli è il caso che dopo un po' esca anche lui a darmi una mano, che poi grosso com'è significa che lui li mena tutti e venti con una mano sola e io faccio il tifo.
Il mio amico somalo intanto ha deciso che io parlo somalo e sputazzandomi da un centimetro dalla faccia mi racconta una serie di cose che non capirei manco se non fosse ubriaco, ma capisco che ce l'ha un po' con tutti e mi dice "polizia" e mi dice "documenti" e che bella idea ho avuto a ripetergli io "polizia" e "documenti" pensando capisse che era come dire "In che senso?" e invece quello scatta dritto tira fuori il portafoglio e mi consegna in documenti "Cazzo fai? Metti via quella roba!" per levarmi un po' dei duecento occhi che a quel punto avevo addosso, l'unico sulla terra capace di scambiarmi per un agente e ci sta, io in Somalia sarei muscoloso e bianco, quindi un agente.
Per risolvere il momento anche a favore di una platea ormai interessata a capire se me lo stessi portando via, chiamo il padrone del locale e chiedo se posso pagargli da bere, permesso accordato gli si porti una birra, lui è contento, io soo contento, Andrea a chiedersi chi glie l'ha fatta fare a uscire con me, io e il somalo ci abbracciamo fraternamente per guardare il resto della partita da amicissimi, sento qualcosa sul fianco, la bandiera copre la mano, la mano è nella mia tasca e mi sta sfilando i soldi.
Togli quella cazzo di mano da lì e vattene affanculo, somalo, ti lascio agli altri tuoi amici.
La rabbia mi invade come nemmeno quando la poveretta mi ha tradito con chiunque non mi assomigliasse, approfitto dell'impegno di Andrea per accettare di andarcene imemdiatamente, gli chiedo di portarmi e lasciarmi al parco perché ho bisogno d'aria, di tempo, di alberi, c'è un concerto tutta la notte ed è la situazione migliore per riprendere lo sguardo al cielo.

Dance All le chiamano a Torino, after hours all'aperto giusto un metro prima dell'illegale, ci sono bancarelle di birra e di libri anti, anti fascisti, anti sistema, anti stato, anti tutto, mi fermo a una bancarella sulla quale un attivista di 70 anni vende libri sulle carceri, lettere dalle carceri, opuscoli autoprodotti con informazioni sulle loro attività nelle carceri, ci mettiamo a chiacchierare di quel poco che so io e quel molto che sa lui, dopo una mezz'ora di chiacchiere gli chiedo se ci sia stato, mi guarda e mi sorride in quel modo in cui sorride chi ti dice che solo chi c'è stato può avere a cuore quelli che ancora ci stanno, gli compro tutto quello che mi offre e non fa un prezzo, è tutto un Fai tu.
Lo saluto e passo alla bancarella accanto, la gestisce un ragazzetto che non avrà 25 anni e la faccia di chi ne ha passati 24 a kombattere il sistema, vedo un libro autoprodotto a tema ISIS, leggo il retro di copertina dove mi si spiega che l'ISIS in realtà altro non è che un popolo che cerca la legittima via per rispondere all'imperialismo capitalista, guardo il ragazzetto e gli chiedo se davvero vende una apologia del terrorismo islamico, mi guarda come gli avessi parlato in somalo e mi dice "Ma io che ne so" gli dico "Beh dovresti saperlo, visto che lo vendi, leggi qui e poi te lo compro" e glielo passo con intuibile simpatia, lo guarda il tempo di leggere quattro parole spazi compresi e mi dice che secondo lui no, prendo il vero libro che avevo intenzione di comprare appena visto sul banco e cioè "Kobane dentro", quelle donne soldato sono magnetiche, mi fa il totale dei due e gli spiego che l'altro può tenerselo perché prendo quest'altro, nessuna speranza che il coglione capisca che chi compra un libro che celebra il coraggio delle donne dell'Ypj non ci compra insieme un libro che nobilita quelli che le decapitano ma per stasera mi son fatto già troppi amici e quindi chiudo lì, non è serata da concerto, non è serata da nulla, vado al baracchino a ordinarmi una cena e me ne torno a casa.

La mia notte cinema inizia con "Now you see me", un film che avevo intuito essere l'imperiale stronzata che in effetti si è confermata essere, nella prima scena il mago scorre il mazzo e chiede di scegliere una carta, come l'avesse chiesto a me proprio a me scelgo il sette di quadri, il mago rimescola, suggerisce di non guardare mai le cose da vicino ma di allargare il campo, lancia il mazzo in aria, le finestre del palazzo si illuminano a formare il sette di quadri, avrò visto il trailer vai a sapere.
Guardo il resto del film sperando di ricevere altri segnali dal Grande Regista Superiore ma nulla, un film troppo idiota per contenere due lampi.

Apro la mail e per trovare un po' di aria vado a cercare la ricevuta del mio ultimo acquisto di ieri, quando con la solita ponderazione e lenta valutazione che impiego quando scatta il click della fuga e cioè non più di cinque minuti tra idea e pagamento, mi ritrovo con un biglietto aereo e una casa in riva al mare per dieci giorni.
Non sapevo nemmeno dove andare, la fuga non è meta e io d'estate non ci vado nemmeno mai in vacanza, quindi come sempre passo prima dai voli e guardo cosa parte da Torino, cosa è in offerta, seleziono un paio tra le destinazioni proposte, vado a vedere se ci sono alberghi o case, se le due cose coincidono in uno spazio di tempo più breve del tempo che ci metto a tornare consapevole della differenza tra dire e fare, clicco e pago come l'avessi organizzato da giorni e avessi finito la trafila di valutazioni, non una delle vacanze fatte negli ultimi due anni sono state comprate a più di cinque minuti dal momento in cui nemmeno ci pensavo.
Io e i miei libri a questo giro ce ne andiamo a Messonghi, una fazza una razza e, ma a questa cosa devo pensarci ben più di cinque minuti, se mi gira pure una ragazza.
Intanto la casa l'ho presa come sempre per due, ho tempo per pensarci.
Tu hai tempo fino al 22 luglio per chiedermi se intendessi te e sentirti rispondere "Ma certo, chi altre, fai la valigia per sempre ché si parte per ovunque".




3 novembre 2015

Non sono bello, taccio.

