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13 agosto 2017

Uomonologo

Mario in quegli anni era un numero di telefono e poco più, numero d'emergenza a disposizione di chiunque si trovasse nel raggio dell'onda d'urto generata dal quotidiano esplodere dell'inferno di Mario Bros, squadra di recupero pronta, una notte il pavimento di una sala, una notte di un bagno, una notte un letto, l'uomo rotto non si premura di scegliere posti nei quali cadere, qualsiasi teatro con le medesime quinte è lo stesso teatro, replica infinta, per platea la pietà, qualche volta l'amicizia, li raccolgo io i cocci, potete continuare, grazie e alla prossima, sipario.
La parte negli anni imparata a memoria prende possesso del tempo e lo rende infinito, dissolto il confine tra ieri e oggi la parola si fa primo attore richiamato da invisibili leve che nessun tempo potrà disattivare, va in scena senza invito alla sola vista di un pubblico ignaro del ruolo che sarà chiamato a svolgere, numero d'emergenza pronto all'onda d'urto non più di Mario Bros, squadra di recupero per Mario oggi, un letto, un risveglio, la luce di una nuova finestra al mattino, una bussola o chi ne fa le veci, la vergogna di scoprirsi nudo e ferito, il costume da supereroe abbandonato a terra, l'uomo che la notte volava è precipitato, visibilmente precipitato, maldestramente precipitato, qualcuno ne ha raccolto i cocci e deve aver dato loro anche un bacio o almeno l'essere ancora vivo questo lascia supporre, la memoria come sempre non sa dire, la vergogna come sempre preferisce non decidere.
Quando Mario dice che esistono luoghi in cui si sente libero di essere se stesso non parla di uno spettacolo bello da vedere, per quello lo dice piangendo, l'ultima cosa dignitosa che ricorda prima che una doccia cercasse di fare ciò che gli anni non riescono.
Mario è solo perché sa che il copione questo prevede perché lo spettacolo non muti in tragedia, ha'dasta'sìt, sobrio nei limiti, presente se necessario, assente se d'intralcio, bello, onesto, se serve emigra australia.


29 ottobre 2016

Non dirgli mai di come è stato bello quella notte al mare

Se questo fosse il vecchio blog stasera porterei tra queste righe tutti i suoi personaggi, per raccontare loro dei cerchi che mi hanno aiutato ad aprire, attraversare e qualche volta chiudere non sempre come avremmo voluto e a volte meritato, altre volte sì.
Mario l'altra sera era insieme a Mario Bros come spesso capita da quando Mario se n'è andato da Milano, il suo lavoro di supereroe sempre in viaggio gli ha insegnato che le distanze non esistono se non nella mente, ogni altra è solo una scelta, una voglia, un metro che puoi moltiplicare per un milione sempre un metro resta e il Per (enne) che fa variabile è quell'istante della vita in cui realizzi che fare un metro e non farlo sono scelte separate solo da un foglio con due colonne, nella prima gli errori commessi, nella seconda lo stesso elenco ma a forma di nomi e il titolo Amici persi per stupidità, perché da giovani ci si pensa capaci di tutto e bisognosi di nessuno e quanto quella sensazione sia il titolo della prima delle due colonne lo si scopre quando l'elenco non potrà mai essere recuperato per intero.
Torino e Milano sono un'unica città, in una vivo nell'altra esco la sera, chi l'avrebbe detto sei anni fa che mi sarei trovato oggi a prendere treni per passare le serate con mio fratello, un passaggio da lei oggi che quel passaggio non ha più un prezzo, accompagnare a casa l'amico dopo aver finalmente accettato i suoi mille inviti per la voglia di raccontarmi cosa fa oggi che ha scelto di fare il salto, andare a leggere nel mio pub abituale che in sei anni non è riuscito a farsi sostituire da analogo torinese e allora cosa si fa, non si può non uscire, si prende un treno e si va a bere una birra a Milano nel pub più familiare del mondo, la città è un'unica città molto grande come nei sogni di chi le progettò entrambe pensando che un giorno si sarebbero espanse così tanto da unirsi ed eccoci qua, è successo.
Mario Bros mi chiede perché non torni a Torino la sera finite le riunioni così risparmierei ristorante e albergo, gli rispondo che se non lavorassi per pagarmi quello che desidero non avrebbe senso il sacrificio che mi richiede e dato che quando esco con lui sto bene fermarmi dà un senso al mio lavoro, ne è felice e lo capisco perché non lo esterna, mezz'ora a offrirci mezzo bicchiere di rhum mi saluta e va a dormire, io mi fermo a godermi la bellezza; quindici anni fa i birilli era erano gli stessi ma disposti esattamente all'opposto, esternava la felicità di stare con me, non lo era, io capivo fischi e bevevamo insieme decine di fiaschi, non dormivamo, morivamo ogni notte e chi non ci riusciva salvava l'altro.
Chiamerei Mario Senior per raccontargli come stia andando il progetto, la fatica di tenere insieme i pezzi, di lavorare sugli altri per impedire che il necessario tempo sommato a quello prevedibilmente imprevisto si faccia distrazione, dissuasione o cambio di direzione, di fare riunioni in cui alzarmi in piedi e recitare il mio show così che l'avvocato sappia, il socio capisca, vedere che l'unica voce dell'elenco dei problemi sembra incredibilmente l'entusiasmo di chiunque arrivato a fine performance scopre che davvero non esista nulla di simile a me in tutta italia e allora chi ci mette i soldi no grazie voglio solo i suoi, chi vorrebbe metterci la sede no grazie dev'essere Torino, chi ci metterebbe la sua assistente e parliamone perché l'ho vista, non mi stava ascoltando mi stava sposando, e quanto cambierebbe idea Mario Senior se vedesse dove si possa arrivare anche senza aver studiato, senza aver avuto nessuno, diavolo davvero nessuno, vicino negli anni in ginocchio a dirmi che ce l'avrei fatta a fare almeno una cosa nella vita come non la fa nessun altro.
Chiamerei lei che queste righe tanti anni fa abitò a forma di violenza, odio, buio della ragione e paura, per farle sapere che il tempo ci ha già perdonati e spiegati, per chiederle se quella foto scattata quindici anni dopo nel suo oggi è il suo racconto di direzioni inevitabili quanto il non poter uscire mai più da corpi amati nell'unico modo possibile e cioè oltre quel buio, oltre quella paura, così oltre qualsiasi ostacolo da raggiungere un cuore che quando ha provato a battere a sincrono non può più smettere di farlo, a meno di farlo rimettendo in scena lo spettacolo o chiudere il sipario e salutare il pubblico.
E chiamerei il Grande Regista Superiore, il personaggio dei personaggi, per chiedergli se sa che così come il mio perdono è arrivato il giorno del mio compleanno, quella foto, l'ho realizzato oggi, è arrivata il giorno del suo.
Domanda inutile, certo che lo sa, non sarebbe altrimenti il Grande Regista Superiore che innegabilmente è.
Quanto sa essere strana la vita quando non vuole smetterla di essere un film, un romanzo, una guerra e una pace.

Di nuovo auguri, Angela.
A te a a lui.


13 maggio 2015

Once were warriors

Siamo fuori dalla chiesa in attesa che arrivi la famiglia per il battesimo, mi chiede "Vuoi un caffé?" indicandomi il bar, gli dico che l'ho appena preso e che lo aspetto fuori, entra, si prende il caffé e il dolcetto sul piattino, esce e me lo regala.
"Dolcezze di Frolla" dice l'incarto.
In quell'istante lui Dolcezze, io di Frolla, quell'invisibile silenziosa forma che siamo riusciti a ridare al bisogno di esserci fratelli in quindici infiniti anni di fuga gambe nella palude nella quale per trenta siamo stati incatentati a blocchi di cemento ai piedi, perché nessun tentativo di abbattercelo abbia di nuovo materia e suono per farsi efficace.
Un punto di equilibrio per difendere il quale sono pronto a diventare potentissimo.



27 dicembre 2014

M'armo

"Il problema non è sostenere le proprie idee con la forza della convinzione, ma il modo e l'atteggiamento con cui tali idee e tale convinzione si manifestano in presenza (virtuale o fisica) dell'interlocutore.
C'è una differenza ENORME tra assertività e presunzione. Una differenza che non può essere semplicemente liquidata con la solita solfa degli occhi di chi guarda. Tu sembra che voglia ignorare o minimizzare la dimensione umana del tuo interlocutore. Prima ti renderai davvero conto di questo fatto, meglio sarà sia per te stesso che per le persone che ti vivono accanto".


