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26 agosto 2017

Barricati

Mio padre amava bere bene ed era ammirato come Hemingway.

Mio fratello ama bere bene ed è abbracciato come Hemingway.


Io bevo qualsiasi cosa e di Hemingway ho solo letto un libro.

18 febbraio 2016

Pupazzo di nave

Esaurita la carica accumulata nella vacanza-libri di ottobre, rispondo a un novembre/gennaio a dir poco delirante replicando una versione invernale a forma di una fuga in montagna tra alberi, tisane e ancora libri.
L'anno scorso negli stessi giorni avevo letto più del doppio, quest'anno mi distraggo e fisso il vuoto per ore inseguendo un milione di pensieri, non è vero, solo due.

Uno sei tu, che poi è il solito motivo per cui resta spazio per al massimo un altro, posto a tavola per l'occasione occupato da un pensiero colto poco prima di partire, raccontando all'amica tutti quelli legati alla riscrittura da capo del progetto di società, da resettare a causa del fatto che i milanesi incontrati sulla tratta Milano-Londra sono stati più dei londinesi.
Quei pensieri che paiono marginali e invece sono quelli tipicamente sottovalutati fino all'ultimo minuto, quando ci si ritrova costretti a compiere la classica scelta che ama realizzarsi con l'esatta forma della piena consapevolezza che verrà superata dalla sua versione migliore precisamente un minuto dopo il punto di non ritorno e cioè: come la chiamo?
La martellante ridondanza dei due indissolubili pensieri ospiti mi porta a vederli come fossero un commensale che mi guarda e si aspetta da me l'alzata del bicchiere per celebrare con un unico brindisi entrambe le soluzioni, che in una forma meno arzigogolata è un modo per dire che il nome che mi risolverebbe il secondo dilemma si ritrova a essere in maniera insistente lo stesso che mi risolverebbe il primo e cioè il tuo.
Quella che doveva essere risposta unica a un doppia domanda ottiene così il risultato opposto e cioè l'aggiunta a tavola di altri due nuovi pensieri che per la precisione sono:
Uno: non credo che "Diamole il nome di una donna, come fosse una barca!", nonostante sia stato in passato capace di vendere cose anche più azzardate, passerebbe filtri di un destino imprenditoriale che temo non sia il caso di sfidare oltre quanto già fatto.
Due: il giorno che dovrò giocarmi la carta con tuo padre, temo mi converrà scegliere esempi che il sospetto di follia lo moderino, invece di accentuarlo, e non avrò seconde possibilità.

Un libro che in qualche modo parla di mio padre, anche se quelli come lui la guerra l'hanno sempre combattuta dalla parte sbagliata della linea del bene.
Karim è l'unico italiano arruolatosi volontario nell'YPG, la milizia curda impegnata in Siria, alla quale ha voluto unirsi per combattere l'ISIS sul fronte di Kobane e così completare la sua formazione di uomo troppo grande per stare dentro le sole parole di una guerra fino a quel momento combattuta solo con quel se stesso che, orfano di un padre di guerra, lottava per prevalergli e così metterlo a confronto con quello sguardo orgoglioso e paterno che solo la scelta di andare oltre le parole avrebbe potuto decifrargli e, finalmente, regalargli.
Un diario, gelo sangue paura di morire coraggio e infine vita dell'amore di una donna grande quanto un piccolo biglietto conservato all'altezza del cuore e mai aperto, tutto in tre mesi, raccontati nell'unico modo in cui si può raccontare un viaggio non solo interiore di quella potenza e cioè con l'aiuto di un uomo che stava nello stesso mondo iniziando il viaggio peggiore che uomo possa fare e cioè quello che inizia il giorno dopo in cui il telefono squilla e lo informa che suo fratello non c'è più.
C'è, nella prima pagina del libro, una dedica la cui detonante potenza si comprende solo una volta giunti all'ultima pagina del libro.
Vale la pena leggerlo anche solo per quanto grande è ciò da cui si viene invasi quando si chiude quel cerchio, anche se in questo caso essere me ammetto avere un peso, nel senso letterale del termine.

Per un malinteso iniziale la cui soluzione mi avrebbe richiesto più fatica di quanta fin da subito ho capito me ne avrebbe richiesta il sopportarlo, l'unico amico che in questi dieci giorni mi sono fatto e cioè il pizzaiolo siciliano del posto dove cenavo, per dieci giorni mi accoglie ogni sera dal banco forno con un rumoroso "Ciao Calabria!" risultato di uno scambio a tema usato per conoscere un po' questo tipo strano che tutti i giorni entra e per ore se ne sta al tavolo da solo a leggere.
In altri posti e in altri tempi avrei risolto il primo giorno, ma sono in Val d'Aosta, regione per me nuova che mi regala due consapevolezze inattese: il suo essere una montagna meravigliosa e il suo apparire abitata da soli calabresi; la somma delle due rivelazioni mi suggerisce che mi trovo in quella che ha tutti i contorni per essere l'unica occasione nella quale chiamarmi "Calabria" può essere un vantaggio e per questo accetto il battesimo senza opporre resistenza né fastidio, se non nel momento in cui mi rendo conto che la sua dichiarata amicizia mi regala l'astio di tutte e tre le pornografiche tope gentilissime cameriere che muovendosi tra i tavoli hanno riempito per dieci giorni il mio immaginario erotico e che mai quanto dopo avermi visto eletto a suo amico fraterno è diventato tanto immaginario.