Mi sveglio con la necessità di chiedermi se davvero sia stata una volta in più rispetto alle tre annuali, siamo davvero arrivati a quattro, mi sembra così incredibile ma lo chiesi, si avverò.
Tenerife, esterno notte a fissare interna luce, stella cadente e scoprirsi impreparati al tempismo, cosa chiedo, pensavo di averlo pronto e che avesse un nome ma quando la scia illumina il nome in cima lo sento sbagliato, o giusto, o sbagliato, o giusto, tempo dilatato, nello spazio di un secondo l'altalena di un anno, se lo scelgo e poi si avvera sarà stata colpa mia non aver chiesto l'altro e dura un istante riempito della sensazione di avere il tempo della scia e poi occasione persa, un'altra, la mente corre e sceglie prima che il tempo del bonus scada and the winner is il tuo, rido con me stesso per l'istintiva ufficializzazione tra gli applausi della platea del New World Order.
Torino, interno respiro, una frase e il mio averla scritta identica, identica, una settimana prima, quando scoprirai il perché una tua frase sta su un foglio in casa mia scritta prima che tu la pronunciassi scoprirai quel piccolo impercettibile punto di luce che ne farebbe la casa più tua di tutte le possibili case tue e non sarai più capace di lasciarla, io di lasciarti, di lasciarti attraversarmi, trapassarmi, fare di me ciò che vuoi, fino a ieri non esisteva persona sulla terra capace di zittirmi e ora c'è, io alle tue domande non ho risposte perché sono domande senza punto interrogativo alla fine, sono lame, sono sentenze, sono ritratti, sono il sapere, l'esserti un passo indietro e il senso del Chi vorresti davanti, tu o silenzio, silenzio.
Dieci minuti da soli in casa e una vita che esplode in silenzio facendo un boato che non deve lasciarsi vedere, implosione e domande senza risposta, domande e risposte, guarda qui, questo punto sulla tovaglia è il momento in cui ci siamo conosciuti cioè non proprio io e te diciamo altri due e il boato dentro quel io e te che non deve lasciarsi vedere e un bambino impacciato di fronte a una donna che lo passa al tritaventricoli di una domanda, un'altra, perché fai vedere solo il peggio di te, senza punto interrogativo alla fine, non è domanda, è sentenza, ripetuta, vorrei dirti Perché sono onesto e a mostrare il meglio sono capaci tutti ma è quando è la peggiore delle ipotesi a passare che hai vinto la vita ma non si può dire e allora sono capace di farmi disonesto e ce l'hai davanti, è il peggio di me, so mentire, capace di stare lì davanti dritto su gambe che in quel momento non reggono quella piuma che è boato silenzioso del Guarda in questo punto sulla tovaglia, è il momento in cui ci siamo conosciuti e da qui in poi è il futuro di Io e te cioè non proprio io e te diciamo i due di prima.
Quanti anni di differenza abbiamo, dal nulla, quel nulla che è bisogno di sostanza che riempia a sufficienza il No altrimenti forma vulnerabile alla sua stessa fonte, io dico pochi, tu misuri e scandisci le due cifre perché me li vuoi mostrare uno per uno così che il No non siano solo gli occhi ma io lo so quando si vuole sapere il numero, è breccia, la risposta giusta sarebbe Nessuno e in silenzio mi esplode il dammi modo e li annullo uno per uno, scanditi nel medesimo modo ma in direzione invertita fino a farti vedere impossibile da disinnescare il punto esatto dell'incastro perfetto che ha creato la domanda.
Perché fai vedere solo il peggio di te mi ritrapassi e la risposta è perché il meglio l'ho davanti, è il resto della tovaglia da dove ci siamo conosciuti in poi e sia imbandirla ogni giorno a festa o silenzio, è intimo, è dedicato, non lo so dire, se parlo sbaglio, lo so solo dare.
Quella inattesa carezza all'altezza del cuore me l'ha tolto dal petto e quando vorrai restituirmelo mi tornerà la voce quel tanto che basta per dirti che.
Quel giorno vedrai quel meglio presupposto in quella domanda avere l'esatta forma del mio grazie per averlo sottinteso, intuìto, invocato, sfidato e infine zittito come nessun altro sa, o può.



13 maggio 2015

Once were warriors

Siamo fuori dalla chiesa in attesa che arrivi la famiglia per il battesimo, mi chiede "Vuoi un caffé?" indicandomi il bar, gli dico che l'ho appena preso e che lo aspetto fuori, entra, si prende il caffé e il dolcetto sul piattino, esce e me lo regala.
"Dolcezze di Frolla" dice l'incarto.
In quell'istante lui Dolcezze, io di Frolla, quell'invisibile silenziosa forma che siamo riusciti a ridare al bisogno di esserci fratelli in quindici infiniti anni di fuga gambe nella palude nella quale per trenta siamo stati incatentati a blocchi di cemento ai piedi, perché nessun tentativo di abbattercelo abbia di nuovo materia e suono per farsi efficace.
Un punto di equilibrio per difendere il quale sono pronto a diventare potentissimo.



11 luglio 2014

Gattini sul Post

Mombello di Limbiate, 2014

Una volta quelli che riempivano di gattini i propri wall li rinchiudevano in manicomio, oggi li invitano agli ape per dar lustro ai food testing nelle fashion week.

Come cambiano i tempi, le percezioni, le auto-percezioni.
Le libertà.

6 giugno 2014

La storia siamo noi


Una delle fortune che la mia generazione ha è quella di essere a cavallo di due periodi storici che in termini di quantità (e intensità) di evoluzioni sociali e politiche prodotte sono distanti anni luce.
Noi quarantenni abbiamo un’età che ci rende capaci di analisi approfondite sul nostro periodo contemporaneo, poggiate sul risultato che solo anni di letture e di confronti documentati possono dare come fondamenta, e contemporaneamente abbiamo ancora a disposizione chi ha vissuto in prima persona il periodo precedente dal quale ascoltare le testimonianze dirette di ciò che la prossima generazione di quarantenni potrà solo leggere sui libri.
È inebriante, perché questa doppia disponibilità di fonti permette di prendere le proprie analisi sulla storia contemporanea e incrociarle con le testimonianze dirette del periodo precedente che questa storia contemporanea l’hanno generata.
Io non so se tutti i miei coetanei si rendono conto di quale fortuna sia, ma soprattutto mi spiace che la prossima generazione potrà contare solo su di noi quarantenni di oggi, per farsi raccontare un periodo attuale che di interessante non ha poi così tanto se messo a confronto con i decenni ‘50/’80.
Quando un dodicenne di oggi tra una ventina d’anni chiederà a me sessantenne di raccontargli come si è arrivati alla realtà del 2035, io avrò da raccontargli al massimo di un tizio con i capelli d’asfalto che aveva candidato una con due tette da paura, di un comico che si era inventato un esperimento sociale che un giorno gli sfuggì di mano, di riunioni segrete che faccio con i miei clienti nelle quali vengo messo al corrente di cose che pur detonanti non sposterebbero un capello se rese pubbliche.
Io al contrario oggi ho a disposizione in presa diretta una famiglia che ha attraversato una storia incredibile che ha davvero rivoluzionato, anzi costruito, il paese di oggi e alla quale posso chiedere di raccontarmi, di dirmi di più, di togliermi dubbi, di riempirmi caselle altrimenti impossibili da riempire.