Trovata in rete in conversazioni che non mi riguardano, me la appunto qui in attesa di un marmista che me la scolpisca in quel dolmen che mi porto appresso da una vita il cui peso cerco, involontariamente, di ridurre condividendolo con braccia che vorrebbero abbracciarmi e io invece uso come  sostegno di un peso che non chiedono, non desiderano, non meritano e con le quali non mi scuserò mai abbastanza, considerato che quando il peso è quello e la fatica è quella, le occasioni per farlo saranno sempre meno di quelle che servirebbero per rendere quelle scuse accettabili anche da chi le riceve.
Ci sono giorni nei quali sono fragile come argilla, quelli nei quali lo specchio al mattino mi dice l'implacabile verità sulle conseguenze della fatica di essere ciò che sono e questo è uno di quei giorni.
Non sono una brutta persona, io lo so di non esserlo.
Ma so anche che la forma che ho è purtroppo esattamente quella e se solo fossi capace non di farne vedere una diversa ma la fatica che faccio per cercare di averla, una diversa, allora forse si vedrebbe non una forma diversa della quale purtroppo non dispongo, ma quella della fatica che faccio a non poter far altro che abitarci dentro con la comodità che si ha quando chiuso da decenni dentro una vergine di ferro.
L'orgoglio che mi caratterizza non è orgoglio di ciò che sono, ma orgoglio di essere riuscito a sopravvivere a me stesso.
So il come, so il quanto, certi giorni quello che mi viene meno è il perché e quelli sono giorni che si fanno davvero faticosi.

9 dicembre 2014

L'Oro due

Quando un figlio unico dice Amore parla di una cosa che ha conosciuto solo in parte.
Solo chi non ha fratelli può pensare sia incredibile morire d'infarto al funerale del proprio.



14 novembre 2014

Nel bene e nel male

Sono esattamente ventiquattro ore che mi sto chiedendo perché abbia rivelato uno dei miei tre segreti, da ieri sera due.
Non è una domanda che nasce da sensazione di pentimento ma di reale curiosità.
Cosa accade quando una cosa tanto intima e pesante da meritare anni di protezione, di conservazione dentro un bunker talmente blindato da riuscire a superare anni di tentazioni di cedere ad affetti profondi, amori saldati con la colla della sincerità estrema, relazioni basate sulla estrema confidenza, familiari ai quali si è offerta la rivelazione di momenti della propria storia paradossalmente più pesanti, più duri, più violenti, improvvisamente e senza motivo apparente scardina le cerniere di quel bunker ed esce così, inserendosi tra racconti di tacchi a spillo e gli anni della scuola?
Quale leva ha aperto la porta blindata da talmente tanti anni che ormai sembrava non essere più apribile più per un tempo ormai scaduto che per reale bisogno di perpetrata protezione?
Viene da pensare che possa essere il bisogno di liberarsi di zavorra ormai legata a una vita precedente di mille anni fa, la necessità di ridurre il carico sulle ruote, invece no.
Perché rivelare un segreto che si è visto offrire la fatica del silenzio di anni non significa liberarsi di quel segreto ma, all'opposto, riattivarlo.
Tenere una cosa chiusa nel profondo del proprio intimo, decidere un giorno di sigillarlo nel chiuso della scatola delle cose sulle quali non ci si porrà mai la questione dell'opportunità di riestrarlo è una scelta che solo apparentemente lo renderà pesante, nella realtà è un processo di sepoltura che ne disinnescherà gli effetti per tutti gli anni di occultamento, lo renderà parte di un passato ormai chiuso e con lui i suoni, i sudori freddi, la durezza e la paura.
Riaprire quel sarcofago non è una maniera per liberarsi, ma per liberarlo.
Sei di nuovo l'uomo che tanti anni fa fece quella cosa, non sei più leggero di quanto lo fossi prima di aprire la scatola, sei al contrario di nuovo pesante, anche solo per il tempo del racconto tu torni pesante come piombo e quel peso lo senti tutto, di nuovo.

Io non sono moralista per cultura, sono moralista per necessità, da quando a sette anni da solo ho dovuto decidere cosa sarebbe stato giusto e cosa sbagliato da quel momento in poi e per il resto della mia vita, sapendo che a quell'età non potrai che improvvisare e per questo, per ridurre al minimo le possibilità di errore, dovrai essere deciso e determinato nello scegliere e poi, qualsiasi scelta tu abbia fatto, portarla avanti da quel giorno in poi e per sempre, perché l'effetto protettivo della tua nuova morale non sarà dato dalla correttezza della scelta ma dal fatto che ne avrai fatta una, una qualsiasi.
Non che non avessi esempi accanto, ma un intuito già in grado di capire quanto quegli esempi fossero peggiori della mia più azzardata improvvisazione mi fece capire la necessità di scegliere da solo e sperare di averci preso.
Magari sbagliare è una licenza che una persona può concedersi in cambio dell'eliminazione della certezza di farlo.
Io sono un moralista, fiero.
Ho bisogno di sapere ogni giorno in quale esatto punto risieda il giusto e in quale lo sbagliato.
Non conta se siano davvero lì né conta praticarne solo uno o solo l'altro, è importante per me sapere che sono in un punto preciso entrambi perché questo si traduce nella quotidiana certezza che siano in punti diversi, opposti, che non sono nello stesso, non sono sovrapposti e quando pratico la parte sbagliata voglio saperlo, dev'essere una colpa, quando pratico quella giusta voglio saperlo, dev'essere un merito.
"Fai del bene dimentica, fai del male ricorda" dice nonna con la solita tranciante saggezza di chi sintetizza in una frase decenni di tentativi di arrivarci da solo oggi consegnatami con la speranza che sappia farne buon uso.
Perché ci sono momenti della vita nei quali senza accorgertene Giusto e Sbagliato iniziano progressivamente a spostarsi dal punto in cui stanno silenti e, come attratti, si fanno via via più vicini tra loro, più abbassi la soglia d'attenzione e più si avvicinano, più si avvicinano più il confine tra loro si assottiglia, più si assottiglia più smetti di vederlo nitidamente, non puoi, stai pensando ad altro, a respirare, aria buona o cattiva smette di essere una distinzione importante e respirare, qualsiasi cosa, diventa l'unica priorità, fare, uscire, smettere.
Il punto esatto nel quale Giusto e Sbagliato si toccano assumendo la stessa identica forma si chiama Disperazione, un istante in cui la sovrapposizione fa sì che il Giusto appaia sbagliato e lo Sbagliato assuma l'innegabile forma del giusto.
In quel punto esatto si diventa capaci di qualsiasi cosa.
Qualsiasi cosa.

Ecco cos'è stato ieri sera, ecco la risposta alla domanda iniziale arrivata come sempre a colpi di flusso di coscienza.
Sto facendo buon uso di quella nuova saggezza consegnatami.
Se fai del male ricordalo, ecco cos'è stato, accidenti.
Un segreto è un non ricordo, un non ricordo è una amnistia.
Rivelarlo è un indulto.
Sei libero uguale, più di prima, ma senza più l'ansia di esserlo cancellando il reato che solo l'amnistia dell'oblìo ti ha fino a oggi garantito.
Perché quando Giusto e Sbagliato si sovrappongono ciò che si genera non deve necessariamente essere pagato tutta la vita.
Ricordato sì, però.
E non sempre, non solo, con se stessi.



5 giugno 2014

Celsius 42 - Fahrenheit 39

Avevo pensato che invece di 42 avrei potuto scegliere di compierne 40, cancellando di netto gli ultimi due così da rimettere le lancette nel punto in cui ancora credevo alle favole.
Poi mi sono reso conto che se cancellassi gli ultimi due cancellerei anche quella notte in cui tra le tre e le quattro meno un quarto ho ripreso a credere alle favole e allora lasciamo tutto così, esattamente così, ogni giorno e ogni pensiero esattamente come e quando si è acceso.
E se tenere tutto così per tenersi le favole significa tenersi anche i momenti in cui finiscono, allora sia.
È vero, finiscono.
Però quegli istanti.
Cosa sono stati quegli istanti nei quali è sembrata a un passo dal diventare realtà.
Valgono qualsiasi drago.