Un libro che in qualche modo parla di mio padre, anche se nella parte in cui è lo zio quello che conformista era in grado di esserlo solo a patto che tutti riconoscessero il compromesso.
Lo compro dopo averne sentito parlare da tutti per mesi e già questo avrebbe dovuto farmi intuire la sòla, ma la curiosità generata dalle sintesi dell'idea di base lette in giro è maggiore e decido che sarà in valigia.
Un'introduzione che sembra scritta dalla madre dell'autore tanto è elogiativa, mi informa che mi conviene allacciare le cinture di sicurezza perché cadrò dalla sedia dal ridere, le voci che avevo sentito trovano così conferma, andiamo.
A pagina venti mi chiedo se la sedia non sia troppo salda, a trenta mi chiedo se sia ancora nel capitolo scritto per partire con un'abile costruzione dell'hype, a quaranta scrivo all'amica personal-booker chiedendole entro quante pagine sono autorizzato a buttare via un libro per manifesto raggiro, mi autorizza alla quaranta, penso sia un modo per sminuire con gentilezza le mie qualità di usufruitore di letteratura di fama mondiale e accetto la sfida di altre venti pagine, ne reggo solo altre dieci prima di stabilire che l'assenza totale non solo di qualsiasi vibrazione alla sedia ma anche solo di impercettibili tensioni muscolari a uno degli ennecento muscoli della faccia è motivo sufficiente per non perdere un solo altro minuto della mia preziosa vacanza-lettura.
Meno male che pesa poco perché comunque decido che con me è arrivato e con me tornerà indietro, se non a farmici cadere magari in futuro può tornare utile per garantirla la stabilità delle sedie e così sentirò giustificati gli euro spesi.

L'hotel è una piccola bomboniera ai piedi del Monte Bianco, una di quelle isole felici in un luogo nel quale dietro ogni altra porta spendi per un panino quanto in hotel spendi per pernottare.
Gestito da una famiglia di monarchici che ci tengono a rendere nota la condizione inscatolandoti in pareti tappezzate di quadri autocelebrativi, si rivela essere tanto bello quanto ben gestito da persone che rispondono "Sì" a qualsiasi domanda, richiesta, desiderio.
Vecchio stile in contraddizione con un atteggiamento generale di un paese che come ogni montagna è un tantino roccioso con i forestieri, fa venir voglia di testare la tenuta facendo domande su domande, tranne l'unica che mi sono tenuto e cioè la possibilità di abbassare un po' un riscaldamento che per dieci giorni mi ha fatto dormire senza nemmeno la maglietta e fuori dalle coperte per riuscire a respirare un po', mentre fuori dalla finestra i pinguini bussavano per entrare.
Hotel per fidanzatini freddolosi di ritorno dalle terme, ogni mattina a colazione il buongiorno di un cuscino appoggiato sulla credenza che in qualche maniera mio ricorda mio padre, ma solo per non dire che in realtà è di te che mi parlava e così indispettire mezzo pianeta, quello che non vuole accettare che dove si è felici in due si è felici davvero.



Un libro che in qualche modo mi ricorda mio padre, come ogni libro di De Luca mi ricorda mio padre nello spessore di una pelle impenetrabile e nel mio averlo eletto miglior compagno di silenzi e di fughe da me stesso, nel  denudare pubblicamente il proprio isolamento dipingendolo con parole di viaggiatore per il quale ogni età è un luogo e ogni luogo è casa perché nessun luogo è casa, nei racconti che sono persone e non di persone, nello scrivere centinaia di pagine per dire cose che le persone davvero in pace con se stesse dicono con un bacio, uno sguardo, nella levità di un macigno, nel continuare a scrivere sempre lo stesso libro, sempre lo stesso racconto, quell'Io sussurrato che nulla chiede perché troppo desidera e a non esistere non è la risposta al desiderio ma chi è in grado di portarla in dote.
Ah no, questo non è mio padre, questo sono io, ma nessuno mi chieda di dare una dimensione alla differenza perché dovrei tirar fuori un altro libro di De Luca e usarlo come metafora dicendo "Mio padre è sempre stato i suoi libri" e alla domanda "I suoi di De Luca?" rispondere "Vai via".

Quando nonna ha compiuto ottant'anni, quindi esattamente otto anni fa dato che l'altro giorno abbiamo spento le ennesime fortunate ultime candeline, come le chiama lei vestendole di un pessimismo ormai cronico che però a quest'età inizia a essere guidato anche da una quota di realismo che sarebbe ingiusto non iniziare a considerare tra le prove di una lucidità mai persa, decise di celebrare il traguardo prendendo un foglio, una penna e scrivendo una lettera.
Quando mi raccontò per la prima volta l'aneddotto, nel senso che non ha perso la lucidità ma la memoria sì e quindi abbiamo un carnet di una decina di aneddoti che a cicli settimanali mi racconta sempre come fosse la prima volta e questo è uno di quelli, arrivati a "scrissi una lettera" pensai a un amante lontano, un perdòno mai chiesto, una lettera al papa dal quale tutt'ora attende la guarigione miracolosa per mio fratello, quelle stazioni insomma che sono adeguate alla solennità del traguardo.
Macché, scrisse alla Findomestic, della quale era stata cliente per decenni e dalla quale, avendo sempre pagato tutto senza mai saltare né un'ora né un centesimo come ogni appartenente alla generazione dei dignitosi, continuava a ricevere depliants e proposte di prestiti.
Scrisse per ringraziarli.
Per ringraziarli di averle permesso di raggiungere gli ottant'anni senza dover mai chiedere niente a nessuno, per averle permesso di dotarsi di tutto ciò di cui una vedova di quarant'anni con due bimbe a carico aveva disperato bisogno perché nessuno tranne lei subisse una vita di mancanze, per averle dato una cinquecento con cui portarci all'asilo, una cucina nella quale accoglierci tutti a natale, una lavatrice con cui mandarci tutti in giro per il mondo con la testa alta di chi pulita non aveva solo l'anima, per ringraziarli di averle permesso di dare a quelli intorno a lei una vita senza le privazioni che a lei il destino aveva imposto.
- Ti hanno mai risposto?
- No, però da quel giorno non mai più ricevuto depliants, quindi almeno so che l'hanno letta.
Ecco io lo vorrei conoscere quello che l'ha ricevuta, solo per chiedergli come abbia fatto a non rispondere, a non venire investito dalla voglia di andarla a conoscere, una donna capace di una lettera tanto bella.
- Vabbé nonna, prima di sparecchiare il solito amarino?
- Sì è nel mobile
- Nonna è finito, c'è solo whisky qui dentro
- Va bene il whisky.