Stasera per il compleanno ho ricevuto diverse belle cose, tutti pensieri semplici ma per la prima volta dopo tanto tempo davvero ma davvero pensati guardandomi dentro.
Ciascuno ha pensato a me prima di scegliere il regalo e per questo ciascuno mi ha davvero regalato qualcosa che parla non tanto di me quanto di quello che vorrebbero io avessi.
Una bottiglia di vino con due bicchieri è un regalo bellissimo perché è un augurio bellissimo, tre foto con la scritta sotto “Famiglia” sono la cosa più vicina all’idea di famiglia che i tre ritratti in quelle foto oggi possono trasmettermi, la biancheria intima più semplice è il pensiero pulito più semplice e su questo poi ci scriveremo una filippica dedicata perché dietro una maglietta bianca c’è un mondo che pochi possono racchiuderci dentro.
In mezzo a quei regali me n’è arrivato uno che nessuno aveva incartato perché nessuno pensa che per me sia tale.
Quel regalo è un racconto.

Una delle fortune che la mia generazione ha, dicevo, è quella di avere accanto persone che la storia l’hanno fatta davvero e una di queste persone stasera era a tavola con noi.
Mia nonna e i suoi fratelli sono tutti passati da quelle che in quegli anni erano le principali aziende, come quasi tutti i calabresi di quella generazione diventati torinesi negli anni della grande migrazione.
La fortuna che io posso vantare è che quasi tutti loro hanno fatto percorsi storici importanti.
Allora stasera il regalo involontario è stato Zio Peppe e il suo racconto.
Zio Peppe è uno di quelli che nella Marcia dei Quarantamila stava in testa.
Uno di quelli che quella marcia l’hanno organizzata, non di quelli che ci si sono solo accodati.
Ora io a un quindicenne di oggi non saprei come spiegare che fortuna sia avere a tavola uno di quelli che negli anni di piombo era un quadro Fiat, uno di quelli che in quei mesi a casa la sera ci tornava scortato dai carabinieri, uno di quelli che in una stanza e poi in un teatro e poi in una città decise che era giunto il momento di cambiare il corso della storia.
Se glielo spiegassi probabilmente alzerebbe le spalle pensando che anche lui sul blog ha fatto la citazione del partigiano che combatteva il fascio, penserebbe che anche lui ha il nonno che si è salvato dalla prigionia.
Non capirebbe la differenza tra l’aver davanti un partigiano o uno degli enne milioni di italiani e italiane che in diversa maniera realizzarono la Resistenza, un sessantottino, uno degli enne mila che hanno occupato le università, e l’aver davanti uno di quelli che hanno deciso la marcia dei quarantamila.
La differenza sta nel fatto che un partigiano è un elemento di una lotta collettiva così spersonalizzata che la condivisione degli obiettivi non era un presupposto necessario e quindi comune a chi si trovò a combatterla, tra i partigiani ci furono anche quelli che semplicemente compresero con sufficiente anticipo che quella sarebbe stata la parte che avrebbe vinto; uno degli organizzatori della marcia dei quarantamila è una persona che ha cambiato davvero personalmente il corso della storia, in una maniera così individuale che, raccontava, persino loro furono increduli di fronte alla dimensione del sostegno che la città offrì loro lungo quella strada che nei loro programmi erano pronti a percorrere in un numero venti volte inferiore a quello di coloro che si apprestavano ad affrontare.
"Non eravamo quarantamila" ha detto "eravamo quattromila, il resto fu la città che ci rese dieci mila, poi venti mila, poi quaranta mila".
Ma cos'è un racconto così, se non un regalo.

E allora per mezz’ora è stato tutto un suo raccontare e un mio chiedere, dettagli, conferme, stupore, incredulità.
Perché fu fatta quella marcia, chi erano i veri destinatari del messaggio (io lo sapevo, ma era solo deduzione frutto di letture e riflessioni successive, sentirselo confermare in prima persona è una cosa enorme), il ruolo del sindacato in quegli anni, Berlinguer in quei giorni, il vero Berlinguer, cosa succedeva nei locali delle catene di montaggio, come si agiva su persone e macchinari, chi gestiva davvero i picchetti ai cancelli, ma soprattutto il vero cuore di quella questione, il nome che io aspettavo venisse fuori perché unica conferma che aspettavo in mezzo a notizie al contrario per me nuove e sul quale non a caso appena uscito ho fermato la divagazione per concentrarsi su quello: le Brigate Rosse.
Un fiume.
Chi erano, quanti (esattamente) erano, dove stavano, chi li copriva, come si muovevano dall’interno del sistema per ottenere i loro risultati sull’esterno, perché erano coperti, la questione RSU, chi erano quelli che le gestivano, come funzionavano gli scioperi e chi in realtà li gestiva e controllava, perché si decise di togliere quella copertura, il giorno esatto in cui si decise che quella copertura dovesse cessare, come avvennero esattamente gli arresti e non in senso politico ma tecnico, in termini di procedure di polizia studiate perché fossero efficaci e definitive al millimetro di ogni singolo nome, stavo in un film in presa diretta, un fiume, un fiume enorme e incredibile, la storia toccabile con mano a un metro da me, non la verità perché la verità in assoluto non esiste, ma qualcosa che certamente le si avvicinava così tanto da rendere quasi superfluo il bisogno di battezzarla come tale.
Chi se ne frega di come la si vuole chiamare, quella mezz’ora ha avuto la forma che più ha il senso della verità, della storia recente e intensa di questo caotico paese.