31 maggio 2014

Il Mario è sempre stato di quaderno

Ieri sera ho impegnato una parte del mio 85% di possesso palla (efficace sintesi con la quale la mia gentile amica ha riassunto il tempo/parola che concedo a chi esce con me sapendo che avrei capito che la sua gentilezza l'aveva portata ad arrotondare comunque per difetto anche se non ha avuto il tempo di precisarlo) raccontando, tra l'analisi del voto M5S, la forma dell'amore eterno e una chiacchiera con il cameriere che come da tradizione è stato magneticamente attratto dalla voglia di mettersi a parlare con me e perché dovrei privarlo del piacere, la presenza continua del Grande Regista Superiore.
Aneddoti, episodi, casualità innegabilmente poco casuali.
Chiudo la nottata dedicando la parte rimanente di quel 85% a tutto ciò che su questo blog porta il nome, necessario per romanzare ciò che non può essere raccontato apertamente, di Mario e all'importanza di conservare la memoria di ciò che si scrive di sé, l'importanza di appartenere a un posto che parla della propria storia, dall'albero in quel momento accanto a noi dove Mario Senior parcheggiava la moto sulla quale mi attendeva, del balcone affacciato sulla macchina sulla quale eravamo seduti ieri sera e dal quale io, mille anni prima, ricevevo indicazioni di vita.
Un 85% speso a parlare dell'importanza della memoria e degli archivi, fondamentali nella politica come per la costruzione e il risconoscimento dell'identità personale.
Stamattina leggo in mail, tra le altre cose, di un progetto floreale che racconterà una storia d'amore lunga mille anni e per questo eterna.

Oggi scendo in cantina su richiesta di nonna per cercarle una bilancia nascosta chissà dove.
Apro scatole, sposto cassette, tolgo teli, trovo inaspettatamente quaderni, riconosco copertine, risento profumi, un tunnel spazio-temporale mi spara a velocità luce indietro di trentaquattro anni, sospendo la ricerca della bilancia, apro pagine, la macchina del tempo mi porta nel punto in cui stavo quando vivevo le cose delle quali parlavo la sera prima, apro a caso il quaderno, chiamiamolo archivio dei nonni, chiamiamolo identità, chiamiamola storia d'amore lunga mille anni,chiamatelo solo un colore, chiamatelo Mario, chiamatelo destino, chiamiatelo come volete, io lo chiamo Grande Regista Superiore e queste sono le cose che fa.



Update:
Il giorno dopo, oggi, la bilancia viene trovata da nonna che però mi chiama perché, dice, visualizza dei numeri strani.
Vado a vedere, ci salgo, le dico no.
Che non sono numeri strani, è la batteria che va cambiata.
A lei che fosse sempre il Grande Regista Superiore che chiudeva il cerchio non mi sembrava il caso di dirlo.

La sostenibile leggerezza dell'essere





1 aprile 2014

Swan

Mario Bros da grande faceva l'attore, faceva lo speaker, faceva le mostre, faceva l'amante, faceva tutte le cose che si fanno quando si è belli, quando si è eleganti, quando si ha la voce profonda, quando si è capaci di portare il mondo ai tuoi piedi senza chiedere nulla, finché.
Finché il mondo una notte di tanti anni fa decise che quel confine oltre il quale c'è il punto di non ritorno era troppo vicino per non essere visto e allora sarà stato il buio, era notte, sarà stato l'alcool, era tanto, sarà stata la fatica, era decennale, ma quel confine non lo vide proprio e non solo per il suo essere segnalato poco e male, così quel punto di non ritorno venne oltrepassato quella notte in cui la vita improvvisamente nel giro di pochi secondi e pochi metri prese di peso Mario Bros lo sollevò in volo gli fece vedere tutto dall'alto e poi, lasciandolo andare, in un istante gli tolse tutto.
Anzi no.
Gli tolse quasi tutto.
Gli tolse la voce profonda, gli tolse la bellezza,  gli tolse l'eleganza, gli tolse gli strumenti, tutti in un colpo solo, ma non gli tolse sé stesso, quasi a dirgli Così basta, se vuoi in un altro modo potrai, ma non sarà mai più così e adesso impara un altro modo se sei capace.

Sono passati più di dieci anni nei quali Mario ha guardato Mario Bros stare in equilibrio su quel filo sotto il quale c'è il vuoto senza andare né avanti né indietro, immobile in mezzo al vento, alle tempeste, agli oggetti lanciatigli addosso e lui sempre sul filo in attesa di fare un passo, Mario a chiedersi come facesse a non cadere e cosa aspettasse a fare il passo quel Mario Bros che Mario sapeva capace di qualsiasi passo, Mario a sbagliare a fare il tifo quando era necessario il silenzio e a stare in silenzio quando era necessario fare il tifo, Mario raramente non sa quale sia la cosa giusta e quale sia il momento giusto ma con tutti tranne che con Mario Bros con il quale è riuscito a sbagliare quasi sempre sia la cosa che il momento e per questo Mario gli stessi anni li ha passati su un filo parallelo altrettanto sottile, altrettanto sospeso sul nulla, a cercare di stare in equilibrio anche lui ma finalmente non per emulazione bensì per ammirazione e, dopo i primi anni interamente sbagliati, in silenzio.

Esiste una sola persona al mondo di fronte alla quale Mario ha imparato a stare in silenzio e quella persona è Mario Bros e vanno a cena, escono, si incontrano e finché Mario Bros non parla Mario non parla, se Mario Bros sta in silenzio Mario sta in silenzio e Mario Bros l'altra sera dice a Mario che accadrà una cosa che non accadeva da più di quindici anni e che quella cosa lo spaventa, lo spaventa tanto ma la vuole fare e dice a Mario che vorrebbe lui ci fosse, che vorrebbe saperlo seduto in sala.
Mario ci sarebbe andato anche a piedi e infatti ci è andato a piedi convinto di essere solo e invece c'erano tutti e ognuno di noi ha messo in pausa la sua vita e le sue guerre per essere lì, tutti, insieme, o quasi, e per una volta siamo stati tutti nello stesso posto con il destino a occuparsi di farci sedere così come ci vogliamo bene, i più vicini vicini il più lontano lontano senza che nessuno l'abbia dovuto far accadere, ma tutti lì, tutti un po' commossi, tutti impegnatti a non farlo vedere, ciascuno con i suoi dieci anni dentro il cuore e forse più paura di lui ma pronti a saltare sul palco e salvarlo se il mondo gli fosse crollato di nuovo addosso.
Non gli è crollato addosso e Mario si ricordava di cosa gli disse Mario Bros chiedendogli di esserci e lo disse a tutti gli altri che Mario Bros dopo voleva essere lasciato ai suoi amici, di non aspettarlo, non l'abbiamo aspettato, se non per tutti i dieci anni precedenti e cos'era un minuto in più o in meno, ha chiesto di lasciarlo, lasciamolo, saprà tornare a casa, se vorrà.

Mario non voleva stare da solo quella sera ma tutti erano da soli quella sera, insieme ma ciascuno da solo, e allora torna in albergo da solo, va a mangiare da solo, Mario Bros diceva di non voler stare da solo quella sera e invece torna a casa da solo, a mangiare da solo, ciascuno degli altri torna a essere quello che siamo sempre stati tranne quella sera e cioè tanti da soli, mentre Mario entra in albergo saluta il custode che gli dice Mario vuoi il riscaldamento? No grazie, davvero a posto così stasera, entra in camera, gli suona il telefono, è un messaggio, è ora della femmina quella e Mario si veste da risponditore di messaggio della femmina e prende il telefono e apre il messaggio e non era la femmina, era Mario Bros che come sempre parla per per primo e scrive per primo e scrive una delle cose più belle che Mario Bros abbia mai detto e l'ha detta a Mario, di notte, dopo quel palco, dopo quindici anni di silenzio o del suo opposto sbagliato, dopo l'inferno, quattro parole e il mondo intero dentro, era tardi ma voleva dirgliele, non parla mai Mario Bros se non vuole dire una cosa in quel momento e per questo non era tardi, non è mai tardi, è stata la cosa giusta, è stato il momento giusto, Mario Bros li ha sempre saputi scegliere meglio di Mario e nessuno saprà mai cosa c'era scritto, nessuno, mai, solo Mario, che le ha sempre sognate, e Mario Bros, che non le aveva mai dette.

Nessuno riuscirà mai a separarci, nessuno.
No, non erano queste le parole, queste sono quelle con cui io sono andato a dormire.
Ho paura disse a Mario il giorno prima.
Anch'io, pensò Mario, da sempre, ma poi alla fine il mondo continua ad applaudirci e noi siamo ancora in piedi a testa alta, senza mai perdere quella paura così che ogni giorno allo specchio possiamo ricordarci coraggiosi, pronti a cadere da qualsiasi altezza ma fieri, per scelta, quelli come noi possono cadere solo per scelta.

Quanto era grande su quel palco.
Pesantissimo eppure volava.
E noi con lui.
Ciascuno all'altezza dei propri intimi sogni.
Quando dopo questi quindici anni quello sul palco era lui e quelli seduti a stringere i pugni eravamo noi, la vita si compie.