Un libro che in qualche modo mi ricorda mio padre e quei percorsi di vita che partono da una casa di fantasmi e a una casa di fantasmi arrivano, in quel personaggio che torna nella campagna natìa sulla sua auto fiammante di lavoratore che ce l'ha fatta così tanto che tiene testa ai cinesi e senza cartina né bussola si ritrova proprio di fronte a quella porta, non un'altra, e senza sapere perché la sente sua.
Il perché lo scoprirà solo dopo aver attraversato il proprio inferno interiore fatto a forma di sette ponti.
Ora non so se il fatto di aver capito come si sarebbe svolta l'intera storia più o meno a pagina dieci dipenda dal fatto che è un racconto proprio semplice (prima o poi andrà affrontata questa ormai diffusa abitudine di vendere libri stampati in corpo 50 interlinea 60 e margini di quattro centimetri per lato solo per poter chiamare "Libro" racconti che stanno su due A4) o dal suo essere l'esatto racconto della mia vita, sta di fatto che alla fine di ogni pagina sapevo esattamente come sarebbe iniziata la successiva e via così, per l'intero libro, fino all'ultima pagina nella quale sapevo avrei letto cosa avrei fatto io al posto del protagonista e infatti.
Ora uno dirà che i libri hanno proprio questo di bello, ciascuno può vederci dentro la propria storia, e io dirò che lo so, sono un lettore amatoriale ma non sono stupido, la so fare la tara ai vorrei e ai condizionamenti.
Poi però ci sono gli incubi e quelli non li racconti letterali se quei sette ponti non li hai passati nello stesso modo, ma soprattutto c'è una casa riconoscibile per una particolarità del tetto che la rende diversa dalle altre, la rende riconoscibile.
Lui si propone di comprarla per rifarla a partire da quel tetto un po' strano, gli occupanti gli dicono che il tetto va lasciato così com'è.
Torno a casa e, come un tempo facevo spesso, apro Gùgol maps per andare a rivedere quella casa e sognare un po' come se ci volassi sopra insieme a Campanellino.
Non ero pronto al fatto che quelli di gùgol aggiornano le mappe con ciclicità e che quindi non avrei visto la stessa casa dell'ultima volta.
Nelle mappe delle case vedi il tetto, l'unica cosa che chi la abita ha deciso di cambiare.
Vado in streetview, voglio vedere cos'altro hanno cambiato.
Niente, solo il tetto, quel libro parla di noi e non solo perché alla fine i cinesi, del libro come della vita, hanno ottenuto ciò che volevano.

Ho una tua foto nel telefono.
Sì lo so non dovrei, è sbagliato.
E' sbagliato perché non te l'ho chiesta e nella stessa maniera in cui mi sento sbagliato quando qualcuno mi fa leggere parole personali non scritte da me o a me, sento che quella foto è una violazione.
E' che mi fai sentire così tanto perdonato per ciò che sono, che quella piccola violazione ai miei stessi princìpi mi sembra in qualche modo una conferma, per essere perdonato bisogna aver sbagliato ma io con te non ho sbagliato per assenza di occasione più che per bravura e ti vorrei così tanto che vorrei persino poter sbagliare solo per potermi vantare con il mondo del tuo perdòno e allora mi confeziono violazioni dedicate che solo tu mi perdoneresti, lo so, te lo leggo in quello sguardo nella foto.
Solo che una violazione è e resta una violazione e allora l'ho sì confezionata perché fosse tale, ma poi essendo appunto tale il senso di colpa mi porta a non guardarla mai per non reiterare il reato e non abusare del tuo non saperlo.
Ciao sono Bruno e sono in perfetto possesso del mio equilibrio mentale.
Che non significa che sia IN equilibrio, ma solo che del suo stato attuale sono in perfetto possesso e, fidati, è una cosa che non si incontra così spesso.
Solo che ancora meno spesso si incontra qualcuno in grado di perdonarlo quell'equilibrio, ed è questo che rende quella foto la cosa più preziosa che abbia mai rubato in vita mia.
Mi perdoni?

