28 marzo 2014

Tel chì help line

In vista del nobile ruolo che in quanto ospiti noi italiani, in particolare noi (ex) milanesi, svolgeremo nei mesi dell'Expo 2015, ruolo che ci porterà ad accogliere da padroni di casa i milioni di stranieri che si prevede verranno a visitare la fiera con la quale l'Italia offrirà al mondo la possibilità di godere delle sue eccellenze, della sua cultura e della sua società, avrei deciso di portarmi avanti mettendo me stesso al servizio degli stranieri che dovessero già adesso essere impegnati nella pianificazione del loro viaggio e quindi nella verifica della capacità ricettiva del capoluogo Lombardo.

In questa puntata mi occupo delle esigenze fondamentali e urgenti e in particolare del sistema che il comune ha messo a disposizione di chiunque abbia bisogno di informazioni e/o aiuto.
Chiunque utilizzerà per i propri spostamenti la modernissima metropolitana milanese caratterizzata da una frequenza all'altezza della città famosa per il suo ritmo produttivo, potrebbe trovarsi ad avere dai sette ai dieci minuti di attesa tra un treno e l'altro anche in ora di punta durante i quali si avrà tutto il tempo di contattare l'operatore d'emergenza attraverso la linea a disposizione dell'utenza.
Non potendo contare su un inglese all'altezza delle necessità di chi da ogni parte del mondo in questo momento sta navigando sul web per raccogliere informazioni, mi farò aiutare dalle immagini così da rendere immediatamente riconoscibile l'oggetto del mio aiuto.
Nella stazione della metropolitana Wagner, non ho verificato altrove, l'utente giapponese che dovesse aver bisogno di contattare qualcuno per cercare informazioni o aiuto, dovrà cercare questo oggetto qui:

Call for Expo

Sta su un muretto con dietro un cartello con le istruzioni per usarlo.
In italiano.
Se il turista ha meno di quarant'anni, auguri.
Se passandoci accanto doveste vedere qualche straniero che lo fissa immobile, schiaritevi la voce, abbottonatevi la camicia e partite con una filippica sull'artista italiano famosissimo che per accogliere lo straniero lungo la strada che lo porta all'expo ha disseminato Milano di queste istallazioni artistiche a tema archeologia industriale.
Nella migliore delle ipotesi in quanto giapponese non se la sentirà di offendervi dicendo di non essere troppo convinto e per questo farà sì sì con la testa ringraziandovi per la lezione in esclusiva, nella peggiore dovrete tenere botta al massimo per quattro minuti, dopodiché se nessun latinos di tredici anni nel frattempo lo avrà accoltellato per portargli via l'ologramma che vi stava mostrando per spiegarvi che per lui "Tele-fòn? This is phone! Olophòn!" è probabile che correrà a prendere il metrò prima che voi abbiate finito il vocabolario a vostra disposizione se non quello dei termini con i quali da anni state cercando di far capire a chiunque non sia di Milano che Milano è una capitale europea solo per chi non ha mai visto una capitale europea.
Una qualsiasi.
Tipo Torino per esempio, città nella quale il metrò passa ogni 2 minuti a qualsiasi ora ed è computerizzata senza macchinista già da un secolo senza tutta la caciara che milano sta facendo per mostrare alla città i due vagoni che in sei anni è riuscita a mettere sull'unica nuova linea costruita e composta da tipo sei fermate, tutte naturalmente ben lontane dall'aeroporto.
Però arriva allo stadio dove ovviamente fa capolinea, giusto per capire il senso del quadro generale di cui quell'installazione artistica là sopra è sintesi perfetta.

25 marzo 2014

Spoiler

Se sono in silenzio da tre giorni non è perché stia pagando un pegno o perché sia fuggito o perché mi stia allenando per le olimpiadi del silenzio, ma semplicemente perché da venerdì sono senza parole.

O meglio, le parole le ho ma sono parole che vorrei calibrare bene perché non possiamo permetterci di sbagliare, il problema è grande e l'urgenza è grave.
Devo trovare una maniera il più possibile sintetica e nello stesso momento a misura di chiunque per dissuadervi dall'idea, sciagurata, se mai vi avesse sfiorato, di andare a vedere l'ultimo film di Ozpetek del quale nemmeno vi metto il titolo così se non ci avevate proprio pensato non contribuisco a spostare la situazione.
Perché poi qui intorno ci potrebbe essere anche qualcunA che potrebbe esser tentata dall'idea di sollevarsi dalla responsabilità addossando a me la scelta, ma in quel caso chiamatemi ché c'ho sms che certo conserverò per parecchio tempo a prova di oblìo: io volevo andare a vedere "La mossa del pinguino"!
Ma lei, da esperta di cinema quale è, se l'era già andato a vedere da sola per quella forma di snobismo tipica degli esperti di cinema che tendono a tenere per sé le perle delle quali poi vantarsi, condividendo al contrario il peggio così da avere l'alibi dell'aver dovuto accompagnare l'amico scemo, ruolo che mi ero eccome candidato a ricoprire, ma appunto perché il premio fosse La mossa del pinguino (oh!)

Allora da tre giorni sto cercando di trovare una maniera che non mi esponga al ridicolo cui mi esporrei se mi avventurassi nell'impresa di improvvisarmi critico cinematografico impalcando descrizioni articolate e sofisticate analisi delle quali non sono mai stato capace, né lo diventerò quando la così bassa qualità della materia trattata mi imporrebbe di fatto una asticella impossibile da alzare e il risultato di questi tre giorni di pensieri che cercano di trovare il punto di equilibrio tra il mio non essere un parere autorevole e il mio volervi bene al punto da voler fare qualsiasi cosa perché non vi consegnate a quello che credo di poter ragionevolmente considerare il film più brutto da non so quanti anni a questa parte, è che quel punto di equilibrio si trovi esattamente nel punto in cui vi dico che alla fine lei muore.
E non per il trauma di aver dovuto recitare chissà quante settimane insieme a Francesco Arca in confronto al quale il mio comodino è Carmelo Bene all'apice della carriera, ma perché il tumore che le diagnosticano a metà film, quando ormai avevate pensato che il film parlasse solo di un tema che Ozpetek non affronta mai e cioè l'omosessualità solo perché tre dei cinque protagonisti recitano il ruolo di omosessuali felici, è maligno.