12 novembre 2013

The Brù switch project

Per la generazione di nonna era tradizione, alla nascita dei maschi, imbottigliare del vino da invecchiamento da aprire il giorno del militare o del matrimonio.
E niente, un esempio come un altro di qualcosa che con gli anni migliora.
Ne ho una decina, la guerra è finita, ci si ubriaca e si fa l'amore come fosse sempre il 26 aprile '45.
È una proposta.



19 ottobre 2013

Pensieri in silenzio al tavolo sei

Mario da piccolo aveva una locanda.
Era una locanda che si chiamava I Pensieri e si trovava alla fine di una strada in salita che si chiamava La Strada in salita e portava fin sulla cima di una collina e proprio lì Mario aveva deciso di costruire la sua locanda quando lì c'era solo la collina e non c'era la strada e non c'erano le case e non c'era nessuno e allora Mario decise di costruire la strada perché il giorno che arrivò la prima volta durante uno dei suoi tanti viaggi e si trovò davanti la collina, si fermò a guardarla per un giorno intero e poi una notte intera e poi una settimana intera e poi un mese intero e poi un anno intero e poi tanti anni interi che durarono tutti un istante però intero.
Mario era piccolo e non aveva ancora imparato a girare intorno agli ostacoli perché quando dovette partire la prima volta per iniziare a viaggiare aveva fatto in tempo a imparare solo ad andare dritto e per quello viaggiava sempre senza fermarsi mai perché sapeva andare solo dritto e così tornava a casa solo ogni volta che completava almeno un giro del mondo e allora il giorno che arrivò di fronte alla collina dopo averla guardata per un istante di anni intero decise che avrebbe costruito la strada per andare dritto, che era l'unica cosa che sapeva fare insieme all'altra cosa che sapeva fare che era costruire le strade che gli servivano per l'altra cosa che sapeva fare che era andare dritto e insieme le due cose che sapeva fare si chiamavano viaggiare e si fermava solo quando per andare dritto doveva costruire la strada che lungo il suo viaggio dritto certe volte non trovava e allora doveva farla lui.
Mario allora iniziò a costruire con le mani la nuova strada per poter andare ancora dritto nel suo viaggio oltre la collina e dato che usava le mani le sue strade erano lunghissime ma strette che ci passava solo una persona alla volta e quando arrivò in cima alla collina si fermò a riposare e dato che si era fermato riuscì anche finalmente a guardarsi intorno scoprendo che dove era arrivato c'era una vista bellissima così bellissima che non si sentì per niente stanco per il lavoro di costruire la strada e questo lo pensava ogni volta che per andare dritto doveva costruirsi la strada da solo.
Seduto sulla cima della collina felice per la vista bellissima così bellissima, arrivò il momento di dare un nome alla nuova strada in salita della quale era così fiero che, perché tutti la conoscessero come l'aveva fatta, chiamò La Strada in salita.
Le strade di Mario erano strade che prima di Mario non c'erano e dopo sì ed erano strade che prima non c'era nessuno perché non c'era la strada e dopo quando lui la costruiva e le dava il nome allora improvvisamente comparivano anche le persone perché finalmente c'era la strada e aveva un nome per indicarla a chi cercava la strada.
C'era la Strada Buia che era quella per chi sapeva andare avanti solo se non vedeva, la Strada Maestra che era quella da imparare, la Strada Sbagliata che era quella da sbagliare, la Strada Interrotta che era quella senza fine, la Strada Giusta che era quella da aggiustare.
Mentre Mario era seduto sulla cima della collina a guardare intorno e a fare i pensieri bellissimi di intorno bellissimo, ora che aveva dato il nome alla strada che poteva essere indicata iniziavano ad arrivare le persone mandate lì a camminare dritti lungo La Strada in salita quando chiedevano la strada per la vista bellissima che finiva dove era seduto Mario immerso nei suoi pensieri e allora dopo un istante di anni Mario si trovò circondato da tutte le persone che avevano fatto La Strada in salita tranne quelle che erano tornate indietro e quelle che erano arrivate in cima alla collina erano affamate e in cima trovarono solo lui a cui chiedere se avesse qualcosa da mangiare ma lui con sé aveva solo i suoi pensieri e allora decise di aprire una locanda di pensieri e la chiamò I Pensieri, perché Mario per non sbagliarsi aveva imparato a chiamare le cose con il loro nome, le strade in salita le chiamava: la Strada in salita, la locanda dei pensieri: I Pensieri, Mario: Mario, così non si sbagliava perché per sapere come si chiamasse una cosa gli bastava guardarla per un istante di anni e sapeva esattamente come si chiamava come per esempio l'istante, che infatti si chiamava Anni perché era un istante.
Nella locanda I Pensieri si servivano i pensieri e chiunque entrava si sedeva e arrivava Mario e gli portava i pensieri che desiderava e per questo era una locanda silenziosissima perché si sentivano solo pensieri e per scegliere i pensieri bisognava solo pensare e Mario capiva cosa desideravi.
Se desideravi un amico Mario ti portava i pensieri amici, se desideravi viaggiare Mario ti portava i pensieri di viaggi lontani, se desideravi coraggio Mario ti portava i pensieri di battaglie vinte, se desideravi arroganza Mario ti lasciava a terra i pensieri di arroganza, se desideravi sicurezza Mario ti portava i pensieri sicuri, eri ne I Pensieri di Mario in cima alla Strada in salita sulla collina dalla quale c'era una vista bellissima così bellissima che quando ci arrivavi non ti sentivi più stanco.
Un giorno ne I Pensieri di Mario alla fine della Strada in salita arrivò una donna stanca e affamata per il viaggio e quando Mario andò al suo tavolo a pensarla sentì che desiderava una cosa che Mario non aveva ancora costruito perché si era fermato ad aprire la locanda dei pensieri per aiutare gli altri a ripartire e quella cosa era per questo una cosa che essendosi fermato mancava anche a lui anche se adesso lui aveva imparato a costruirla.
Mario la guardò negli occhi, capì e dopo aver chiesto agli altri ospiti il permesso di assentarsi uscì dalla locanda dalla parte opposta all'ingresso alla fine della Strada in salita e di fronte all'altro lato della cima della collina iniziò a costruire quello che mancava a I Pensieri e di cui entrambi avevano bisogno per riposarsi, superare l'ostacolo e proseguire il loro viaggio senza mai più faticare: la Strada in discesa.

A Maria.
A quando entrò ne I Pensieri di Mario e Mario nei suoi.



11 ottobre 2013

La mia è Sì

Io sono Mario, tu Maria e qualcosa di più eterno del nostro mondo eterno non riesco a immaginarlo.
Ho talmente paura di non trovare parole all'altezza, che per non rovinare tutto dalle mille che ho nel cuore ne estraggo solo una: Sì.
La mia è Sì.
Dalle il suono più bello che tu riesca a immaginare e poi alza l'asticella.
E' di più.
Tu mettici la musica, alle parole ci penserò io e dimentichiamo di spiegarci l'inspiegabile.



6 settembre 2009

Impressioni di Settembre

L'ho trovata in un vecchio archivio dentro un disco dimenticato da sette anni.

La data nel racconto è quella di quel giorno.
Mi fa abbastanza impressione letta oggi dopo tanti anni e così senza aspettarselo.
Ma credo che vista la data e il tema, sia roba di mio fratello.
Io non ricordo di averla scritta.
Né avrei potuto scrivere così di quel volo, e del suo prima, e del suo dopo.


Frammenti

Al mattino, Davide aveva rimosso l'incontro del giorno prima con Anna. Non ne ricordava quindi il volto, le mani e quelle piccole macchie color tabacco sul collo. Perfino le parole che gli aveva rivolto erano andate perdute, forse per sempre, in un brodo grigio e inodore che lui ancora si ostinava a chiamare memoria.
Gli era netta, però, la sensazione che qualcosa di nuovo era accaduto e che quell'evento aveva cambiato radicalmente il suo stato d'animo.

Prima di uscire prese con sé le chiavi della cantina, deciso a riparare la vecchia bicicletta Bianchi con freni a bacchetta che giaceva impolverata da sette anni nei sotterranei del palazzo.
Uscì dall'ascensore e già la cantina non era che un ricordo, si diresse verso l'edicola, del tutto dimentico che quello era il giorno in cui Marta Bonfanti, quando era in seconda elementare, gli aveva fissato la data di morte disegnando per lui una tomba e una lapide con sopra scritto il suo nome e le due date di nascita e di morte: 24 luglio 1970 - 18 luglio 2002.