Un libro che in qualche modo mi ricorda mio padre, vuoi perché l'associazione tra le parole Torino + Casa + Nostra mi riporta a un plurale che salta indietro nel tempo di quarant'anni, vuoi perché le zone che racconta con più affetto sono quelle in cui si passeggiava insieme, vuoi perché le zone che più invoglia a visitare sono quelle che io meno pratico per non farlo anche fisicamente il salto nel tempo e così rimanere impigliato nell'unica ragnatela che trasferendomi qui mi sono ripromesso di evitare con tutto me stesso e cioè quella delle vie crucis.
Un libro che restituisce a Torino quella bellezza che persino molti torinesi ignorano e per questo un libro che in ogni pagina mi ha fatto pensare che solo un torinese che ci è cresciuto possa apprezzarlo per il libro che è.
Per tutti gli altri, me compreso, una lonelyplanet non di ciò che si trova oggi, ma di quanto è impresso nei muri, nel selciato, nelle finestre, nella storia di una città che prima o poi dovrò iniziare anche a vivere e non solo abitare.

Un problema fisico che ogni tanto si riaffaccia e che prima o poi dovrò indagare e magari, bum, persino curare, mi ha concesso nell'ultimo mese un'autonomia di movimento che non andava oltre le due ore lontane da un luogo chiuso e comodo nel quale resettarmi.
Essendo rispuntato nello stesso mese della mia vacanza, mi ha impedito di dare libero sfogo alle mie note doti atletiche che in montagna avrebbero certamente dato prova di essere tutt'ora all'altezza dei traguardi di età più verdi.
Ora io sono uno che se fa tre gradini ha il fiatone, ma per un misterioso insieme di elementi che solo quando perfettamente incastrati mi fanno indossare una potenza che lèvati, quando si tratta di camminare all'aperto sono capace di scalare, letteralmente, le montagne e così l'unica attività diversa dal muovere i muscoli delle dita per girare le pagine che mi sono concesso in questa vacanza è stato il camminare nei boschi per ore e dislivelli con cartelli Alert che nemmeno in fila alle montagne russe sono così minacciosi e scoprire, grazie alla facilità con la quale mi muovo quando intorno c'è silenzio e aria e alberi, che il mio futuro è il trekking!
Allora vado all'ufficio del turismo e chiedo la mappa dei sentieri, la tizia al banco mi guarda, indossa lo sguardo di chi ha di fronte un espertissimo ma il tono di voce di chi pensa "Ecco un altro che tra due ore dobbiamo andare a cercare con l'elicottero" e mi informa che in inverno non ci sono sentieri affrontabili da solo, aggiungendoci nel silenzio dei suoi pensieri "cazzone".
Deluso dall'impossibilità di offrire al pubblico la manifestazione delle mie doti sportive, torno in hotel e compenso cercando in rete informazioni, siti, notizie, come si fa lo zaino, cosa devo comprare, cosa serve sapere per non perdersi, come mi devo vestire, come si accende un fuoco, come si caccia per mangiare, come si potabilizza l'acqua, insomma tutto quello che serve per confezionare con tutto l'entusiasmo che ogni volta ci metto l'ennesima cosa che non farò mai perché lavoro troppo.

Se il libri precedenti mi hanno in qualche modo ricordato mio padre, qui siamo direttamente alla stenografia della nostra storia e sfido chiunque, chiunque di quelli che a ogni "un libro che in qualche modo..." precedenti mi hanno commiserato, a negare l'evidenza.
Abbiamo un padre mai vissuto, abbiamo un figlio che non ha mai smesso di averlo accanto, abbiamo ricordi intimi e confidenziali di amici offerti post e usati come matite per delineare i contorni di un vuoto non colmabile con le sole informazioni pubbliche mediate, abbiamo una voce registata come unica forma di contatto con quel suono troppo spesso soltanto sognato, abbiamo ore, giorni, mesi, anni di incontri immaginati come fossero un film con dialoghi, luoghi, abbracci, scoperte, abbiamo un figlio il cui vuoto più grande è l'impossibilità di mostarsi uomo oggi che l'esserlo sarebbe finalmente quella somma di speranze da bambino solo ipotizzabili e persino accusabili come mancanze prima ancora di avere il tempo di provare a esserne all'altezza, abbiamo domande con risposte autoprodotte in eterna assenza di conferma.
Abbiamo un Veltroni di indubbia delicatezza e amore, che non chiede di fare la storia della letteratura ma solo di dare forma a un'anima che volente o nolente una forma la pretende e la chiama ogni giorno, in ogni azione, in ogni passo.
C'è un motivo se una centrifuga assatanata come la politica italiana ha espulso figure come Veltroni o Prodi e quel motivo è che ci sono piani di vita che non saranno mai compatibili con la bontà d'animo e compromessi con la propria storia che non si sarà mai in grado, prima che disposti, ad accettare.
C'è una foto di suo padre negli studi tv insieme ai suoi colleghi che per lui rappresenta il conosciuto e lo sconosciuto di un uomo del quale gli mancavano persino i lineamenti, in quella foto per lui indecifrabili.
Quando mio padre scomparve, dalla scatola delle poche cose che riuscimmo a recuperare saltò fuori una foto di lui negli studi tv insieme ai suoi colleghi, ha uno sguardo che non sono mai riuscito a decifrare ma era lui come non l'avevo mai visto.

Una vita non basta per smettere di essere così fragili.




4 febbraio 2016

Non pensare che t'abbiam dimenticato

Un antico maestro, Akivà, disse: "Una siepe intorno alla saggezza è il silenzio". Forse il suo era così, una siepe, ma un silenzio sbagliato arrugginisce il ferro dentro il sangue. Chi per insufficienza tace, è condannato a ripetere nel vuoto delle sere le parole di risposta che non vennero in tempo.
[...]
Nelle sere in cucina, seduto al nostro tavolo deserto, mastico la mia cena occhi nel piatto e inghiotto le mancanze di cui sono composto.