Io stasera ero a tavola con una delle persone che hanno realizzato la fine, concreta e non teorica, delle Brigate Rosse.
Non lo so, sono elettrizzato e non so come spiegare a un quindicenne che roba enorme sia potergli parlare, fare domande, toccarlo, averlo contemporaneo e a disposizione della fame di sapere il retro della storia.
Soprattutto non saprei come spiegargli, a prescindere dalle proprie personali posizioni politiche, che impoverimento sia questa ormai diffusa abitudine di ridurre la storia passata e presente di questo paese fino a farla entrare dentro un tweet, semplificando tutto, i buoni di qua i cattivi di là, gli onesti tutti capelli biondi i ladri tutti capelli mori, flussi sociali e storici che hanno cambiato la storia di intere nazioni ridotti a frasi che stanno dentro due righe di citazione da diario, modificazioni tali da cambiare il pensiero umano semplificati fino all’estremo solo perché diventino comprensibili da chiunque non abbia mai aperto un giornale, un libro ma ugualmente vuole spiegare il mondo, anche quel mondo.
Non saprei come spiegargli la bellezza della complessità, forse l’unico aspetto della storia politica di questo paese la cui bellezza dovrebbe essere condivisa da entrambi, da chiunque se ne dica appassionato, affascinato, e quanto al contrario questo ridurre tutto a codice binario 0-1, anche e persino periodi storici talmente complessi che resterebbero tali persino se si riuscisse davvero a ridurli a sintesi 0-1.
Come faccio a spiegare a un quindicenne che non importa se pensa che sia giusto o meno il suo pensiero ma che è fondamentale non abbandoni mai il fascino di esplorarne la complessità, quanto abbia da guadagnarci lui stesso se non cede alla tentazione di ridurlo fino a banalizzarlo?
Che non esistono complotti, esistono storie conosciute e storie con caselle ancora da riempire, che quando non conosci una storia non devi risolverla attribuendola ai servizi segreti ma devi inseguirla senza mai  accontentarti di meno che la risposta più semplice tu abbia la fortuna di poter ottenere, ma devi fare la domanda e farai la domanda solo vivendo ogni giorno con la certezza che la risposta definitiva non ce l'hai perché semplicemente non può esistere.

Stasera Zio Peppe mi ha detto chi diede l’ordine, fu tale, fu gerarchico infatti.
Gli ho chiesto di ripetermelo perché temevo di aver capito male.
Ma come si può non essere appassionati di un mondo tanto complesso da eliminare il confine tra buoni e cattivi non perché siano tutti uno o l’altro ma semplicemente perché quel parametro non è complesso abbastanza da essere sufficiente per raccontare una storia così articolata da essere disegnabile, e questo solo se proprio la si vuole rappresentare in maniera visiva, solo a forma di frattale, ogni risposta genera altre dieci domande e ognuna delle dieci risposte ne genera altre dieci in un flusso inarrestabile e infinito?
Come si può pensare di aver capito, di aver capito tutto?
Non è fisicamente possibile capire tutto, si può solo continuare a correre dietro alla nuova domanda ed è affascinante farlo molto più di quanto possa dare piacere la ricezione di una risposta.

Ma che bel compleanno.
Passato a parlare di morti, di alberi, di terrorismo, di come si produce l'olio, di vita reale, di cose vere e i regali consegnatimi da due bambini che un giorno magari scriveranno che la sera del loro quarantesimo compleanno io settantenne avrò raccontato loro una vita pazzesca fatta di lotte e di azzardi, di scommesse e di vittorie. 
Glielo auguro, perché se avverrà vorrà dire che tra trent'anni saremo sempre noi, che a sua volta vorrà dire che stasera a quel tavolo io ero certamente felice ma non ero il più felice, che a sua volta vorrà dire che è stato proprio un bel compleanno.

Adesso però è ora di andare, ché anche le storie semplici, quelle che non vogliono cambiare il mondo ma solo il modo, contengono bellezza.



21 maggio 2014

Se non altro questa volta ho i testimoni

Il Grande Regista Superiore, dopo avermi per anni fatto percepire il mio essere sotto valutazione, mi ha definitivamente scelto per salvare il mondo.
Tornato a Bologna una luce mi ha investito, una voce mi ha detto "Sei tu, vai e diffondi".
Per meglio chiarire che non di caso si è trattato, il giorno dopo mi è riapparsa la stessa luce che con ancora maggiore precisione mi ha mostrato la via facendomi apparire, in maniera impossibile da prevedere e cercare, la persona che ho il compito di salvare così che ogni dubbio circa la casualità venisse dissolto.
Il problema è che guardando e riguardando l'arma che mi è stata consegnata, mi sono accorto di un dettaglio al quale non avevo fatto caso e che mi mostra che, se la utilizzassi, metterei a rischio me stesso e la persona che era con me.
Non so come gestire questa cosa e ho un solo giorno per pensarci.
Qualsiasi cosa deciderò, resta che ogni volta che cammino per Bologna le persone scompaiono e vedo la luce.


Bologna - Via di Damasco

27 aprile 2014

Passo delle oche

Dato che "in alto in cuori" come chiosa di ogni articolo e commento M5S reperibile in rete, "Boia chi molla" pronunciato da un parlamentare M5S alla Camera e "Vincere e vinceremo" come chiusura del post di avvio della campagna per le europee sul sacro blog, secondo le migliaia di commentatori M5S dispiegati in rete a portare avanti l'opera di propaganda sono elementi troppo vaghi per poter idenificare con precisione l'area in cui si sviluppa il pensiero politico dal quale Beppe Grillo estrae le sintesi con le quali rendere facilmente assimilabile la sua retorica, vi vengo in aiuto io sollevandovi dalla necessità di decodificare anche il nuovo slogan "Peste rossa" con il quale oggi a Piombino ha battezzato quella sinistra che, come da mantra-ossessivo fondante, la platea accorsa ad ascoltarlo deve considerare origine di tutti i mali.

Nell'usare quella definizione Grillo cita, naturalmente senza saperlo come in ogni altra occasione nella quale si è trovato suo malgrado ad utilizzare il linguaggio dell'estrema destra (e guarda è proprio una sfortuna un comico pesca a caso e involontariamente si ritrova a citare passaggi rintracciabili sempre -e solo- nei discorsi di Mussolini e di Hitler),  "Marschiert in Feindesland", inno di battaglia delle Waffen SS.
Non che la notizia sia di chissà quale portata, nei vostri dialoghi con un M5S questo ennesimo episodio di slogan estratto dalla propaganda nazista avrà possibilità di spostarne il giudizio né più né meno di quanta ne abbiano avuti i tentativi di spiegargli da dove provengano appunto "Boia chi molla" e "In alto i cuori", quindi pressoché zero dato che nella migliore delle ipotesi ha 12 anni e non conosce la storia e nella peggiore è un nazista che della notizia al massimo gioisce, ma magari presi dalla noia e dallo sconforto in questo caso avrete almeno la possibilità di risolvere la questione fischiettandogli il passaggio.