Ecco, sistemate le urgenze possiamo anche perderci nei dettagli precisando che con "felici" si intende attivi solo per quanto riguarda il maschio gay naturalmente, perché come ogni buon Ozpetek d'ordinanza il soggetto prevede che se sei donna sei felice solo se nel corpo di un uomo, altrimenti puoi solo essere la Buy o, nel caso lei fosse occupata a recitare la parte dell'ipocondriaca depressa ma etero nel prossimo film in cui rifarà l'ipocondriaca depressa, per non oscurare troppo la mascolinità del ruolo di Arca mettendogli uno tipo Malgioglio accanto, toccherà accettare che le altre due siano donne lesbo che, notoriamente, si danno la mano e si baciano solo su Youporn mentre nei film di Ozpetek se sono uomini nel corpo di donne possono essere solo ipocondriache depresse che in assenza della Buy che lo è il doppio di qualsiasi donna diventano la Signoris e la Ricci che stanno insieme da una vita e si perdonano le peggio cose tipiche di quelle donne di mezza età che, dopo aver con la crisi dei trenta messo le basi per le macerie di quella dei quaranta, non possono che ritrovarsi a cinquanta tanto innamorate quanto psicolabili, tutto riuscendo contemporaneamente a non sfiorarsi per l'intero film.
E sia mai, sei film a parlare di omosessualità maschile nei quali Favino e Argentero sul letto erano così eccitanti che qualsiasi uomo etero di media serenità non può che riconoscersi attraversato anche solo per un istante dal dubbio, mi sembra un po' presto perché pure le donne si diano anche solo la mano, ovviamente, sia mai, facciamone altri diciotto di film sull'omosessualità prima di mostrare un bacio tra donne, soprattutto tra donne con quei due volti lì che nell'immaginario sono la donna normale di mezza età e vogliamo mica essere così dissacranti, ma solo dire che gli uomini si cacciano la lingua in bocca e le mani nei pantaloni dopo tre minuti, mentre le donne si guardano romantiche per un'intera i-mma-co-la-ta vita, perché lesbo o meno sempre donne sono e quindi in quanto tali sempre un po' più stupide dell'uomo, che se è gay è quel figo di Favino mentre se è lesbo all'ipocondria e alla depressione si vede aggiunti anche i disturbi alimentari che alla Buy erano stati risparmiati a questo punto forse solo perché etero o perché altrimenti c'era da riscrivere tutte le scene a tavola in terrazza e cioè mezzo Fate ignoranti.

E scordatevi che nella scena (gli unici due sugli interminabili ennemila minuti di film nei quali verrete sfiorati dal dubbio di non essere in grado di azzeccare cosa succederà nei successivi due come li aveste scritti voi) nella quale vi troverete a chiedervi se Arca stia per fare il salto e baciare l'amico gay rivelando così che la maschera di amore assoluto e totale per la Smutniak dietro la quale nella prima parte del film nascondeva le sue sessanta amanti non era altro che omosessualità repressa, accada l'unica cosa che a quel punto del film vi augurate accada e cioè qualsiasi cosa non vi aspettiate, foss' anche che si accendano le luci e qualcuno gridi al fuoco.
Perché non solo non accadrà nulla che non sia recitabile da Banderas post gallina, ma oltretutto dopo quella (non) svolta omo il vero dramma che occuperà la scena da quel punto in poi è che la maschera dell'uomo che ti fa sfornare figli si fa mantenere e nel tempo libero mentre tu lavori si scopa tutto ciò che respira (...uhm...chi mi ricorda...uhm..) soprattutto se i polmoni sono quelli della Ranieri (e vabbeh, che gli vuoi dire) e quindi null'altro che una (originalissima) delle tante sfighe che chi ha scritto il film ha assegnato al ruolo di lei, nemmeno se considerata insieme al tumore riesce a vincere il titolo di sfiga delle sfighe, dal momento che tumore e multicorna nulla sono in confronto all'essere scopata sul letto di morte da uno che pareva fosse quello dei due senza vita e dimmi tu se il dividere con uno così passionale quella che tu sai essere l'ultima volta che farai l'amore in vita tua, in termini di sfighe immaginabili non batte il tumore cento a zero.
Cioè non bastava il danno, pure la beffa, ma vabbè non divaghiamo ché siamo in altra scena.
Scena che quindi non si conclude nell'unico modo che avrebbe dato un senso al film e cioè appunto con lui che mette le mani nei pantaloni dell'amico di lei mentre lei esala l'ultimo respiro da sola in ospedale, ma con loro due che, da veri maschi, alla vigilia del lutto più grande della vita di entrambi giocano a ruzzle con lei che dal letto di ospedale nei suoi ultimi giorni di ossigeno al cervello riesce comunque a batterli entrambi, giusto per dare anche una misura alla brillantezza delle menti coinvolte nella storia a favore dei soli che la cosa non l'avevano già misurata nei dialoghi dei primi cinque minuti di film, quando io e compagna di serata avevamo già da quattro come unico pensiero la costruzione di una versione più solida possibile del perché la colpa della distruzione della reciproca rispettabilità pubblica, agli occhi di chiunque ci avesse per caso visti uscire dal cinema da lì a poco, fosse dell'altro.
Io al sesto minuto avevo già deciso che avrei replicato a qualsiasi domanda con "Se l'esperta di cinema è lei, è ovvio che la mia unica colpa sia stata l'ammirazione, ma possiamo chiamarla colpa?"
(tiè)

Se poi volete per forza andare a vederlo ma avete bisogno di almeno un paio di motivi per farlo, perché il solo farlo per dimostrare quanto io sia cialtrone non è sufficiente, allora eccoli:
1. Perché la Smutniak è davvero brava al punto da riuscire a prendersene il merito nonostante il dubbio che chiunque messo in mezzo a un cast del genere apparirebbe colossale e comunque abbastanza da riuscire a far per qualche istante dimenticare la velocità con la quale ha superato il lutto per Taricone, pensiero che io ho sempre ogni volta che la vedo anche solo in foto e mi spiace ma sarà sempre un handicap di partenza sul quale ammetto di perdere obiettività. 
2. Perché è un modo per vedere quanto è bella Lecce, bella proprio come l'ho sempre immaginata.