Il più e il meno
Erri De Luca.

27 luglio 2014

è ancora come tu fossi una mattina da vestire

Tredici anni, mese più mese meno, non ho voglia di star lì a controllare per dare la dimensione esatta a un'esattezza che non serve a niente, fossero tredici e mezzo, boh forse quattordici, mi rendo conto che è inutile contarli se dopo tanto tempo è come fosse ieri e quindi anche fossi preciso, scoprissi che sono quattromiladuecentotrentasei giorni sarebbero comunque uno e allora tantovale non contarli nemmeno.
Li ho risolti pressoché tutti gli sbagli, le cadute, le sviste, i vuoti, le colpe, gli amori, con lenta e paziente costruzione sono riuscito a chiudere cerchi che manco erano tali quando ci inciampai, per sbadataggine o perché me li tirarono contro mentre correvo sperando di farmi cadere e sovente riuscendoci, e a costruire strumenti con i quali sono oggi in grado di riparare qualsiasi ingranaggio si blocchi e in due secondi farlo ripartire e con lui tutti quelli collegati.
Quanto sia grande il pezzo di me che morendo ti sei portato via è una cosa che invece sembra non avere soluzione, se dopo tredici anni il buco invece che stringersi si è allargato ogni singolo giorno, ogni singolo giorno di più e immagina cosa possa voler dire ogni giorno di più per tredici anni, sono tantissimi.
Quanto mi manchi è una lacerazione che non so dipingere.
In più di quarant'anni ho trovato il modo di raccontare qualsiasi cosa, per ogni giorno ho scritto un racconto perfetto, ogni storia ha trovato le parole giuste, la costruzione a misura, la foto a fuoco e questa invece no, questa è una delle poche cose o forse l'unica che non so esprimere, come le parole a oggi imparate in tanti anni non avessero il peso necessario, la forma, il suono.
Mi viene da dire che mi manchi tredici anni ma non è vero, mi manchi venti, trenta, cinquanta, dovessi dare una dimensione al buco di una vita insieme mancata l'unica dimensione che mi sembra a misura di questo buco è che mi manchi più di quelli che ho vissuto, più di quanto mi sia mancato io quando mi sono perso tutte le volte che mi sono perso messe insieme e sono tante, proprio tante, e lo stesso tu mi sei perso una in più.
Mi manchi così tanto che la foto del momento peggiore che mi hai fatto vivere mi sembra così bella.
Non l'hanno capito gli altri che è così che funziona il perdòno, che è per quello che lo chiamano grazia.


31 maggio 2014

Il Mario è sempre stato di quaderno

Ieri sera ho impegnato una parte del mio 85% di possesso palla (efficace sintesi con la quale la mia gentile amica ha riassunto il tempo/parola che concedo a chi esce con me sapendo che avrei capito che la sua gentilezza l'aveva portata ad arrotondare comunque per difetto anche se non ha avuto il tempo di precisarlo) raccontando, tra l'analisi del voto M5S, la forma dell'amore eterno e una chiacchiera con il cameriere che come da tradizione è stato magneticamente attratto dalla voglia di mettersi a parlare con me e perché dovrei privarlo del piacere, la presenza continua del Grande Regista Superiore.
Aneddoti, episodi, casualità innegabilmente poco casuali.
Chiudo la nottata dedicando la parte rimanente di quel 85% a tutto ciò che su questo blog porta il nome, necessario per romanzare ciò che non può essere raccontato apertamente, di Mario e all'importanza di conservare la memoria di ciò che si scrive di sé, l'importanza di appartenere a un posto che parla della propria storia, dall'albero in quel momento accanto a noi dove Mario Senior parcheggiava la moto sulla quale mi attendeva, del balcone affacciato sulla macchina sulla quale eravamo seduti ieri sera e dal quale io, mille anni prima, ricevevo indicazioni di vita.
Un 85% speso a parlare dell'importanza della memoria e degli archivi, fondamentali nella politica come per la costruzione e il risconoscimento dell'identità personale.
Stamattina leggo in mail, tra le altre cose, di un progetto floreale che racconterà una storia d'amore lunga mille anni e per questo eterna.

Oggi scendo in cantina su richiesta di nonna per cercarle una bilancia nascosta chissà dove.
Apro scatole, sposto cassette, tolgo teli, trovo inaspettatamente quaderni, riconosco copertine, risento profumi, un tunnel spazio-temporale mi spara a velocità luce indietro di trentaquattro anni, sospendo la ricerca della bilancia, apro pagine, la macchina del tempo mi porta nel punto in cui stavo quando vivevo le cose delle quali parlavo la sera prima, apro a caso il quaderno, chiamiamolo archivio dei nonni, chiamiamolo identità, chiamiamola storia d'amore lunga mille anni,chiamatelo solo un colore, chiamatelo Mario, chiamatelo destino, chiamiatelo come volete, io lo chiamo Grande Regista Superiore e queste sono le cose che fa.



Update:
Il giorno dopo, oggi, la bilancia viene trovata da nonna che però mi chiama perché, dice, visualizza dei numeri strani.
Vado a vedere, ci salgo, le dico no.
Che non sono numeri strani, è la batteria che va cambiata.
A lei che fosse sempre il Grande Regista Superiore che chiudeva il cerchio non mi sembrava il caso di dirlo.