Che in tedesco è questo:

"Wir kämpften schon in mancher Schlacht
In Nord, Süd, Ost und West
Und stehen nun zum Kampf bereit
Gegen die rote Pest
SS wird nicht ruh'n wir vernichten
Bis niemand mehr stört Deutschlands Glück
Und wenn sich die Reihen auch lichten
Für uns gibt es nie ein zurück"

Mentre in italiano è questo:

"Abbiamo già combattuto molte battaglie
A sud, nord, est e ovest:
E ora siamo pronti per l'ultima lotta
Contro la peste rossa.
Le SS non riposano, distruggono!
Perchè nessuno minacci mai più i destini della Germania
E se anche i nostri ranghi dovessero assottigliarsi
Per noi non ci sarà mai ritirata."

La musica invece è questa:


21 febbraio 2014

Tanto va la gatta al lardo

Febbraio e come ogni anno si parte nella preparazione del lavoro dell'anno, quello per quel cliente che a settembre per tradizione riesce a portarci sempre nei posti nei quali lo scarto tra lo spettacolo che portiamo noi e la realtà intorno riesce sempre a essere di dimensione tale da tradursi nella maggior parte dei casi in paesi nei quali ci sono in corso guerre, rivoluzioni, pestilenze, cavallette e cataclismi sociali vari ed eventuali.
L'anno scorso sollevai il problema e fui zittito e zitto rimasi.
Febbraio e il gruppo vacanze Cliente+Agenzia+Tecnica parte come sempre per il sopralluogo nella struttura scelta per l'edizione successiva, per prendere le misure, gli accordi economici, contatto con i tecnici locali e tutto ciò che serve quando tornati a casa si dovranno dedicare i restanti mesi a preparare il tutto da qualche migliao di chilometri di distanza.
Partono tutti per il sopralluogo, fanno sopralluogo, si preparano al rientro, un autobus gli esplode accanto, il villaggio, che avremmo dovuto prendere in esclusiva per dieci giorni, chiude per terrorismo.
E questo è l'unico motivo per cui si riparte da zero sulla pianificazione in struttura diversa, perché altrimenti nulla esclude che sarebbe rimasta quella sull'onda del Noi ci andiamo tra tanti mesi e poi se sono aperti vuol dire che non succede nulla.
Vediamo chi è il primo che come alternativa propone Kiev.

11 febbraio 2014

Se Milano avesse lu mère sarebbe una còs da bere

Ieri sera dopo tanti anni ho incontrato Milano la sbagliata, quella che mangia il tempo, lo spazio, lo annulla e lo appiattisce in un'unica grande bolla nella quale tutto è frenetico nella stessa misura in cui riesce a essere drammaticamente statico.
La Milano che prende il dolore e lo affronta diluendolo in soluzioni che ne lasciano sempre una parte non sciolta che resta sui tavoli, sui bicchieri, sulle mani e sulla pelle, nelle parole, nella rabbia, rabbia, rabbia in quantità sempre superiore a qualsiasi compagno di spazio, mettila insieme al dolore sarà più la rabbia, mettila insieme alla delusione sarà più la rabbia, mettila insieme alla difficoltà di vivere sarà più la rabbia, Milano e qualsiasi cosa sarà più la rabbia per un processo di sublimazione collettivo che ha come unico risultato un'intera città infestata di rabbia, di rancori, di non c'è tempo, di non c'è spazio.
Milano è la città che se smetti di salutarla non ti chiede chiarimenti ma smette di salutarti a sua volta perché se non la saluti più non importa il motivo, conta solo il non esserti seconda, il non subirti, è la città che ti invitano fuori a cena e intendevano a bere, la città che parla per te per poter allestire il dialogo nella maniera adatta a legittimare le uniche risposte che è in grado di darti.
Milano fu una centrifuga dalla quale un improvviso dolore un giorno mi sparò fuori fermandomi, togliendomi, salvandomi dai suoi ingranaggi senza scampo, raccolgo pezzi di passato uno più distrutto dell'altro, se non è la droga è il gioco d'azzardo, se non è il gioco d'azzardo è dio, quanti amici passati dal pisciare sui portoni, i loro stessi portoni, a parlare non di dio ma con dio, se non è dio è la follia, quella malata, quella che è disperazione, che non ha il colore ruggine di testi da lisergico poeta maledetto ma quello del vomito dei primi anni di birre quando eri ubriaco così presto che quello che lasciavi sul marciapiede non era la tua notte da bucoschi di 'sta minchia ma il pranzo di mamma, milano ti accoglie in piazza in età da sbronze al pomeriggio, ti stritola in età da sbronze di notte, ti restituisce budella al collo neuroni sciolti e bile a soffocarti in sbronze di nuovo pomeridiane, gira la ruota, una regressione collettiva in scala metropolitana che passa inosservata solo perché sono tutti, in trentacinque anni ne posso salvare forse cinque, così.
Ieri ho reincontrato il mio tratto di strada milanese, l'ho trovato peggiore di come l'avevo lasciato e non era davvero facile.
Ho avuto davanti me stesso dieci anni fa e insieme me stesso oggi se non me ne fossi andato.
Mi è mancato il fiato finché non se n'è andata lasciandomi lì al tavolo due ore prima del previsto, dice che non c'era un senso, che non c'era tempo da perdere, che la verità è una e che ogni cosa ha una sola unica versione, la sua, cosa vuoi mi diceva, ho da fare mi diceva, mi metteva in bocca le parole che un secondo dopo si diceva certa avrei detto, una valanga.
Non so se è stato più surreale scoprire di essere stato invitato fuori per rendere divertente l'anniversario di una morte di nemmeno un mese fa o l'aver cercato di colpevolizzarmi per non essere stato in grado di svolgere il compito assegnatomi.
Ho aspettato si allontanasse, mi sono alzato, mi sono incamminato verso l'hotel, sono andato a farmi una birra e un panino al pub sotto casa dei miei.
Magari passava mio fratello, magari era lì come ogni sera, avevo voglia di dirgli che non l'avevo mai visto così bello come lo visualizzavo nemmeno mezz'ora prima di fronte a quella milano che mi vomitava addosso il suo star bene ripetuto e rimbombato per convincermi del suo star bene e della sua analisi del mio star male e io zitto, in silenzio, fermo, immobile, come il Prodi di Guzzanti, foglie stagionali a velocità luce comprese finché non si è alzata ha pagato se n'è andata e io no, resto a finirmi la sigaretta, il silenzio, salutare il gentile signore del bar, fare due passi, tempo, un'intera serata di tempo improvvisamente regalatomi da una che diceva di non averne.