21 marzo 2014

A pasqua invece saremo tutti più belli


Qualcuno di voi ricorderà il resto della lunga descrizione della
"zia che ce l'ha fatta a vivere prescindendo dal cognome, il mio, il nostro, se è rimasto in vita il cognome che porto è in quella casa.
Fa la preside Zia A., nelle scuole come nella vita, una famiglia perfetta come una classe di un collegio, bellissima nella sua perfezione, figli a nastro che sfornano nipoti a nastro, ogni anno che mi siedo a tavola devo chiedere di chi sono i nuovi bambini intorno, ce n'è sempre almeno uno che compie tre anni, almeno uno che ne compie due, almeno uno che ne compie uno, c'è sempre almeno una donna in attesa a quella tavola"
Così come ricorderà anche la descrizione di quelle donne, quelle
"mogli dei cugini una più bella dell'altra, una più intelligente dell'altra, ci passeresti le ore a parlarci e non ne sbagliano una, sono serie ma non noiose, perfette ma non impeccabili, eleganti ma non imbalsamate, belle l'ho già detto ma lo sono al punto che vale la pena ripeterlo" 

Che voi penserete "Sì ok ormai abbiamo imparato a conoscerti per il cialtrone che sei e sappiamo fare la tara per arrivare a misurare da soli la realtà al netto della versione che ne offri tu nelle tue romanzate iperboli".

E certo, perché quando io dico che se riesco a romanzare anche in assenza di qualità personali e attitudine al farlo è proprio perché mi basta trasferire la mia realtà esattamente così com'è, sono un cialtrone, no?

E vediamo.
Stamattina la zia A. mi chiama per anticiparmi telefonicamente la successiva mail che correttamente come da preannuncio ricevo e poi vediamo chi romanza cosa:

"Ciao,
vi comunico le ultime novità:
-ai primi di maggio nascerà la  bambina di L. e A.
-Domenica 6 aprile ci sarà il Battesimo di F.
-giovedì  1° maggio A. farà la Prima Comunione
-è previsto il consueto pranzo pasquale il 20 aprile.
-zio P. dopo un periodo di crisi  nel mese di gennaio si è ripreso bene
-nonna T. sta bene , forse un po' su di peso
P. sta preparando la tesi di Laurea e continua   felicemente il rapporto con P.
Tutti noi stiamo bene.
Vi aspettiamo in tutte le ricorrenze che ho elencato, anche con  conferme all'ultimo momento secondo i vostri impegni.
C'è bisogno di un congruo preavviso solo per la Prima Comunione di A. il 1° Maggio perché andiamo a pranzo in un  agriturismo e occorre sapere precisamente quanti siamo.
Sapete che B. ama la perfetta organizzazione, per cui  un  preavviso tardivo la manderebbe in crisi, infatti sta già pregando  la piccola di L. e A. di  nascere rispettando i tempi della famiglia.
Un Abbraccio fortissimo dalla zia A."


Voi non ci credereste mai ma sono davvero una famiglia bellissima e se credete che quel formalismo lì sia da fuggire via è perché non sapete quanto in realtà sia una forma estrema e disperata di quei tentativi di fare di tutto per avere me e mio fratello alla loro tavola, fino ad arrivare a mettere giù un vero e proprio programma a prova di "non lo sapevo" e "c'è stato un imprevisto non possiamo venire" che vuole solo essere una maniera tutta personale di dire "E' chiaro o no che ci mancate?"
Ed è per questo che io a quella famiglia lì voglio un bene dell'anima anche se poi, formalmente, sono quel cialtrone che per andare a trovarli dev'essere inseguito così manco fosse l'ambasciatore del Pippistan e una volta sono riuscito a stare quaranta interminabili minuti a fissare una finestra per decidere se avessi o meno voglia di andare e poi alla fine certo che ci sono andato.
Come fai a non voler bene a una famiglia così, che non è bellissima perché tu vuoi bene loro nonostante siano così diversi ma perché prima di tutto sono loro a voler bene a te nonostante tu sia così cialtrone.


19 marzo 2014

(in) Crescendo

Sull'ennesimo anniversario di quella che dicono essere stata la morte di mio padre mi viene solo da ribadire questo.

Sull'ennesima ragazza che è riuscita a scendere in tempo dall'auto, mi viene solo da ribadire questo.

Su di te mi viene solo da pensare questo.