La sostenibile leggerezza dell'essere





7 novembre 2006

Passerà

Sono lì, da giorni.
Tutti disposti sul tavolino, uno accanto all’altro a far bella mostra.
Si, è perché manca la libreria, ma un po’ anche per star lì a far bella mostra.
Sono lì che mi guardano da giorni, uno accanto all’altro, un ordine cronologico casuale, che importa quale è nato prima e quale dopo?
Che per caso gli altri ricordano i consigli dei genitori in ordine cronologico?
Se ne sfoglia la fodera, come fosse una cipolla, e se ne conserva il nucleo.
Di quella volta là, quella volta che tuo padre si accorse che qualcosa dentro nasceva, per la prima volta soffrivi, per la prima volta decise di chiudere un occhio su quel ritardo non comunicato.
Ché gli uomini sono tutti tornati in ritardo, erano loro che facevano avanti indietro vai a prenderla accompagnala prendila portala aspettala devo essere a casa entro mezzanotte si va bene sarai a casa per mezzanotte anch’io dovrei solo che alle undici e cinquantanove siamo stati capaci di baci che valevano quel niente cavallo a dondolo il natale dopo e tutti i quest’anno cavallo a dondolo precedenti.

Noi si combatteva per il rapporto buono con la famiglia delle nostre donne, ma non tra noi e quella famiglia, ma tra la sua famiglia e lei, noi si arrivava in ritardo per non fare arrivare in ritardo lei, noi si veniva cazziati dai nostri perché non venisse cazziata lei dai suoi, chissà se l’avete mai capito, questo, quando ci dicevate che per ciò che si ama bisogna combattere, c’eravate mica, voi, quando noi stavamo in piedi in sala a mezzanotte e mezza a trovare motivi per non star lì a discutere che più si stava lì e più sfumava il profumo dalle mani che per tutto il viaggio in macchina avevamo protetto dai finestrini e dal fumo per poterlo portare a letto con noi, mentre voi da mezz’ora già dormivate coccolate da genitori orgogliosi di voi pronti al sorriso la mattina a colazione.
Bisogna combattere per ciò che si ama ti disse quella volta là tuo padre quando capì che tra tutte le sere quella era la più dura, la prima, stai sveglio mezz’ora in più, tanto non dormi lo stesso, ci vediamo domani.
Oh.
Ehi.
Ehi.
Passa, credimi.
Ricordati di spegnere la luce in cucina.
Dopo quindici anni di quella sera hai tolto lo strato sul quale avevi dipinto sua mamma e quella sua faccia “è arrivato” quando ti apriva la porta e finiva la frase di spalle ed era difficile comprendere due posizioni così opposte in una frase tanto breve eppure per te lo sforzo lo faceva ci teneva che la vedessi di spalle, ci teneva proprio, quelle poche volte che non apriva quando eri ancora giù per avere il tempo di tornare di corsa davanti alla tv e farsi trovare di spalle sul divano al tuo passaggio tra il fuori e quella stanza, hai tolto lo strato colorato del colore di quel maglione che non era tuo, che non era suo, che non era più tua.
Hai tolto i semafori rossi al ritorno, la musica a palla, la chiave non entra, è l’altra.
Hai tolto il suo nome, i pacchetti a natale, i biglietti d’amore scritti la sera prima di dormire da darle all’ingresso della scuola nel rito dello scambio con il suo da mettere nella smemo, smemorato hai tolto tutto, hai tenuto solo quel profumo sulle mani e tuo padre che ti dice passerà, era vero, quel profumo, era vero, sarebbe passata, questo conservi, sei cresciuto, quella sera in quella mezz’ora sveglio sei cresciuto con quel passerà.
Tu.
Io ho solo il profumo.
Quei libri sono lì, mi guardano e mi dicono ascoltaci, passerà.
Cosa? Chiedo loro.
Non lo sappiamo, qualsiasi cosa, scegli tu, passerà.
Io non lo so se è così, ma ho sempre pensato che chi traduce non su commissione, un po’ scriva.
Ché alla fine se sei tu a scegliere cosa tradurre, leggendo le tue traduzioni si possono leggere i tuoi pensieri, ciò che sognavi, quello che chiamavi bello, quello che ti emozionava, quello che volevi che gli altri sapessero, ascoltassero, imparassero.
Io così ho sempre letto i tuoi libri.
Con la curiosità di chi da ogni pagina ricava un pezzo di quell’anima che non ha mai visto la sera a dirgli che sarebbe passata, quando credevo che non sarebbe mai passata.
Oggi lo so, lo so per esperienza, me l’ha spiegato il tempo, le volte, non esiste un’ultima volta.
Oggi li leggo per conoscerti, per sapere cosa mi avresti detto se fossi stato lì quella sera.
Mi guardano dal tavolino, tutti lì disposti in modo che si vedano tutti senza che nessuno copra l’altro, una cornucopia tutta mia pronta a darmi tutti i perché, i quando, i cosa, i chi sei, i passerà.
Ne ho scelto uno subito, quello che aspettavo più di tutti.
Lo aspettavo perché è l’angolo più nascosto, più personale, quello che nemmeno se ci fossi stato avrei visto, quello intimo, quello animale, l’unico vero, l’unico utile per conoscere una persona, per conoscerla davvero.
È pieno zeppo di passerà.
Vigliacco, li avevi.

"Se nelle arti d’amore non hai talento,
Darai solo inutili dispiaceri.
Al buio la bellezza non si vede;
In battaglia non serve essere poeta.
Se non sai che dire vane parole,
Perché ti rechi a un incontro galante?
Se dalla natura vuoi uno strumento adatto all’amore,
Dovresti poter decidere tu le sue dimensioni.