Sorrise, mentre una Ford Escort lo travolse.
Sorrise mentre la sua memoria cancellava l'impatto e lo fece concentrare su quanto accadeva in quel singolo istante di tempo presente e non già su quanto era appena accaduto solo un attimo prima.
A tratti fu spaventato dal volo che stava facendo (non ricordava alcun balzo), dall'odore dell'asfalto (come poteva trovasi sdraiato per strada?), quasi rise vedendo il sangue che gli macchiava la manica e con distrazione considerò i frammenti di denti che gli rendevano il contatto tra lingua e palato inspiegabilmente antipatico.

Ora come ora si trovava a rivivere una vita spezzettata, meglio, viveva singole vite da un istante ciascuna, vite di cui la nascita gli era oscura e la cui morte era prossima a essere dimenticata per lasciare posto alla vita successiva.
Si trovava prigioniero inconsapevole di un loop e le cose non sarebbero state diverse dal solito: nessuno, infatti, faceva caso ai ricordi di una persona che non parlava realmente da 32 anni e che si nascondeva in considerazioni ad alta voce volte a mantenere quel normale contatto superficiale con il resto dell'umanità, quel tanto che bastava per non farlo dichiarare pazzo.



Così.
Da gelare il sangue.

Una vita in venti righe.

In risposta a tutti coloro che han sempre pensato che quello bravo a scrivere, tra i tre Bozza, ero io.
E' che non avete letto gli altri due, quest'è.


26 maggio 2007

Sciolze



Quando eravamo piccoli ci troveremo di nuovo sulla collina, io la sabbia, tu l’acqua, lui ci guarderà sorridendo indicandoci mattoni grandi, troppo grandi, io la sabbia infatti, tu l’acqua infatti, dove mai andremo, quando eravamo piccoli.
Farà caldo e andavamo al pozzo, che paura ma poi uscirà ancora fresca, fredda, quando eravamo piccoli sarà buona, cammineremo sul sentiero e sceglieremo la cameretta sopra i ciotoli e la sabbia e l’erba, eravamo piccoli la vedevamo era lì, io la sabbia, tu l’acqua, la cameretta poteva essere dovunque, la faremo, ci sembrerà possibile, eravamo piccoli, più piccoli dei mattoni, più grandi della cameretta, un legno disegneremo la finestra qui, la porta là, ci guarderà sorridendo, ci dirà sì, dove facevamo la cameretta.
Quando eravamo piccoli impareremo il cemento, dove eravamo rimasti il giorno che avevamo smesso, io la sabbia, tu l’acqua, lui i mattoni troppo grandi anche per lui.
Io, sai, ho imparato a costruire clessidre, qualcosa dovevo farmene di quella sabbia senz’acqua quando ci siamo lasciati quel giorno sulla collina, vedessi che belle, all’inizio non tanto oggi tanto, soffio il vetro con la sabbia già dentro, un pezzo unico, il vetro è sabbia prima, lo sapevamo, disegnavamo finestre sulla sabbia, infatti, oggi prendo la sabbia soffio intorno ma solo poco, quanto serve per rendere vetro un velo intorno, si chiamano clessidra, mi hanno detto segnano il tempo, non è vero, lo dicono quelli che non sanno ma se vuoi dimostrarglielo mostragli una clessidra e chiedi di dire quanto tempo è passato, non lo sanno, ti devono prima per forza chiedere quante volte l’hai girata, ti devono chiedere da quanto ce l’hai, ti devono chiedere se l’hai fermata, il sole segna il tempo, quando eravamo piccoli ci scalderà sul prato mentre disegnamo finestre e camerette.
Quando eravamo piccoli saremo figli, io porterò le mie clessidre e ti racconterò il segreto, ti dicevo “Guarda, guarda qui, che cos’è?” e tu mi dirai “Una clessidra, segna il tempo” e io ti dicevo “No, sono i piccoli delle finestre nella pancia della finestra mamma” tu mi dirai che tu avevi l’acqua.
Sei bravo, sai, con l’acqua, hai imparato a lavare tutto, a scavare solchi nella roccia, a far scorrere via i legni, le auto, le case, maniacalmente pulito, tutta quell’acqua del resto, qualcosa dovevi fartene senza sabbia, quando eravamo piccoli mi farai vedere il pozzo e mi dirai che hai imparato, ci sei stato, c’è l’acqua, tanta acqua, io ti dicevo “È fredda” e tu mi dicevi “Solo se la lasci lì, fuori c’è il sole, scalda oltre che segnare il tempo”.
Allora lo saprai e avevi disegnato le finestre, mi hanno detto che sono grandi oggi, lo sapevi che sono fatte di sabbia?
Non ci fossimo lasciati, quel giorno, oggi lo sapresti.
Quando eravamo piccoli lo saprai, andremo sulla collina dove c’è il pozzo disegneremo finestre sulla sabbia tu prenderai l’acqua nel pozzo ché io non ci sono mai stato e avrò paura tu non più, io prenderò tutte le mie clessidre, le più belle, le appoggerò dove avevamo disegnato le finestre della cameretta, il sole scalderà il vetro, si scioglierà come acqua, i piccoli delle finestre scapperanno tutti fuori tu non ti tenevi più l’acqua tutta per te, la lascerai andare, dove avevamo disegnato le finestre tutto si unirà e nascerà la cameretta, avevamo a un passo dal nostro naso il cemento, quanti anni, quando eravamo piccoli ne avremo passati tanti, troppi, io sabbia, tu acqua, bravissimi a disegnare dove vorremo la nostra casa ma incapaci di costruirla.
È andata così, pazienza.
Di buono c’è che quel giorno anche lui scoprirà che cazzo farsene di tutti quei mattoni.
Era bravo, sai, lui con i mattoni, qualcosa doveva farsene, del resto, non stavano più attaccati quel giorno che ci siamo lasciati sulla collina io ho portato via la sabbia, tu l’acqua.
Andava in giro per le piazze e faceva l’artista di strada metteva una bilancia con i due piatti al centro, su uno ci metteva tutti tutti tutti i mattoni sull’altro si sedeva e la bilancia tornava in pari e tutti dicevano “Oooohhhhhh” e gli davano i soldi, aveva trovato il trucco era diventato bravissimo, non era vero che i mattoni che metteva sul piatto erano tutti, erano solo la metà, l’altra metà li aveva inghiottiti lui, pesava come la casa, dentro era di pietra, il bilancio era pari, io fragile come il vetro, tu svicolante come l’acqua, lui pesante, pesante come tutti i mattoni di quella casa sulla collina che un giorno che ci siamo lasciati ingoiò, l’avessimo seppellito intero pesante com’era avrebbe fatto un buco per terra profoooooondo di quelli quando eravamo piccoli che credevamo che se fai un buco profooooooondo esci in Cina, dalla terra, come i fiori.
Pensa le facce.
"E questo che cazzo è? Una casa?"
"No, un suiseki grande quanto, una casa"
Quel giorno saremo finalmente piccoli come non lo siamo mai stati, se escludiamo quel giorno che dopo aver disegnato la casa per terra, ci lasceremo per sempre.