Su quanta energia ancora veda saltar fuori da quel tratto di passato che vissi rockabilly tanta evidentemente era e chi riesce a non muovere nemmeno una caviglia ha qualche problema ma non alla caviglia mi viene solo da dire questo:


15 marzo 2014

Tira più un caffé corretto che un carretto di caffé

A Torino abito in zona Mirafiori, siamo i figli della Fiat, nelle case Fiat, di famiglia Fiat, che ha visto il mare nelle colonie Fiat, la montagna nella Torre Fiat, i regali di natale in fila nel salone natalizio Fiat, là dove c'era l'erba oggi c'è questa città, da piccolo passavo i pomeriggi sul balcone a guardare il treno passare sotto casa edificata sulla direttrice che dalla fabbrica portava interminabili serpenti di automobili alla stazione Lingotto e da lì al mondo intero, era la mia televisione preferita dopo i barbapapà e capitan harlok, siamo famiglia operaia in zona operaia.
Mirafiori è zona di cass'integrati Fiat, di vagabondi in attesa di Fiat, di nonarriviamoafinemese Fiat, una di quelle zone nelle quali la concentrazione delle vittime della crisi è tale che Mentana potrebbe venire qui a fare i sondaggi che danno il M5S sempre in crescita e allora altro che +5% ogni settimana, qui sarebbe +20%, Mirafiori alle ultime politiche è la zona d'italia che ha dato il contributo maggiore all'esplosione stellata, sono tutti incazzati, tutti in attesa che torni Agnelli a salvarli e riassumerli di nuovo a vita dicendo loro che è tutto passato, che va tutto bene, vieni che rimettiamo le rotelle alla bicicletta, tutti impegnati a stare fuori dai negozi a parlare di Signora mia cacciamo i ladri che ci hanno rubato tutto.
Tutto tranne la dignità, se vedeste mia nonna che a Mirafiori ci è arrivata quando intorno erano solo colline e campi agricoli, ma questa è un'altra storia.
Mirafiori è zona che non perdona, leggi la crisi sui muri, nelle voci al mercato, nelle facce, nei gesti, nella maleducazione, a Mirafiori non esiste il concetto di fila nei negozi Ah scusi non l'avevo vista è quello gentile che ti passa davanti levandoti di peso pure se non ti aveva visto, uno su mille, gli altri nemmeno quello passano e basta e dall'altra parte del banco manco una piega, del resto sono tutti incazzati e non hanno voglia di star lì a discutere una cosa che nemmeno tu hai più voglia di discutere, i cani a Mirafiori cagano sotto i portici talmente tanto che qualcuno ha cominciato a mettere fogli attaccati ai muri con i quali precisare che il cane non è il cane ma il padrone, guerre tra poveri che si farebbero la pelle per un pacchetto di sigarette, è zona che alla Fiat non perdonerà mai il trauma d'abbandono, sarà sempre nemica come solo l'abbandono di un genitore può rendere nemici coloro che condividono il sangue e fino a ieri ti portavano i figli al mare, è zona che non ha soldi, non ha cibo, non ha speranze.

E sarà per quello che ha sette dicasi sette sale slot in una distanza di nemmeno un chilometro intervallate solo da massaggiatrici cinesi che quando le intravedi dalla porta aperta pensi Ehi ma quella è quella della pizzeria accanto e vedendole pensi che mai termine fu più azzeccato di Arrotondare, Mirafiori è zona di disperazione e di fame e di non ci sono soldi signora mia ed è per quello che la sala Casinò più grande, quella con la security alla porta, ha deciso di andare incontro alle esigenze del cittadino in difficoltà ampliando l'orario di apertura, portandolo a essere disponibile per la città che non ha soldi per mangiare dalle 4 del mattino a mezzanotte, venti ore consecutive aperti, lo fanno per loro, metti che non sai dove ripararti dal freddo e non hai scatoloni a portata di mano, c'è il Casinò che ti accoglie, farà caldo, sarà per quello che è tutto un via vai di anziani e meccanici ancora con la tuta da lavoro, gente che non ha soldi per arrivare alla quarta settimana, ma che dico alla terza, ma no signora mia oggi è guerra e non si arriva manco alla seconda e cerca un posto che accolga la loro vergogna, non hanno il coraggio di guardare i loro figli ai quali non possono dare da mangiare, lo dicono sempre ai microfoni di Paragone quando urlano contro la casta, è giusto che abbiano un posto dove andare a nascondere le lacrime di appapà che subisce lo Stato oppressore e il Casinò ci tiene a loro, per quello ne hanno aperti sette nonostante, si sà, in zona operaia che vota Grillo come nessun altro in Italia così punisce le lobby delle slot, di soldi proprio la gente non ne ha più e adesso vogliamo il reddito di cittadinanza e che i ladri ci restituiscano il malloppo che ci hanno rubbbato per anni e ci diano un lavoro perché noi dobbiamo campare i figli, li senti rabbiosi e accipicchia se lo sono, quando il duecentesimo grattaevinci della giornata finisce nel cestino del tabaccaio e si vergognano, oh non sai come si vergognano, quando il resto delle sigarette lo chiedono sempre sottovoce "in monete da un euro" specificando sempre, sono signore che ci tengono al nome, che "ma solo perché oggi, mica sempre" e la tabaccaia che fa Sì sì, con la testa mentre il resto in monete da un euro era già pronto prima che lo chiedesse e la fila c'è e nessuno la salta, la fila alla slot nessuno la salta, è il nuovo stadio del popolo, quella che gioca e intorno il gruppo che fa il tifo, perché perda, così da poter passare il turno e sperare di essere quello che prende tutto o giocarsi l'ennesima venti euro anzi diciotto perché bisogna tenerne almeno due per andare all'edicola accanto a comprare il Fatto Quotidiano che quotidianamente spiega loro che loro non hanno colpa del loro non sfamare i figli, che la colpa è della casta e ogni giorno fornisce loro il nome da odiare nella mente tra una fila di faraoni allineati ma accipicchia mancava il quinto e la soluzione: vota appeppecrillo così le slot che rubbbano le tasse non ti ruubbbano più il lavoro col quale sfamavi i figli e lo pensano, le slot sono il loro nemico ed è per quello che i tasti li pestano con tanta rabbia mentre ci infilano dentro anche oggi la pizza con figli sabato sera, nemmeno questo sabato sera.