I versi cinque e sei contengono un’espressione idiomatica che richiama un episodio dell’antichità cinese; abbiamo preferito tradurre solo il senso. L’episodio richiamato dice che il re Xiang salì sul monte Wu e a un certo punto si stancò e si addormentò. A un tratto gli apparve una fata e gli disse che era la signora del monte Wu. Si coricò con lui e al momento di andare via gli disse: “All’alba regno sulle nuvole del mattino, a sera chiamo la pioggia”. Per questo in cinese si usa anche Yum Yu, “nuvole e pioggia”, come eufemismo per indicare i rapporti sessuali."

Li Yu - Il tappeto da preghiera di carne. Racconto erotico cinese d'epoca Qing
A cura di Edi Bozza
Oscar Mondadori

27 ottobre 2006

Mike

Sono giorni che penso alle parole da usare, senza arrivarne mai a capo.

Sarà la primavera, sarà quest’aria tenera che mi aleggia intorno da un po’ di giorni a questa parte, sarà quella sensazione così nuova per me, sempre più presente, che mi fa propendere sempre più spesso per la conservazione delle cose importanti in cassetti il cui accesso è condizionato da dettagli insignificanti quali la vicinanza, la voce, il tocco delle mani.

C’è che le parole che vorrei non mi escono.
Non mi escono qui.

Ci sono vicende per raccontare le quali è sufficiente la memoria, unita a due cucchiaini di capacità di romanzare e mezza bustina di sentimento, agitare, versare, bere, ruttare.
Più facile di quanto appaia a chi beve il prodotto finito e s’immagina chissà quale lavoro dietro.
Ci sono invece vicende che richiedono più applicazione, più impegno, in qualche modo più cautela e spesso a sentire la necessità di questo maggiore impegno sono quelle vicende che non sono vicende ma persone.
La differenza tra vicende facili da tradurre e persone difficili da raccontare, mi sono reso conto, è il tempo, il tempo di reazione.

Il tempo di reazione è quello che differenzia le emozioni provate da quelle generate.
Quando qualcosa mi emoziona, quello che passa nella prima frazione di secondo attraverso le mie vene è l’emozione provata e tutto quello che esce in quel momento è il racconto di quell’emozione, reale, immediato, pulsante.
Quando quel qualcosa lo racconto, il tempo delle vene è trascorso, le parole hanno avuto il tempo di decantare e questo le rende a volte migliori, ma non reali.

Questa consapevolezza mi porta a vedere sempre come un momento sprecato il mio non poter comunicare a caldo le cose emozionanti quando mi capitano e a considerare spesso il racconto successivo come un qualcosa di tradotto, di ricolorato, di falsato.
È un peccato, perché le parole migliori sono quelle che mi escono nel primo secondo, quando sono le vene a parlare e non la memoria di due giorni, tre, una settimana dopo.
Dentro quei cassettini sono custodite tutta una serie di cose che non sono state raccontate nel primo secondo e che per questo rimarranno lì per sempre e anche quando qualcuna di loro verrà presa e esposta, sarà sempre un’esposizione che ne mostrerà solo ciò che si può vedere ma non ciò che si è sentito nel momento in cui ho deciso di metterla nel cassetto.

Per questo motivo ultimamente molte delle cose che vorrei dire non le dico.
Non è riservatezza, non è timore né incapacità di raccontarla.
Semplicemente mi rendo conto che certe cose, quando provo a tirarle fuori dal cassetto per raccontarle, non sono belle come quando ci sono entrate, perché il tempo trascorso ha tolto alle parole l’immediatezza del sangue che cambia velocità.
E non si scappa, tolto quello tolto il novanta per cento della loro bellezza.
E per questo me le tengo.
Mi dico che sarebbero solo traduzioni per un pubblico che comunque non potrà sentire quello che vorrei e per una strana forma di protezione da questa specie di banalizzazione, le rimetto al loro posto e le lascio lì, per me.
E per chi c’era nel primo secondo.

Sono giorni che vorrei dire grazie a una persona.
Ma questa persona, per colpa del mio esser stato colto di sorpresa, non si è trovata dove meritava di trovarsi, lì accanto a me nel primo secondo dell’emozione.
Lo stupore mi ha lasciato incapace di fare quello che avrei dovuto fare e cioè scoprire subito cosa conteneva quella scatola.
Non capivo, non ero preparato e per questo ho atteso.

Se dicessi oggi, a distanza di una settimana, quello che è passato nelle mie vene nel momento in cui ho aperto la scatola, non uscirebbe nemmeno una goccia di quell’emozione provata in quel primo secondo.
Uscirebbe una cronaca fatta per il grande pubblico di un istante che è stato un istante e che per questo non può che essere irripetibile e di conseguenza irriferibile.
Per dirgli grazie dovrei parlare con le parole di quel primo secondo ma per parlare con quelle parole dovrei poter tornare a quel primo secondo.
Quando ho aperto la scatola ho parlato ininterrottamente per un’ora.
Se l’è sorbito un’altra persona, il mio grazie detto ad alta voce.
Si trovava lì ed è toccato a lui ascoltarsi quello che avrebbe voluto essere questo post e che invece non sarà.