28 giugno 2006

Cartoline

Sei lontana.
Come quelle cartoline trovate sulle bancarelle dei mercatini d’antiquariato consumate da passaggi di mani non nostre, dietro le quali Maria scriveva a Mario “Presto ancora insieme” e leggendole provi per un attimo l’istinto di chiedere quanto costa, quella cartolina, quelle parole, quanto costa essere quel Mario che un giorno fu sogno per Maria, meta, orologio, calendario con il giorno del ritorno segnato da un cuore rosso e due piccole emme vicine, di nuovo, presto, ancora.
Maneggi quella cartolina cedendo al desiderio di far finta che davvero basterebbero pochi centesimi per trasformare quelle parole in parole per te, che non sei quel Mario, che non lo sarai presto e forse non lo sarai mai, che non puoi dire ancora, no tu oggi non lo puoi dire quell’ancora, a quella Maria che non diceva a te e nemmeno al passante dopo di te che con lo stesso tuo desiderio sognerà di comprarsi forse un figlio che lo saluta dal fronte, magari una nonna che dalla montagna abbozza un tremolante “Cari saluti al mio nipotino”.
Metti le mani in tasca sperando che il destino di non avere quei centesimi ti sollevi dalla scelta consapevole di sottrarti alla delusione di leggere parole non tue, immagini non tue, pensieri non tuoi.
Speri di non averli, quei centesimi.
Ma l’uomo della bancarella ti ha visto maneggiare quella cartolina e ha deciso di regalartela, non sapendo che così non ti fa affatto un favore.
Lui crede che tu desideri quella cartolina, magari pensa che le collezioni, ti considera un possibile esperto, forse anche di francobolli, e si sa, gli uomini delle bancarelle sanno investire e una sola cartolina regalata può significare tante cartoline comprate o forse solo i francobolli, qualche centesimo che il tempo trasforma i molti soldi, o soltanto in trasportatori di parole non nostre ma acquistabili sulla prima bancarella di un mercato di antiquariato.
Questo pensi tu mentre guardi il venditore attendere un tuo cenno.
“Mi ha scritto Maria! Mi ha scritto Maria!” urleresti ai tuoi amici il giorno stesso tutto gonfio di orgoglio con la tua cartolina in mano a testimonianza del fatto che tu puoi essere il suo Mario, che potresti essere la sua meta, il suo cuore sul calendario, il suo ancora.
Hai ancora le mani in tasca a cercare quei pochi centesimi che ti separano da lei e dalle sue parole quando un pensiero ti attraversa la mente, forse il cuore.
Perché quella cartolina è su quella bancarella?
Perché non è in una scatola, chiusa in un cassetto a casa di Mario, tra un fazzoletto profumato e un biglietto di un viaggio non timbrato?
E se fosse lì perché Mario non l’ha mai ricevuta?
E così in un istante quei pochi centesimi che per un attimo ti hanno fatto credere di poter avere, ancora, Maria, si trasformano in pochi centesimi che impedirebbero a quella cartolina di proseguire il suo viaggio, magari Mario è proprio il passante che dietro di te sta aspettando il suo turno per sfogliare le cartoline sulla bancarella, magari riconoscerebbe la calligrafia, magari scoprirebbe che la delusione che da anni si porta dentro da quell’ultima volta che la salutò ha dietro soltanto un indirizzo trascritto male.
Tu ci pensi, mentre le tue mani scoprono al tatto la presenza di monete sonanti in tasca, pronte a rubare quello e chissà quanti altri sogni, al suo legittimo proprietario.
Altro che centesimi, sono pesanti le monete che senti in tasca.
Accumulate in anni di precedenze concesse.
Ma tu non sei Mario, lo sai, e quel presto, quell’ancora, quell’insieme, non erano per te.
E non lo diventano nemmeno se li paghi.
Lo sai, anche se ogni tanto fai finta di dimenticarlo lo sai che Mario è il prossimo passante dietro di te, è il passante che se n’è appena andato con le sue belle cartoline non comprate ma ricevute, con il suo nome scritto bello chiaro accanto a quel “Presto ancora insieme”.
Di questo si, sei esperto.
Del togliere le mani dalla tasca fingendo di non aver trovato nemmeno spiccioli scusandoti con il venditore per avergli fatto perdere del tempo e scusandoti per aver occupato per un attimo uno spazio non tuo con il passante prima di te e quello dopo di te, che a differenza tua non vestono la certezza di non essere i destinatari di quella cartolina e che per questo meritano di provare a prenderla tra le mani, a poggiarci sopra gli occhi, per vedere se riconoscono la calligrafia, se la associano a biglietti di natale, a tovaglioli di carta lasciati accanto al caffè con un “Buongiorno amore” scritto di corsa prima di uscire mentre tu dormivi con un sorriso ebete sulla faccia figlio di una notte di ancora, di insieme, a biglietti di auguri per il compleanno, a promesse scritte sul vetro dell’oblò di una nave, a un “Ti amo” scritto con il rossetto sullo specchio del bagno che ancora, dopo anni, nonostante la pulizia decisa si intravede quando si appanna, per consentirti di confrontarlo con le cartoline di ogni bancarella di ogni mercatino dell’antiquariato di ogni piccolo paese del mondo.
Ma il venditore ti guarda, capisce che stai per allontanarti, che stai per rinunciare e ti porge la cartolina dicendoti “La prego, la prenda lo stesso, glie la regalo, basta che me la tolga da questo banco”
“Non posso” gli dici “Non sono io Mario”.
“Lo so” ti risponde lui “sono io”.

Che stupidi, noi uomini.
E tu che bella che sei, Maria.

27 maggio 2006

Rosso

Il mercoledì sera c’era l’abitudine di trovarsi nel piazzale della stazione.
Non era facile divertirsi, perché non c’era il cinema, non si suonava in piazza, i ristoranti chiudevano a ore pasti per una diffusa forma di lotta politica inventata dai camerieri che dalle dodici e quindici alle quattordici tutti insieme come squadre di nuotatrici sincronizzate si sedevano al primo tavolo che si trovavano davanti e mangiavano ciò che c’era nel piatto del cliente perché sostenevano che la pausa pranzo è un diritto sindacale oh avessero mai trovato un cliente non d’accordo che si lamentava.
Anche perché per questo motivo era abitudine di tutti i camerieri di servire ogni cliente (fino alle dodici e quindici) come fosse un re, non tanto per una forma di rispetto e di riconoscimento del valore del cliente, quanto per il fatto che alle dodici e quindici, se avevano sputato in un piatto, quello si mangiavano e non potevano nemmeno sporgere denuncia alla uesseelle perché vagli a spiegare.
Così i clienti non dicevano nulla perché “si vabbè il cameriere avrà anche commesso un errore, ma per una motivazione giusta” difficile venirne a capo.
Non si poteva nemmeno più contare sul mercato della domenica, per farsi quattro passi, perché i venditori ambulanti ne richiedevano ben di più per star loro dietro.

Mario di questa cosa se ne rese conto quando un giorno al mercato rimase impigliato nel filo di un bellissimo palloncino di quelli con le orecchie che se li sgonfi leggermente la plastica fa quel capezzolo in cima che te li fa sembrare due tette e per questo gli ricordava lei e dopo quella volta che la perse, ogni volta che vedeva un palloncino con le orecchie dal quale pendeva un filo ci si attaccava e non lo lasciava più andare.
Una di quelle volte fu la sua prima esperienza di tampacs.
Mica l’aveva capito che quella non era un palloncino a forma di tette ma una donna vera, non sai le risate in strada quando questa cominciò a correre e lui che cercava di restituirglielo per gentilezza.
Poi lei si fermò lui la raggiunse, senza fiato le disse “Non pensavo di averti fatto così male”.
E lei scoppiò a ridere e gli insegnò a fare l’amore nel sangue.
Accidenti quant’era più intimo.
Lui mica l’aveva mai fatto così.
All’inizio qualche remora tipica maschile, come quando una donna facendo sesso cerca di metterti un dito nel culo e tu sei pronto a saltare in piedi sul letto gonfiando i muscoli (che non hai) per dirle “Ehi ma per chi mi hai preso per un finocchio?” senza sapere che se glie lo lasci fare non significa che sei finocchio ma che l’ami e soprattutto se glie lo lasci fare godi e ne-mme-no-po-co.
E in più l’ami.
Pensaci, uomo, perché poche altre cose sono cariche di piacere come dare il culo alla donna che ami.
Perché in testa c’hai un blocco ma dal culo parte un proiettile con la faccia strafottente della donna che ami che ti disintegra quel blocco manco fosse uranio impoverito ma fidati è atomico, ti attraversa la spina dorsale e arriva dritto dritto al cervello o a quello che ne rimane.
Una di quelle poche altre cose è farci l’amore quando ha le mestruazioni.
È caldo.
No no, lo so cosa stai pensando, uomo.
Più caldo.
Da brividi.
Ti sembra di fare l’amore senza mai uscire dal suo corpo.
Nessuna posizione ti darà mai questa sensazione.
E poi sono giorni nei quali tu non pensi possa capitare.
Riscopri la trasgressione.
Mica per l’azzardo sessuale, ma per la regola che non c’è più.
Ebrezza.
Si-può-faaaa-re.