In fondo ai portici un piccolo Bar, in tre anni ha cambiato non so quante gestioni, tante che nemmeno veniva levato più il cartello Nuova gestione, tanto duravano meno del tempo di imbiancare, pareva colpito da maledizione, nonostante una posizione a dir poco favorevole non c'era gestione che riuscisse a durare due settimane nonostante l'arrivo del mercato l'anno scorso abbia trasformato in tanti marchionne i temerari che comprarono i bar intorno quando in zona c'erano loro e nessun altro e per quello li rilevavi con due euro e un grazie commosso di quello precedente che se ne liberava, periodi nei quali guardavamo i banchi vuoti e la disperazione che il mercato ha trasformato in posti dove passa tanta di quella gente che oggi paiono autogrill, ma quel bar niente, intorno il Klondike e in mezzo quella piccola Bagdad dopo i bombardamenti, c'è la crisi signora mia, non vede che aprono e chiudono continuamente, ma chi, ah quelli accanto al casinò che sta aperto venti ore al giorno dice, sì quello, chiude perché la gente non ha soldi, e chiudeva, apriva e chiudeva apriva e chiudeva apriva e chiudeva, fino a due mesi fa quando.
Quando un giorno si alza la saracinesca e dietro il banco compare una rumena di una trentina d'anni, non ragazza non signora, quell'età indefinita che va bene per tutti, quell'accento europa est che qui a mirafiori hanno sentito o dalle badanti o dalle puttane o dalle attrici nei film porno, mai volgare, mai eccessiva, sempre pantaloni e camicia, la donna lavora del resto, non fa né la badante, né la puttana, né l'attrice porno, fa caffé e serve vino, è giovane abbastanza da avere i pantaloni a vita bassa, si piega per pulire il cassetto e col tatuaggio che spunta si assicura i caffé, ha un seno grande ma non lo mostra, lo contiene sempre dentro una camicia seria e solo per non creare le pieghe di una taglia in meno è costretta a tenere i bottoni aperti fino alla scollatura, non vedi se non quando si piega e quando si piega spunta la collana con la quale si assicura il vino, giorno uno cliente uno, giorno due clienti due, giorno tre clienti tre, giorno quattro clienti quattro, sono passati due mesi, giorno sessanta clienti sessanta, non passi più, non entri nemmeno dalla gente che c'è tanto che ha dovuto chiamare un'aiutante e dev'essere la sorella perché è uguale, rumena uguale, pantaloni uguali, tatuaggio uguale, camicia uguale, distinta e mai volgare uguale, altri sessanta clienti, fanno centoventi, non si capisce nemmeno dove li mettano tanti sono, pare corso como a milano quando aprì il Loolapaloosa e non parcheggiavi per chilometri, non si gira più, se passi in quel punto dei portici devi fare il giro largo, arrivano dalle altre zone a prendere l'aperitivo prima di tornare a casa dalle mogli e lo vedi perché arrivano in macchina ma vestiti da lavoro, tute da meccanici, grasso sulle mani, sopracciglia da ventenni maschi appena usciti dalla palestra andati apposta per presentarsi sudati e tonici, non vedi una cliente donna manco a pagarla, tacito accordo tra clienti, nessuno si azzardi a presentarsi con la moglie, con la ragazza, con un'amica, qui è roba maschia, loro distinte, eleganti, non fanno una piega, fanno caffè e servono vino e se al momento di chiudere e pulire e sgomberare è pieno di uomini non chiedono nulla, non serve, un bar così ha sempre l'uomo che il sacco nero del vetro lo porto fuori io, un altro che i tavoli li sposto io, l'altro ancora che le casse per riempire i frigo dalla cantina le porto su io, petti gonfi e bicipiti eccitati a far la fila per vincere il contratto cococo mansione sguattero del giorno là dove per sguattero non s'intende la dignità del lavoro ma del perché lo fai, loro due si spostasse un capello, bellissime, rumene, sorridenti con i ventenni come con i settantenni, che sono più dei ventenni, quel bar pare un autogrill, non è più vittima di maledizione se non di quella delle mogli che come se le scoperanno quelli lì, dopo aver bevuto vino dalle quattro del pomeriggio alle otto di sera, aver faticato otto camicie per ripulire il bar da capo a cima, portato fuori sacchi e sacchi di immondizia e bottiglie e aver passato le quattro ore precena a pensare a quanto quelle due siano incredibilmente più fighe delle sceme che a casa aspettano di sapere se il marito oggi ha trovato lavoro grazie appeppecrillo.
Ma anche chi se ne frega in fondo, nemmeno ci tornano a casa, li vedi uscire dopo essersi bevuti la pizza col figlio il sabato sera e due metri dopo immediatamente accolti dal Casinò che per sottrarli alla frustrazione li accoglie fino alle quattro del mattino quando con ogni probabilità moglie e figlio staranno dormendo e così se non dirai loro che ti sei bevuto la pizza del sabato e giocato quella della domenica è perché sono loro che non ti aspettano svegli dopo che tu hai passato la giornata a cercare di sopravvivere alla casta ladrona cercando con tutto te stesso un lavoro, così pronto a rimboccarti le maniche da accettare anche un lavoro da aiuto barista.

Poi a Mirafiori ci siamo anche io e nonna e un tempo qui c'era tutta campagna e io mi ricordo il treno Fiat e la gente felice, non c'era la crisi  e nemmeno i casinò e nemmeno appeppecrillo e nemmeno così tanta gente che non arriva più a fine mese signora mia bella rumena, un altro vino grazie, l'ottavo, sì sì ora vado a casa, ancora un attimo, si sta tanto bene qui, com'è gentile bella signora, ah chiude, allora ok passo un attimo al casinò e poi vado a casa a vedere Paragone e i miei amici che gridano al microfono che noi siamo stufi hai capito siamo stuuuuufi e adesso li andiamo a prendere quelli là che ci hanno rubbbato tutto e anche la dignità di appapà che per te, figlio mio che dormi perché non sai i problemi, è pronto a prendere le armi per cacciarli tutti questi ladri e facciamo la rivoluzione per te figlio mio così avrai il futuro che quelli ci hanno rubbbato.