A proposito di musica.
Se oggi alle 18 non sai cosa fare, sei a Milano e ti sei sempre chiesto che diavolo di lavoro io faccia, puoi venire qui a vederlo di persona, io sono quello con la faccia da regista.

7 febbraio 2014

Il casalingo di Voghera

Il tema dell'incontro con gli investitori su richiesta del cliente viene veicolato attraverso la metafora del sistema solare, anelli orbite e tutte cose intorno al brand principale che fa la parte del sole, c'è da fare i jingle video e il walk-in (dicesi Walk-in i video e gli audio che girano in loop mentre la sala si riempie), Bruno prende gli anelli progettati dal grafico ci appiccica i brand satellite li accompagna con i materiali di ogni brand e in mezzo ci mette il brand madre, roba scolastica che meno di quello ci trovi solo lo sportivo che dice di sentirsi più forte bevendo quel succo di frutta, livello che peraltro ancora ha la sua bella fetta di clienti che da lì non li sposti manco a cannonate dove il "da lì" non è da ricondurre all'idea del testimonial ma alla faccia da avanguardisti che fanno quando te lo commissionano, il cliente vede le prove video approva gli anelli ma chiede vengano eliminati i brand collegati perché, dice, così sembra un sistema solare, cioè la metafora richiesta, e non va bene.

Un mese fa, ore quattro del mattino Bruno riceve una mail, il testo è il seguente:
"Ciao Bruno
I punti e le virgole sui numeri vanno bene
Non cambiare nulla anche domani mattina
Puoi solo alla quart’ultima pagina c’è una virgola su XYXYX (1.952)
Puoi inserire il punto pf?"

Settembre, sala prove con la cliente interno giorno, controlla i materiali, approva, boccia, boccia, approva, modifica, conferma, arriva a un'immagine nella quale ho messo una parte del testo in corsivo, sobbalza "No questo no!"
Alla mia richiesta di motivazione, necessaria per comprenderla e tradurla sui testi da quel momento in poi, assume sguardo da che domande fai e mi spiega che "Il corsivo no perché gli assicuratori hanno bisogno di certezze".

Un giorno quando il mio saper far sentire normale gente che normale non è mi avrà fatto finire di pagare l'atollo in Oceano Indiano e potrò finalmente parlare, scriverò un libro sui miei primi quarant'anni e il mondo scoprirà uno spaccato dell'industria italiana che tutti dovrebbero conoscere e invece sta nascostissimo.

Poi ci metterò il capitolo finale, che racconterà quel giorno in cui i miei anni a lamentare assenza di coraggio nella comunicazione italiana sono stati completamente inceneriti dall'unica occasione in cui mi fu data la possibilità di dire un sì o un no che non avevo percepito essere determinante finché non vidi, troppo tardi, le conseguenze del mio parere.
Era una campagna sociale, tema duro, l'occasione rara per chi sogna l'azzardo, immagine creata dall'agenzia molto forte, volutamente dirompente, finalmente coraggiosa, quelle immagini che per sintesi si dice "urtano la sensibilità", quelle campagne che quando le vedi all'estero dici sempre che in italia non si avrà mai il coraggio di farle, la padrona dell'agenzia mi chiama per altri discorsi nostri, mentre sono lì entra la ragazza con le prove di stampa, lei prende la stampa me la passa e mi chiede di dire cosa ne pensi, guardo l'immagine, chiedo su che media andrà, se sarà nazionale, scopro che sarà nazionale tv in prima serata, mi vesto da famiglia a tavola, guardo la tizia e le dico "Non potete passare questa roba a ora di cena, quello che per voi è pennellata di colore per la famiglia è schizzi di sangue e nella parte bassa tagliata via dall'immagine la gente ci vedrà un corpo a pezzi, non può andare in prima serata ve la boicotteranno", non c'era sangue, non c'erano corpi, era tutto sott'inteso, solo un paese arretrato avrebbe considerato quell'immagine un'immagine che avrebbe disturbato, in qualsiasi paese con una cultura visiva mediamente educata quell'immagine sarebbe stata la cosa più opportuna e adeguata all'effetto necessario, era perfetta, efficace e nello stesso tempo non cruenta nonostante lo fosse il tema, io sentenziani il mio no e la bocciai, venne cambiata l'immagine e il progetto originale venne buttato per sostituirlo con uno più morbido e adeguato alla sensibilità della prima serata.
Credevo sarebbe stato un parere ascoltato tanto per e invece decretai la bocciatura di una campagna che ho sempre detto l'italia non avrà mai il coraggio di fare, quel giorno l'agenzia lo ebbe, a non averlo fui io e non mi perdonerò mai la direzione che prese la mia mente al bivio di quell'istante, né basterà a risolvermi il problema il trucchetto mentale che adotto ogni volta che ci penso per perdonarmi e cioè il mio dirmi che se mi avessero detto che sarei stato determinante forse avrei azzardato, perché che me lo abbiano detto o meno io ero e perfettamente consapevole del peso che viene dato alla mia parola in alcuni posti e per questo dichiarata o meno che fosse, quella era una richiesta di approvazione e quindi occasione mancata senza attenuanti possibili.
Se vi troverete un giorno in una discussione sul coraggio nella comunicazione italiana, nel punto in cui se ne attribuirà l'assenza a figure professionali impersonali mai definite ma per logica esistenti, siete autorizzati a dire che voi ne conoscete uno.
Dare il mio nome a ciascuna di quelle impersonali facce è il minimo a cui devo essere condannato per quell'istante in cui dissi no e fu no e a voi per colpa mia fu sottratta la possibilità di crescere.
Il perché è una cosa molto complicata da spiegare ma dietro la banalità della comunicazione italiana c'è spesso gente che voi considerate tutt'altro che banale, guidata da processi e meccanismi per spiegare i quali di capitoli ce ne vorrebbero non meno di dieci e forse comunque nemmeno li capireste.
Ma è così, è colpa mia nella stessa misura in cui è merito mio.
I Luttazzi non vanno in tv perché a scegliere c'è gente come me che ce li vorrebbe.
Perché la forza stia in equilibrio sono necessarie contrapposte e consapevoli fragilità, l'equilibrio è tale solo quando si è cresciuti abbastanza da non aver più timore di metterle entrambe sulla carta d'identità e un giorno troverò anche il modo per spiegarla bene questa cosa perché fino a ieri nemmeno le avevo in mente, ora le ho in mente anche se non le so spiegare, un giorno le saprò anche spiegare e il cerchio sarà chiuso.