Mario per questo si appendeva a tutti i palloncini e un giorno rimase impigliato in uno un po’ più grande di lui che lo sollevò così di quei pochi centimetri sufficienti per staccare i piedi da terra facendogli scoprire improvvisamente che non era lui che stava fermo ma il mondo che girava la strada girava le case giravano le persone giravano il mercato girava e scoprì così che non era il mercato a fermarsi ma erano i venditori ambulanti che avevano davanti i clienti ambulanti e i passanti ambulanti e certo che sembrava tutto fermo ma appena staccavi i piedi da terra lo vedevi che tutto girava e spariva all’orizzonte restavi tu e il palloncino e quel filo che vi univa.
Quando non c’era il palloncino, Mario tornava a terra e il mercoledì si trovava con gli amici nel piazzale della stazione perché non essendoci cinema né ristoranti né musica si era inventato questo nuovo divertimento.
Praticamente si andava tutti alla stazione il mercoledì, giorno di arrivo del treno dalla città accanto dove c’erano i cinema e i ristoranti e la musica, e si passeggiava accanto ai viaggiatori pendolari e si ascoltavano i racconti.
C’era la volta che ti andava male e ti capitava un viaggiatore noiosissimo che pure se si spostava si portava dentro la sua noia e per questo quando scendeva dal treno non aveva nulla da raccontare e guardava per terra e rifaceva a mente l’elenco degli impegni del giorno dopo, il medico, mezz’ora in palestra, la spesa, le commesse, il lavoro, grazie a dio è mercoledì, diceva, intervallando ogni voce.
Però c’era anche la volta che ti andava bene e scendeva lei.
E allora la sentivi telefonare per raccontare cose belle, divertimento, musica, mangiato bene mamma, si ha piovuto ma ci siamo divertiti lo stesso, grazie a dio domani è giovedì e venerdì posso tornare.
E anche se tu non potevi andare ti sembrava sempre di esserci un po’ appena tornato anche tu, quando ti capitava una viaggiatrice o un viaggiatore contento.
Come si guardano i documentari sui viaggi.
Chi c’è stato in Australia?
Quanti saprebbero descrivere un canguro?
Ecco, il mercoledì ci si divertiva così.

Questa è una lettera d’amore in codice e il codice usato ha il nome in codice (è un codice, non può che avere un nome in codice) di “AnImA gEmElLa” (sono case-sensitive) e si intitola “Questa è una lettera d’amore in codice, se non ci hai letto nulla vuol dire che non è per te, ma se appena appena ci hai capito qualcosa vuol dire che hai tradotto il codice e sei il mio contatto in loco e preparati perché ti amerò per sempre e farò l’amore con te trentuno giorni al mese pure a febbraio, solo, per favore, non incazzarti se mi dimentico il tuo compleanno, ah già, ma che scemo, sei la mia AnImA gEmElLa, pure tu ti dimenticherai il mio pensa che bello, solo far l’amore” sottotitolo “Yippi-yaaaaa!!!!!”.

19 marzo 2006

Un due tre stella

Mario una volta aveva capito come si saltava, era diventato bravissimo.
Sapeva saltare il pranzo, aveva imparato a saltare la scuola, già da piccolo era portato per il salto di fiore in fiore.
Qualcuno gli diceva anche che da grande poteva fare il saltatore di palo in frasca, che anche lì ci aveva le attitudini.
Tutti lo fermavano per strada e gli chiedevano “Ma come fai? Ma come fai? Dicci anche a noi come fai!”
Lui però il segreto non lo diceva e tutti dicevano che non lo diceva perché era un segreto segretissimo che gli aveva detto una signora vecchia che faceva i tarocchi e un giorno gli disse “scegli un tarocco” indicando i tarocchi tutti disposti faccia in giù su un tavolino fatto a mano con pezzi di piastrelle colorate e lui scelse e lei girò il tarocco e vide che era “Il saltatore” ma che era capovolto e lei gli disse “Allora non mi devi pagare e non me lo puoi più restituire” e lui da quel giorno ogni volta che doveva pagare tirava fuori il tarocco del saltatore lo girava e diceva “Devi pagare tu me” e tutti che conoscevano la leggenda della signora vecchia che non si era fatta pagare (tutti avevano un po’ paura della signora vecchia) gli dicevano di si e lo pagavano.

Lui questa cosa della leggenda della signora vecchia l’aveva sentita per sbaglio in un bar un giorno che era andato a prendere un bicchiere di vino e in fondo al banco aveva sentito un signore che bisbigliava al signore accanto “Ecco, lo vedi quello? È quello che non deve pagare mai perché se no qui salta tutto! Nemmeno la signora vecchia ha voluto i suoi soldi” e dato che quando poi era andato a pagare il signore dietro il banco gli aveva detto “No, lasci stare, a posto così” lui aveva deciso che questa cosa della leggenda non l’avrebbe mai smentita perché tanto non l’aveva inventata lui e quindi non si sarebbe nemmeno sentito in colpa, erano gli altri che decidevano da soli di non fargli pagare mai niente, non vedeva motivo per star lì a puntualizzare.
In realtà la leggenda era nata perché un giorno un signore lo aveva notato mentre provava i suoi salti in mezzo alla strada e gli aveva chiesto “Cosa stai facendo, piccolo bambino” e lui gli aveva risposto “Salto! Grande signore” “E cosa salti, piccolo bambino?” aveva aggiunto il signore “I grandi signori” disse lui “Ma i signori grandi sono molto più alti dei salti che stai facendo, piccolo bambino” insistette lui “È per quello che mi sto allenando” rispose lui “E perché li vuoi saltare?” incalzò il grande signore “Perché devo passare anche se non si tolgono” disse il bambino “Allora io sto qui finché non riesci a saltarmi” minacciò il signore e il bambino senza nemmeno fargli finire la frase fece un balzo e gli passò dietro.
Quando il signore si voltò per sapere come avesse fatto, il bambino gli rispose “Avevo detto grandi signori” con quella faccia lì che hanno i bambini quando vogliono fare un dispetto e il signore, indispettito per l’offesa, andò via e da quel giorno raccontò a tutti la leggenda della vecchia signora per non ammettere che quel bambino l’aveva saltato con le sue sole forze.

Il bambino intanto aveva fatto così tante prove che alla fine era diventato bravissimo e aveva scoperto un nuovo salto: Il salto con l’ansia.
Il salto con l’ansia era quello che aveva imparato quando aveva l’ansia di essere grande come i grandi signori e allora quando ne vedeva uno gli correva in contro e facendo leva sulla ansia faceva il salto e quando arrivava al punto più alto della curva bloccava l’ansia (faceva una mossa che aveva scoperto e che sapeva fare solo lui) e rimaneva lì a quell’altezza a mezz’aria così era alto come i grandi signori.
L’aveva fatto così tante volte che non si accorse che non aveva mai smesso di allenarsi e se ne accorse un giorno quando in strada vide un grande signore ed era grande come lui ma prima di iniziare il salto e allora non fece più il salto con l’ansia.
Il signore era lo stesso che tanti anni prima gli aveva detto che lui era più grande dei salti che sapeva fare il bambino e che non l’avrebbe mai raggiunto.
Dato che tutti avevano visto Mario fare quei salti lì per tanti anni, finirono con il voler provare tutti e prova e prova e prova alla fine nel paese diventarono tutti atleti come Mario e il sindaco del paese decise che allora quell’anno si sarebbero tenute le prime olimpiadi delle cose che stanno nel cuore.
Si iscrissero tutti i giovani del paese e anche il signore quello che era stato saltato da Mario.
Voleva battere Mario e dimostrare a tutto il paese che era lui il migliore.
Durante le gare le selezioni portarono piano piano a eliminare tutti tranne Mario e quel signore là che si ritrovarono così a fare le finali.
Le vinse tutte Mario.
L’unica che fu vinta dal signore fu il triplo salto mortale.
Lo fece perfetto.
Un due tre, ualà, morto.
Per questo a Mario toccò gareggiare da solo in tutte le gare successive.
Oltre alla gara di salto con l’ansia vinse la gara di lancio del fardello, il sollevamento mesi e la corsa a oracoli.
Mario durante la cerimonia di premiazione decise di rivelare al paese tutto la verità su quei suoi salti.
Calò un silenzio irreale in tutta l’arena.
Tutti avevano paura che parlasse della signora vecchia e che per questo sarebbe saltato tutto in aria.
Invece Mario stupì tutti, salì sul podio alto, allargò le braccia, guardò in alto verso il trampolino del triplo salto mortale e disse:
“Da oggi in poi, per un giorno all’anno tutti festeggeremo quel salto ma dovrà essere una festa” e per celebrare quel salto inventò apposta una nuova disciplina e aprì una scuola nella quale da quel giorno in poi i bambini del paese poterono andare a impararla.
Pochi la conoscono, ma questa è la vera storia di “Un due tre, stella”

A mio padre.
5 anni.

8 febbraio 2006

Tavolo vista ponte Milvio

Che poi in fondo sarebbe bastato capirsi, sui tempi, sui modi, sui perché meritavamo.
È un continuo riempirmi la casa di cose rapite.
La rivuoi? Non te la restituirò mai.
Finché tu non ridarai a me quello che ti sei portata via.
Dare avere avere dare.
È lì, nel cassetto e l’altra cosa è là sulla maniglia, a prender polvere.
La ragazza che viene a fare le pulizie deve averlo capito dai miei occhi, perché non c’è stato mai bisogno di dir nulla.
O forse voi donne vi parlate a distanza, forse le hai detto tu di non toccarla, o forse non l’ha toccata perché voi donne fate tutte le stesse cose e a lei è bastato guardarla per capire che tutto deve toccare tranne quella.