Questo post, mi si perdonerà la nota che impone aggiunta perché sia prova a futura memoria (che non mancherò di produrre al momento opportuno e che quindi devo appuntarmi per poter dire "Quella notte") all'interno di un incarto tanto lungo quanto futile cela un minuscolo brevissimo momento di pura magia di quel tipo là, quel tipo che io penso una cosa e quella cosa in un punto del mondo lontano ma mai tanto da non poterlo dire mio mondo, accade.

12 marzo 2014

Di tutti un po'

Che poi diciamole due parole su quel breve istante in cui l’altra notte decisi di chiudere e nel giro di due ore cambiai idea.
Diciamo che prima di tutto cambiare idea è possibile, è persino facile, soprattutto è un diritto e almeno qui dove non devo nulla a nessuno mi concedo il lusso di esercitarlo.
Sistemata la questione formale andiamo a quella sostanziale, il perché.
Perché non c’era un perché, appunto.
E che non c’era un perché non l’ho capito da solo, ma nelle due ore tra il momento in cui decisi di chiudere e quello in cui cambiai idea, grazie a una serie di piccole cose.

Pochi minuti dopo ho ricevuto una mail da voi due, con la foto dei libri appoggiati al computer e quella prima persona plurale che è per me sempre stata la prova più evidente dell’esistenza dell’amore e quanto è bello scoprire che c’è chi la usa davvero, usata per dirmi quelle cose là su di me che boh, e quelle altre cose là sulla guerra che altrettanto boh, sto pensando a come si possa rispondere e al momento penso solo col silenzio.
E ho pensato che cavolo, dieci anni diventano un libro detto e comparso come se io avessi davvero qualcosa da suggerire, diventano parole così belle che tu pensi se davvero lo vuoi perdere, non i dieci anni ma il risultato di quei dieci anni e pensi che no.
Mentre andavo in giro in cerca di parole non mie trovo un piccolo “Mi mancherai, proprio ora che” che non era per me ma aveva il suono della cosa più per me che volessi ascoltare in quel momento e allora ho fatto finta fosse stato messo lì per me e me lo sono rubato e rubandolo ho pensato perché, se davvero volessi perdere quel proprio ora che e ho pensato che no, davvero no.
Mentre discutevo, raccontavo, romanzavo e infilavo la cronosequenza degli elementi necessari perché tu invece capissi e mi dicessi non quello che volevo sentire ma quello che avevo bisogno, di sentire, mi sono chiesto se avessi voglia di perdere anche te e la possibilità di farmi indicare dove esattamente ho commesso la madre di tutti gli errori e scoprire che il punto era quello, esattamente quello, colpito e affondato come nemmeno chi mi conosce da vent’anni avrebbe saputo infilzare al primo colpo e indicarmi così nettamente dove io non vedevo alcun errore e tutto, solo, grazie a quanto io metto qui pensando siano sciocchezze quotidiane e invece quanto di me ci dev’essere, accipicchia, per rendermi così nudo da esserlo anche quando mi sento vestito così elegante o da ballo in maschera a seconda dei giorni e ho pensato che no, che perderlo anche se così recente sarebbe stata una perdita al pari di quelle così importanti da essere quella alla quale chiedi di dirti dove hai sbagliato, certo che lo farà, e lo farà.
Mentre tutto questo, intorno il silenzio di quelli di voi che amano così tanto il silenzio da averlo sempre scelto come modo per farmi sapere che stavate stringendo i pugni come me e con me e secondo me non solo per tifo ma perché in fondo un pochino alla volta, un giorno dopo l'altro, questo contro ogni logica ci crede davvero così tanto da mostrarlo possibile e contro ogni logica avevate iniziato a crederlo possibile anche voi ed era bello per una volta pensarlo davvero possibile, vero? Ecco, pensate io.
O tu, che mi dici che non intervieni perché quando io parlo apro cerchi che chiudo in quella maniera là che non serve aggiungere altro, che c’è tutto quello che serve, che sono cerchi autosufficienti, e io mi chiedo perché la precisazione, sembra quasi un tranquillizzarmi non necessario, ma poi riavvolgo riascolto e sento che no, era davvero un modo di dirmi che disegno cerchi perfetti e ho pensato che no, che sette anni sette a conservare ciò che hai conservato certa che un giorno me li avresti dati tutti e sette e tutto solo perché i cerchi mi escono perfetti, sarebbe stata una perdita.
E persino tu, che vorresti sotterrarmi di pugni e del cinismo col quale sono certo hai reagito in questi mesi ma che tieni fermissimo al prezzo di tenere fermo tutto solo per non rischiare di dirmi “Sì ok però anche basta ‘sta lagna” e io sorrido e penso che non darti più una lagna al giorno sarebbe una perdita non per te, ma per me che sorrido immaginando con quanto rispetto stai tenendo a freno i tasti.
E tu che non stai bene, che non ti disturbo finché non torni tu e il perché anche solo sapere che c’è un posto dove tornerai è per me motivo per tenere quel posto pronto, è un perché fatto di parole che non serve dire, bastino quelle che ci siamo detti tutte le volte che ci siamo seduti davanti a una bistecca e a un buon vino, che più o meno è coinciso sempre con il momento in cui uno dei due ne aveva bisogno e ehi, sono qui.