Nel frattempo per te, che chissà dove sei oltre che in ognuno dei miei passi.
Quel che credo di poter dare per certo è che non sei più qui e così sia, ma che bello che è stato quel colpo di vento, che profumo di pulito, di aquiloni colorati, di possibile.



2 gennaio 2014

C'è chi scende, c'è chi sale

[...]-…Perché una volta che avete cominciato, - predicava,- non c’è nessuna ragione che vi fermiate. Il passo tra la realtà che viene fotografata in quanto ci appare bella e la realtà che ci appare bella in quanto è stata fotografata, è brevissimo. Se fotografate Pierluca mentre fa il castello di sabbia, non c’è ragione di non fotografarlo mentre piange perché il castello è crollato, e poi mentre la bambinaia lo consola facendogli trovare in mezzo alla sabbia un guscio di conchiglia. Basta che cominciate a dire di qualcosa: “Ah che bello, bisognerebbe proprio fotografarlo!” e già siete sul terreno di chi pensa che tutto ciò che non è fotografato è perduto, che è come se non fosse esistito, e che quindi per vivere veramente bisogna fotografare quanto più si può, e per fotografare quanto più si può bisogna: o vivere in modo quanto più fotografabile possibile, oppure considerare fotografabile ogni momento della propria vita. La prima via porta alla stupidità, la seconda alla pazzia.
- Pazzo e stupido sarai tu, - gli dicevano gli amici, - e per di più rompiscatole. – Per chi vuole recuperare tutto ciò che passa sotto i suoi occhi, - spiegava Antonino anche se nessuno lo stava più a sentire, - l’unico modo di agire con coerenza è di scattare almeno una foto al minuto, da quando apre gli occhi al mattino a quando va a dormire. Solo così i rotoli di pellicola impressionata costituiranno un fedele diario delle nostre giornate, senza che nulla resti escluso. Se mi mettessi a fotografare io, andrei fino in fondo su questa strada,  a costo di perderci la ragione. Voi invece pretendete ancora di esercitare una scelta. Ma quale? Una scelta in senso idillico, apologetico, di consolazione, di pace con la natura la nazione i parenti. Non è soltanto una scelta fotografica, la vostra; è una scelta di vita, che vi porta a escludere i contrasti drammatici, i nodi delle contraddizioni, le grandi tensioni della volontà, della passione, dell’avversione. Così credete di salvarvi dalla follia, ma cedete nella mediocrità, nell’ebetudine. [...]

L’avventura di un fotografo
Gli amori difficili – Italo Calvino

C'è chi scende c'è chi sale

22 dicembre 2013

L'hobby delle Lobby


Il giorno che incrociai per la prima volta il mondo delle multinazionali farmaceutiche fu un momento di svolta che riassumo sempre nell'episodio che mi vide corretto, per essere gentili, da un loro responsabile che mi intimò di eliminare dal lavoro che stavo preparando la parola Malato da me scelta (per quella ingenuità tipica dell’inesperienza) per indicare il soggetto trattato, per sostituirla ogni volta che compariva con Opportunità di business, definizione per loro alternativa al punto da esserne sinonimo.
Non è un dettaglio marginale il considerarla sinonimo, perché è proprio in quel punto esatto dell’approccio che ci si può sentire immuni dagli eventuali contraccolpi di un conflitto interiore mal gestito.
Non stai sostituendo il soggetto, stai sostituendo il nome con cui lo indichi e nel farlo, nella consapevolezza di averne conservato il ruolo centrale, senti di averne protetto quasi fino a nobilitarlo il valore.
Col tempo e l’esperienza ho compreso i meccanismi con i quali l’uomo è in grado di risolversi i conflitti interiori il più possibile a costo zero e l’ho compreso proprio attraverso queste esperienze qui.
La scelta di chiamare il malato Opportunità di Business, scelta apparentemente contraria al buon gusto e alla decenza, non ha in sé in realtà nulla di diverso rispetto alla scelta di chiamare Diversamente abile l’handicappato, operatore ecologico lo spazzino e così via.
Sono scelte vestite di rispetto per il soggetto indicato, ma in realtà finalizzate a risolvere il proprio rapporto complesso con la realtà del soggetto stesso.
Difficile comprenderlo se non ci si immerge in quel mondo ma in quella scelta, certo animata anche e forse principalmente da un senso dell’opportunità interessato, a lungo andare è possibile scorgere in maniera affatto marginale una cura per la situazione psicologica del malato che dall’esterno è difficilmente decodificabile.
Non si smette di occuparsi del malato, semplicemente lo si chiama con un diverso nome.
La parola Malato, in linea di principio corretta, aveva il difetto di caricare (il peso del termine “caricare” era da intendersi “Inutilmente”) il concetto che ero chiamato a trasferire di zavorre di difficile gestibilità, nel momento in cui anche uno solo di quelli che avrebbero usufruito dei messaggi non avesse ancora compiuto il percorso interiore necessario per risolvere il conflitto morale dato dal proprio rapporto con quella realtà oltre il sé.
Al contrario Opportunità di business aveva il vantaggio di veicolare il concetto in maniera adeguata evitando nel contempo di esporlo alla reazione di rifiuto che certamente avrebbe generato in quegli interlocutori che non erano ancora arrivati a risolvere i contrasti morali in maniera così definitiva da esserne diventati immuni.
E' ovvio che tutto questo ha un senso solo precisando che i destinatari di quelle comunicazioni non erano esterni al mondo della multinazionale.

Negli anni e vivendoli dall'interno delle stanze segrete ho imparato che i cattivi delle multinazionali sono in gran parte dei casi l’unica speranza per una serie piuttosto rilevante di malattie tutt’ora incurabili, al contrario di quanto pensino i complottisti che li identificano nelle cause non solo della non curabilità ma in alcuni casi addirittura della creazione stessa della malattia.
Su quell'ultimo concetto ci sarebbe da scrivere pagine e pagine perché in assoluto non è sbagliato, ma sono i fattori che vengono osservati nella maniera sbagliata e questo è il motivo per cui i complottisti non arriveranno mai a nessun punto di sintesi risolutiva: non gli mancano gli elementi, gli manca la capacità di disporli correttamente per vedere in chiaro ciò che vedono scuro.
Se vuoi dimostrare una tesi negativa gli elementi sono adatti e si prestano a essere ridisposti fino a coincidere con la tua tesi, il fatto è che se li esaminassi  disponendoli come sono e non come li immagini, la tesi in non pochi casi risulterebbe positiva ed è per questo che è fondamentale che i complottisti non conoscano a fondo ciò di cui parlano, non potrebbero più sostenere la tesi del complotto e in particolare non potrebbero più considerarli complotti dei quali non sono responsabili.
Vabbé, sto divagando, questa roba qui magari un'altra volta.