Era inverno.
Era inverno e faceva un cazzo di freddo che quest’anno in confronto sembra di stare ai tropici.
O forse è solo che non si passeggia più nel parco e in casa fa sempre caldo, quanto era freddo il parco sotto la pioggia.
Ci hanno fatto pure un film, giusto?
No, più di uno, un sacco di film nei parchi con la pioggia d’inverno su una cazzo di panchina, intorno c’era bambi gli scoiattoli due nani con la barba un cacciatore e la pioggia che non bagnava.
O forse è solo che sapevamo evitare le gocce, si camminava così senza meta, senza direzione se non quella tra una goccia e l’altra e allora perché alla fine l’ultima non l’abbiamo saputa evitare?
Mancava poco, mancava tanto così per arrivare alla fine del parco dove un albergo ci aspettava con asciugamani caldi e un piatto di spaghetti con le vongole e due occhi grandi una bottiglia di vino bianco bambi due scoiattoli i nani il cacciatore e quella cazzo di nuvola che continuava a seguirci.
Ma noi eravamo sotto la tettoia, non ci spaventava niente, nemmeno le nostre vite buttate all’aria e forse i camerieri certe cose le sanno perché il nostro stava lì, in disparte, a guardare quel siparietto che ogni sera allo stesso tavolo si riproponeva come un film.
Hanno questo, i camerieri.
Ti si affezionano per due ore e sanno tutto senza che tu gli debba dire nulla perché ogni sera viaggiano tra tavoli sempre uguali dove coppie di scoiattoli si giurano amore eterno e loro lo sanno che la sera dopo a quel tavolo ci saranno altri due scoiattoli che si giureranno amore eterno e forse è per quello che non prendono una sedia e non si siedono lì con loro a dire “State attenti, non cascateci, non giuratevi amore eterno, accontentatevi di un piatto di spaghetti con le vongole e di un buon vino, promettetevi al massimo un dolce, non andate oltre le prossime due ore è pericoloso, i giuramenti fatti a questo tavolo una volta usciti da qui non hanno valore legale, controllate il resto, rimandateci indietro il vino se non è buono, ma non giuratevi amore eterno perché la cucina chiude all’una e io non potrò sopportare di vedere andar via pure voi, come tutti gli altri, come sempre, perché vi giurate tutti amore eterno?”

Mario faceva il cameriere, in un’altra vita.
Conosceva le storie di tutti perché osservava ogni piccolo gesto.
Le coppie più solide erano quelle ai tavoli delle quali il vino finiva sempre, quelle uscite per noia si mettevano sempre vicine alla vetrina, amano guardare fuori la vita che passa le coppie annoiate, facendo una specie di sudoku con il colore dei vestiti dei passanti, se passa uno con la giacca blu lo amo ancora, se passa una con i capelli raccolti la amo ancora.
Mario aveva una passione personale per le coppie anziane.
Gli piaceva servire loro due portate perché gli anziani quando escono a cena gradiscono, gradiscono l’aria, l’odore di cucina, la gentilezza di quello che potrebbe essere loro nipote.
Ma più di tutte, Mario sapeva riconoscere le coppie che la sera dopo non sarebbero tornate.
Le riconosceva perché lui e lei si guardavano sempre negli occhi e si giuravano amore eterno.
Le coppie appena nate fanno sempre raffreddare la cena perché hanno tante cose da raccontarsi, Mario questo lo sapeva bene.
Aveva un sistema tutto suo per riconoscere le coppie appena nate.
Quando andava a prendere le comande controllava se lei o lui avevano qualcosa di buffo, una macchia sulla camicia, il prezzemolo tra i denti, quelle cose che chi ti sta di fronte ti fa notare solo se c’è confidenza.
Dopo un po’ di tempo tornava al tavolo con la scusa di sapere se tutto andava bene e controllava se il prezzemolo era ancora lì.
Se c’era, voleva dire che lui o lei non avevano avuto il coraggio di dire nulla e questo significava che la coppia era nuova e c’era quel timore di mettere in imbarazzo l’altro, imbarazzo al quale si preferiva tacere e conservare questo segreto, anche sapendo che bastava tornare a casa o andare in bagno o entrare in ascensore per far sentire cento volte di più il peso di quel prezzemolo a chi in quel momento si rendeva conto che era lì da tutta la sera e non mi hai detto niente e allora non sei l’uomo per me e domani non ci torniamo al ristorante perché io non voglio fare di nuovo brutta figura.
Ma noi avevamo Bambi e gli scoiattoli accanto e questo Mario non l’aveva mai visto.

Ci guardava come fossimo un coppia appena nata di anziani che gradivano, una cosa nuova per lui.
Per questo aveva sospeso il suo giudizio e il solito gioco a scommettersi la mancia col caposala non l’aveva fatto quella sera.
Diceva che tu avevi gli occhi troppo grandi per essere lasciati e io avevo un viso troppo sereno per dire qualcosa di sbagliato.
E gli spaghetti con le vongole non avevano lasciato tracce di prezzemolo.
“È un segno” diceva Mario al caposala che cercava di convincerlo che non esistono coppie appena nate che si giurano amore eterno e riescono ad arrivare alla settimana successiva, nemmeno se hanno Bambi e gli scoiattoli intorno, seppure anche a lui, in effetti, quelle presenze anomale qualche dubbio lo avevano fatto venire.
Avremmo dovuto alzarci da quel tavolo in quel preciso istante, per farci di nuovo seguire dalla nuvola giocando ancora a camminare tra le gocce.
Eravamo riusciti a farlo tutto il giorno, non avremmo dovuto aver paura di riprovare.
O forse soltanto non avremmo dovuto giurarci amore eterno, come diceva Mario, che poi si smette di saper camminare tra le gocce e sapessi come ci si riduce la faccia, quando le si prende tutte.
O forse tu lo sai, ero io che dovevo scoprirlo.
Ma in effetti anch’io già lo sapevo.
Solo, questa volta, ero convinto sarebbe andata in maniera diversa.
Sarà stata la presenza di Bambi, forse gli scoiattoli.
O forse che bella come eri quella sera al ristorante, mi parevi eterna.
T’avesse vista Mario nell’altra vita non avrebbe fatto il cameriere convinto che non ci si debba mai giurare amore eterno.
E forse, in questa, non sarebbe stato tanto stupido da perderti.

20 settembre 2005

E ti vengo a cercare

È che mentre sto in silenzio, penso che io nella vita non ho mai capito un sacco di cose.
Prima tra tutte, che tu vali quella cosa là, quella che ti cambia la vita.
E che qualsiasi silenzio tu riesca a ottenere da me, a levarti dalla testa proprio non ci riesco.
E che però forse sarebbe anche il caso che ti lasciassi vivere la tua vita, mentre io mi vivo la mia.
Figlio di puttana che sono.
Almeno finché non troverò il coraggio di venire da te.
Per sempre, intendo.
Consapevole che la porta la troverò decisamente, giustamente, definitivamente chiusa.
Sono sempre stato un'accozzaglia di parole inutili e niente fatti a seguire.
Tu, la cosa più bella che mi sia capitata negli ultimi anni.
Che frase banale, eh?

Arriverà un giorno nel quale smetterò di vivere la vita degli altri.
Ci sarà un giorno nel quale la stanchezza arriverà al punto che aspetto da tanto e mi farà fare la pazzia di cominciare a vivere la mia.
Niente promesse da film.
Niente “E ti vengo a cercare”.
Basta parole inutili e niente fatti a seguire.
Se ti trovo, bene.
Altrimenti sarai il mio più grande rimpianto e ciccia.
La tua.
Nelle grandi tette, nella gonna lunga.
In quel tuo dire “Bruno” mentre fai l’amore.
Spero solo quando lo fai con me.
Spero per te, intendo.
Anche un po’ per lui.
Vabbè, cazzi suoi.
Vedi?
Continuo a vivere la vita degli altri.
E intanto, così facendo, qualcun altro si vive la mia.
Tu.
Mi abiti dentro.
Termoautonomo, no perditempo.



A Mario,
Al giorno che partecipò al provino per "Ufficiale e Gentil Uomo"
foto di scena
esterno giorno
Mario capisce che ciò che deve fare è fregarsene di tutti e entrare nella lavanderia per prenderla in braccio e portarsela via per sempre.