E ognuno di quelli che mi scrive per dirmi il perché mi legge e mi aspetta, quante case mi ospiterebbero e tutto perché sembro uno che non farebbe mai del male a nessuno ed è vero, non più.
E quelle piccole a me sconosciute città negli accessi, sì le vedo e come potrei non vederle tante volte mi bussano alla porta e ora che lo dico non lo faranno più o lo faranno di più per farmi ciao con la mano, sarà comunque curioso guardarlo accadere, che ogni volta che le vedo mi piace immaginarle abitate da qualcuno che chissà quanti anni fa o qualcuno che chissà tra quanti anni ma intanto è qui ed è ora e se scompaio poi dove sarà, se sarà, perché magari non sarà più e se fossi tu, ancora tu, ma non dovevamo vederci più? Ma soprattutto tu come stai? Sei come sempre arrivata lì dopo aver girato e rigirato senza sapere dove andare? E tu come vivi? Come ti trovi? Chi viene a prenderti? Chi ti apre lo sportello? Chi segue ogni tuo passo? Chi ti telefona e ti domanda adesso tu come stai?
E quelli che lo so, lo so che vengono qui augurandosi di trovarmi ferito e so che è importante, è una responsabilità che sento quasi come un dovere, le mie cadute sono ossigeno per tante di quelle persone da aver acquisito quella che è a tutti gli effetti una funzione sociale e so che finché gliele fornisco soddisfandone la fame non corro il rischio di vederli venirsele a cercare di persona e a me una vita con la certezza di non attraversare mai più lo stesso lato di strada che calpestano loro è orizzonte sufficiente per offrirmi ferito a qualsiasi godimento, più io sono ferito più sono soddisfatti, più sono soddisfatti più sono fermi dove sono, più sono fermi dove sono meno sono vicini, meno sono vicini più io sto bene, più io sto bene più voi state bene, ricordatevelo sempre, meglio io ferito che voi feriti, io lo so e per questo un posto dove offrirmi ferito è un posto importante, per non dire necessario, per la sopravvivenza reciproca; il patto è questo: io mi offro ferito ogni volta che sarò ferito, voi non commettete una seconda volta l'azzardo di oltrepassare questo vetro, uscirne illesi è un bonus che la ditta non offre due volte.
E tu, dura che più dura non si può, più con te stessa che con me, non mi manchi perché so che non ci sei e so che non ci sei perché posso controllare se ci sei e se non potessi più controllare non saprei più che non ci sei e se non sapessi più che non ci sei non mi mancheresti e vinceresti tu, ci perderemmo per sempre, e invece io spero che prima o poi a mangiare in quel posto là mollando i bimbi al tuo ex marito o lasciandogli la casa libera per una sera, visto che per quel giorno avranno tra i venti e i trent’anni e noi cinquanta o sessanta, mi ci porterai ma se non hai dove dirmelo dove me lo diresti? In mail? Al telefono? Tu? Campa cavallo, meglio lasciare questo posto pronto per quando capirai, perché capirai, che si può essere anche amici ed è bello quando ci si riesce davvero e quando invece non ci si riesce in dialetto si dice Perdita, comunque, e allora scusa ma tantovale, no?
E tu che quanti sono, dieci anni, e facciamone altri dieci se davvero mi dici che ti servono per dire a parole mie le cose tue che non sai dire però dai, facciamo un patto tra adulti, smettiamola di chiamarle cose nostre, dieci anni fa poteva funzionare ma oggi, a questa età, le cose nostre hanno una forma che oggi non hanno.
E tutti quelli, si ok dai quelle, che fanno finta di leggermi ogni tanto, sempre dopo un sacco di tempo, certo, lo so, vuoi che non lo sappia, quello che non so è perché ci sia bisogno sempre di precisarlo ma immagino ci sia quel perché se viene ogni volta precisato e quindi facciamo che io dico Ok, non ti sei persa niente in quel sacco di tempo, e che la cosa è reciproca, ecco una cosa sulla quale ci assomigliamo, tengo aperto così ce lo possiamo riconfermare tra un altro sacco di tempo. Tu nel frattempo continua a non lasciar passare giorno senza ricordare alla rete che ti piace fare pompini, così io posso continuare a non lasciar passare giorno senza ricordarmi il perché ho buttato fuori di casa quell'irrisolto che per amore chiamavo la mia fidanzata. Tenere aperto entrambi è in fondo un modo per darci qualcosa a vicenda.
E poi mio padre che mi legge dalla Russia. Sì, lo so, è morto, ma se avete creduto possibile quella storia là non vedo perché non possiate credere possibile anche questa storia qua, io ci riesco su entrambe, tengo aperto così continuo a spiegarvi come si fa.
E Gianluca che magari tra altri sei mesi o di nuovo tra un altro anno gli viene voglia di ridirmi che amici come noi da venticinque anni non ce ne sono in giro e che ci vogliamo bene e metti che non sappia dove trovarmi, ciao sono qui.