Ho imparato che in un mondo basato sul denaro, considerare una malattia un’opportunità di business e il brevetto conseguente la porta verso quel business, processo piuttosto duro da far passare come positivo, ha creato un mondo di ricerca parallelo a quello governativo che vive di investimenti in alcune nazioni superiori anche dieci volte rispetto a quelli pubblici, in altre addirittura l’unica forma di investimento in ricerca data l’assenza di investimenti pubblici.
E quando parlo di ricerca parlo di ricerca con i controfiocchi vissuta in prima persona che si occupa eccome di risolvere le malattie ma soprattutto si occupa anche di un dettaglio che chi investe poco in ricerca è costretto a trascurare e cioè le controindicazioni di una cura, che è un altro mondo a parte del quale si parla decisamente poco e che invece andrebbe visto e studiato con la stessa passione con la quale si chiede la cura
Perché se io multinazionale cattiva investo cento euro in ricerca perché me ne tornino cento miliardi e tu dieci perché quelli hai in cassa non avendo progetti speculativi a motivarne l'aumento, io potrò creare una molecola che oltre a curarti il cancro evita anche di farti però diventare cieco, tu la seconda cosa non avrai soldi per risolverla e chi si occupa di più della vita del malato, io o tu?
Se io ti curo la malattia ma te ne genero un'altra, ho fatto il mio dovere?
Se ti risolvo la depressione ma ti uccido i reni, ti ho risolto la depressione?
Ho imparato che il mondo là fuori è molto più complesso di un sondaggio sul web e di un cartello in piazza.
Ho imparato che un brevetto non genera ricchezza in base a quanto a lungo duri la malattia, ma in base a quanti ne sono colpiti e dato che le malattie sono destinate ad aumentare, chi investe in ricerca non ha alcun motivo di conservare il malato nella sua condizione, ha come unico fine l’essere il proprietario del brevetto che lo cura, sapendo che in un mondo nel quale l’incremento demografico è per una strana legge di natura direttamente proporzionale all’aumento del numero delle malattie, a garantire l’arricchimento non è il perdurare del malato, ma il principio commerciale della concorrenza.

Non lo so perché mi è venuto in mente tutto questo nel momento in cui ho incontrato questa storia del progetto Stamina, quello che so è che la mia posizione non è per nulla chiara e quando non ho una posizione su qualcosa comincio a interrogarmici finché non ne ricavo un punto sufficientemente chiaro da poterci ammorbare per almeno un paio d'ore i commensali alla prima occasione.
Diciamo che una parte di me è convinta che nelle staminali siano racchiuse le chiavi di non poche malattie a oggi incurabili, cosa per esser convinti della quale non serve certo una laurea ma basta quel minimo di logica sufficiente per dare per sicuro il nostro aver interrotto lo sviluppo delle potenzialità di autocura che qualsiasi organismo ha in sé a furia di prendere medicine per ogni colpo di tosse, al prezzo di sottrarre progressivamente al corpo le capacità di risolvere da solo gran parte delle malattie fino a congelarle in quello stato primitivo che oggi ci rende incapaci persino di produrre gli anticorpi per l'influenza ed è chiaro che nelle staminali, diciamo nel dna, qualche chiave per riattivare i processi automatici di protezione è probabile ci sia.
Quella parte di me, che è poi quella che non prende medicine e chissà poi se c'è un collegamento non si ammala mai perché io verso migliaia di euro al SNN ma saranno tipo dieci anni che non vedo un medico e comunque quella volta fu solo perché mi serviva un certificato con su scritto che non avevo bisogno di lui, è convinta che molte malattie non saranno curabili quando si troverà la molecola da infilarsi in vena ma quando si troverà il modo di dire al dna Ricomincia a occupartene tu.
Ma c’è un’altra parte di me che da circa una decina d’anni e per esperienza diretta con quasi tutti i mondi obiettivo dei complottisti si è decisamente smarcata dall’onda dei complottisti globali e degli inseguitori di guaritori sempre sprovvisti di guariti al seguito.
Io credo che la gente dovrebbe essere libera anche di curarsi con i tulipani se lo desidera, quello che non può pretendere è che diventi protocollo statale.
Ma rispetto al progetto Stamina il mio dubbio è: a prescindere dai documenti richiesti dal ministero che oggi ci sono domani non ci sono dopodomani ci sono ancora e i cattivi delle lobby e tutto il cucuzzaro della nuova stagionale guerra di posizioni tra popolo del web e multinazionali, se quella cura funziona davvero dove sono i guariti?
Perché tu per te stesso puoi anche decidere di essere il primo a sperimentare una cura del cancro a base di sciroppo d’acero della quale ancora non possono essere mostrabili i guariti, ma non puoi fare tutto ‘sto bordello perché lo Stato inserisca lo sciroppo d’acero tra le cure del cancro solo perché tu pensi funzioni, perché per fare di una cura un protocollo nazionale lo Stato è ancora convinto serva quel dettaglio chiamato guarigione o approssimazione il più vicino possibile della stessa.
Funziona?
Scendano in piazza i guariti, allora, non i malati.
Portane dieci che sono guariti dalla SLA e otterrai cancelli spalancati come non ne otterrai con un milione di sedie a rotelle.
Il problema in realtà temo sia che tra un’opportunità di business e un malato ci passa la stessa distanza che c’è tra Elettore e Popolo, ma ancora non ho ben chiaro come spiegarlo in almeno un paio d'ore di incontestabile esposizione che riesca in ciascuno dei centoventi minuti a stare il più possibile lontano dal mondo dei grillini dove invece al momento vedo scivolare ogni mio tentativo di approccio a questa storia di Stamina.
Potrei partire dal fatto che è quantomeno improbabile che un esperto di comunicazione pubblicitaria sia riuscito in un sottoscala del centro di ricerche di mercato in cui lavorava a fare per la SLA più di quanto siano riuscite a fare oggi tutte le ricerche del mondo.
Potrei azzardare l'ipotesi che è difficile che un docente che ha depositato la richiesta di brevetto possa avere come avversari quelli che legano le cure ai brevetti.
Ma ogni volta che ipotizzo una partenza di ragionamento mi ricordo che è del popolo della piazza che stiamo parlando e il mio problema è che quel popolo lì lo vedo sempre più come un cancro che si espande nel corpo nazione senza apparente possibilità di controllo e cura.
Sarà quello che mi blocca.