È che chiudere un posto come questo che non chiede e non pretende è come quando finisce la scuola e ci si stringe, non ci perdiamo, mi raccomando rivediamoci, almeno una pizzata al mese e poi dal giorno dopo nemmeno ricordi i nomi, giusto qualche immagine tra le migliori, qualche sigaretta nei bagni, le prima cosa che da quel giorno in poi avresti saputo chiamarsi tette, qualche nome cercato in gùgol e il dubbio che sia lui, l’assenza di posti dove raggiungerli, facebook non mi avrà.
Tengo aperto perché questa è una trincea in prima linea sul campo di battaglia con quelli là di facebook e di twitter e di tutte quelle diavolerie da mille contatti ma chi, chi di loro può dire di averne anche uno solo come voi?
Dai su, non scherziamo.

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8 marzo 2014

Estratti

Questa cosa qui che ho dentro oggi si chiama Beninconìa ed è molto preziosa perché sono serviti anni per distillarla.
Molto molto preziosa.
Pulisce i ricordi più belli dalla patina del timore di non averne di nuovi domani.
Perché non dovresti.
Hai vissuto quelli, sarai capace di viverne altri.



7 marzo 2014

Scherzavo ovviamente

Cioè no, è che stavo ruotando vorticosamente causa sberla dalla vita e non è che si possa pretendere chissà quale lucidità.
Poi però l'inerzia rallenta, la rotazione si ferma, ci si aggrappa un attimo a un cassetto, a un pensiero, a un presente giusto il tempo necessario perché la testa smetta di girare e martelletto e ossicini vari riprendano il loro centro d'equilibrio, si ritorna in sé e si riacquista la capacità di vedere e mettere a fuoco e ciò che si vede è che il rimpianto più grande che mi stava attaccato addosso, l'unico sopravvissuto a tutti quelli risolti, si è risolto a sua volta.
E questa è l'unica cosa che conta in un cammino come il mio, motivo per cui la cosa più surreale in tutto questo è che in questo momento sono felice perché non ne ho più nemmeno uno.
Che riguardi i vivi.
Per quelli che riguardano i morti non si può far nulla e quindi chiuso, oggi comunque ci si sia arrivati è un bel giorno perché mi ha detto di no.
Si è presa l'errore fino a oggi mio dissolvendolo e io oggi non ne ho più nemmeno uno (diciamo di esistenziali) nello zaino.
Quelli rimasti sono robetta al confronto del peso che in me aveva questo, e quindi hallelujah.

E quando qualcuno vi dice che non è vero che basti poco per essere felici non credetegli.
Il confine oltre il quale posizionare la felicità è la cosa meno oggettivabile del mondo e per questo non esiste una misura assoluta ma solo la propria per ciascuno, motivo per cui chi ve lo dice vi sta parlando della sua, non della vostra né dell'inesistente assoluto.
Io la mia qualche anno fa decisi di smetterla di posizionarla ad altezze cinematografiche ma irraggiungibili e decisi di affidarmi all'osservazione di chi ne sapeva più di me o che comunque portava la felicità pratica a prova dell'esattezza della misura, contro la quale quella teorica non può farsi ragione
Sono tutti anziani quelli davvero felici e ci sarà un perché se basta loro un bacio.
Ovvio, anziano non è sinonimo di stupido e quindi è chiaro che dipende da chi glielo dà e allora forse è in questo e solo in questo senso che si può dire che per essere felici non basti poco.
Nel senso che non è la misura del gesto ma di chi lo compie e allora sì, in quel senso lo penso anch'io, mai smettere di vivere in maniera da poter pensare di meritarsi il tanto.

E il tanto tra i chi è chi è capace di esserlo anche nel poco dei cosa e qui il cerchio si chiude e tornano ad aver ragione gli anziani che quel bacio lo ricambiano con una mela cotta, una torta, un programma tv visto insieme, una mano a lavare i vetri.
Chiamatela come volete ma quegli occhi lì sono felicità per nulla teorica e se ci hanno attraversato una guerra mondiale riuscendo a sposarsi sotto le bombe a fare figli a gruppi di mai meno di quattro e a riempire le tavole di ogni natale con due lire di pensione, forse di asticelle e di felicità realizzabile ne sanno qualcosa più di noi tutti supergiovani messi insieme.

5 marzo 2014

Delle ceneri e di arabe felici

Il filo dei non detti è una funivia che porta in cima come a valle, a seconda del tempo che fa, ti alzi presto ti prepari, bevi il caffé guardi fuori, c'è il sole prendi gli sci, ti metti in fila sali, arrivi sù c'è nebbia, ti rimetti in fila torni giù, rientri in camera ti spogli, domani ci riprovi e intanto vin brulè.
Il filo dei non detti è tenuto a rasoio dalla pietra dei Prigioni, schiavo o Atlante a seconda di chi ti osserva, a seconda di come lui si percepisce vede te, secondo il comune sentire sei più bello da irrisolto, secondo il comune sentire oltrepassi il tempo e lo spazio senza proferire parola né gesto, che non si possa dire che non si possa fare.
Il filo dei non detti segna il tempo di Penelope,senza un tradimento va avanti all'infinito, si chiama amore, anzi no promessa, anzi no speranza, anzi no fiducia, anzi no scelta, ecco, sì: scelta.
Il filo dei non detti ha due bicchieri agli estremi, un bicchiere è mezzo pieno l'altro è mezzo vuoto, da bambino ti insegnano che ciò che entra in uno passa all'altro, giochi per ore, impari per anni, funziona anche da adulti ma perché credano a una cosa così semplice devi chiamarla empatia, allora ci credono perché suona difficile, si riduce sempre tutto a questioni di autostima.
Il filo dei non detti è resistente come lenza, che fa rima con sostanza, che fa rima con costanza, che fa rima con pazienza, che fa rima con te.
In fondo al filo dei non detti il nodo in gola e l'amo.

3 marzo 2014

Breaking news

Esistono angoli di mondo nei quali ancora accade una cosa che ha dell'incredibile: le persone riescono a stare a tavola a parlare per un'intera sera senza che mai compaia un cellulare sul tavolo, in mano, forse persino in mente.
Angoli di pace nei quali ci si dimentica di stare qui e di stare ora.
Mi sto allenando a parlare di meno e solo di me o solo di te.
Mi sto allenando, non ho detto che ci sia già riuscito.
Comunque, la notizia è questa, cenare senza mai controllare il cellulare è possibile, non si muore.

A proposito di cellulare una cosa che mezzo mondo conoscerà e che invece per me è nuova: ne avete uno Android collegato a un account Google e usate le impostazioni predefinite? (cit. Attivissimo)
Allora visto che se mi state leggendo siete al computer, fate login al vostro account (probabilmente l'avete già fatto come prima cosa stamattina) poi cliccate qui e divertitevi col calendario.
Tempi duri per chi ha un(')amante (o più) e ha le password condivise col consorte.
Se non disabiliti la funzione hai alibi da trovare dal 2012 a oggi e riuscirci è impresa non alla portata di chi è così poco intelligente da farsi un'amante, se la disabiliti sei reo confesso/a da oggi per l'eternità.
In ogni caso se hai dubbi sul tuo compagno/a non serve più spendere soldi con Sherlock Holmes o in ansiolitici, basta che gli chiedi di fare la prova con te davanti e in sei secondi netti qualsiasi sia la risposta avrai la tua risposta.
E' il progresso bellezza.