Allora io stasera ho deciso di smetterla di cercare le parole per raccontare chi è la persona che mi ha dato quella scatola e cosa mi ha fatto provare con quel gesto e ho deciso di non star più lì a cercare le parole giuste perché se lo facessi nonostante non le ho, sarebbe solo per voi e non per me né per lui.
Per me perché io quello che ho provato ce l’ho dentro.
Per lui perché le parole per lui possono essere quelle e solo quelle del primo istante.
Smetto quindi di cercare un modo per dirgli grazie qui, consapevole che un grazie non è tale solo se detto qui, ma è un grazie se è sentito dentro come tale, senza bisogno di raccontarlo.
E gli prometto, mi prometto, che d’ora in avanti tra gli obiettivi della mia vita ci sarà sempre la speranza di riuscire a regalare a lui un primo istante come quello che ha regalato lui a me.
E se non dovessi riuscirci sarò comunque contento per il piacere dell’essermi dato preso questo impegno.
Ché a volte per star bene non è necessario farle, le cose, ma basta anche solo averle dentro come valore, come speranza, come sogno.
E io come sogno, sogno di fargli provare anche una sola volta quello che lui ha fatto provare a me.
Meno di quello, non sarebbe un grazie.

A voi trasferisco solo la pura cronaca, tanto il resto non uscirebbe come è dentro, e la trasferisco perché lo devo a tutti quelli che hanno anche solo per un istante partecipato a questa mia cosa, per me così importante.
La settimana scorsa un amico ha aperto il baule della macchina e ne ha tirato fuori una scatola per me.
Non c’era ricorrenza, non c’era festa.
Ho pensato fosse qualcosa per la casa e per questo mi sono lasciato andare al piacere della “scatola”, contento del gesto indipendentemente da cosa contenesse.
Per questo ho commesso l’imperdonabile errore di aprirla solo quando a mia volta salito in macchina.
Non potevo sapere, non potevo immaginare, non credevo possibile che potesse contenere tutti i libri di mio padre.
Tutti.
Tranne uno, vabbè, ma quell’uno ce l’avevo, diciamo tutti quelli che mi mancavano.
Usciti tutti insieme dallo stesso posto nel quale non si trovavano in vendita, dettaglio tutt’altro che insignificante, poiché significa che per farli uscire ha dovuto fare una cosa davvero grande.
E l’ha fatta per me.

Grazie Mike.
Poche volte mi sono sentito tanto in debito.
Poche volte mi sono sentito tanto felice.
La traduzione in parole, purtroppo, è stata roba dei minuti successivi che non sono in grado di replicare.

La ricerca è completa.

Il mio grazie è altrettanto grande per tutti quelli che mi hanno aiutato, che mi hanno fatto avere copie dei libri, che me li hanno anche solo fotocopiati, che li hanno trovati ma che ancora li conservano per quando ci vedremo come ci siamo promessi e come voglio ancora fare, che ancora ne troveranno e che sarò ancora felice di ricevere, perché più ce ne sono in giro e più ne voglio io.
Ognuna di quelle copie ha in sé una persona, una storia, un gesto che è stato, che sarà e che rimarrà sempre una delle cose più belle che la gente abbia fatto per me.
Vorrei poter raccontare il primo istante di ogni libro che ho ricevuto, ma non ne sono capace.
Quindi mi limito a chiedervi di immaginare, per quanto possibile, cosa possa significare esser riuscito a veder concludersi questa ricerca.
No, lo so, non si può.
È roba di istanti irraccontabili.
Sentirsi in debito è una delle sensazioni più belle che esistano.
Perché significa essere costantemente consapevoli di aver ricevuto.
Di aver ricevuto proprio tanto.
Per molti questo è poco più di qualche pixel e una scatola di plastica.
Per me è un posto dove le cose che si desiderano possono accadere davvero.
Dove se chiedo di guardare un serpente dal cielo poi lo vedo.
Dove se voglio essere più vicino a mio padre basta che lo chieda e la magia avviene.
Si può realizzare tutto.
E non è un romanzo, accade davvero.
Siete dieci e siete davvero tutti speciali.

Grazie, uno per uno.

11 maggio 2006

per esempio

Ehi, Pà.
Mi hai visto, oggi?
No?
Ecco, l'ho fatto lo stesso.

Lo schema è:
Tu non hai mai voluto vedere, io ho sempre fatto lo stesso.
Tu non puoi più vedere, io continuo a fare lo stesso.
>Che in fondo, a ben guardare, se pure indiretto e involontario, è il tuo misero contributo alla mia crescita.
Noi intanto stasera abbiamo brindato e ci siamo abbracciati.
Secondo me un po' stupido lo sei stato.

Ehi Pà.
Mi hai visto oggi?
No?
Lo so.
Altrimenti avresti capito che dico "un po'" perchè oltre che bravo, sono anche venuto su buono.

Ehi, Pà.
Mi hai mai visto?
No, lo so.
Che in fondo, a ben guardare, seppure involontario, è stato il tuo grande contributo a quel mio essere venuto su buono.
Che essere padri, ho letto da qualche parte, significa prima di tutto essere un esempio.
Solo che quando c'hai mollati ti sei dimenticato di specificare se da seguire o no.
Ecco, te lo dico: ho dovuto capirlo di testa mia.

Ehi Pà,  non vorrei sbagliarmi, ma mi sa che c'ho preso.
Che secondo me, figli con i controcazzi che c'ho io, non ne hai fatti molti altri.
M'avessi visto oggi.
Ti saresti mangiato le mani, per quello che ti sei perso.
No, non per la casa in sé.
Ma perchè l'ho fatto con onestà.
Si si.
Avrò avuto anche solo cinque anni, ma cazzo se c'ho preso.

29 luglio 2005

Mosaici

Ho scoperto che ci si può innamorare anche di un uomo, a 65 anni.
Dove l'ho già sentita, questa?
Ho problemi di memoria.

Lui no.
Lui ricordava tutto.
E anche se era al telefono, li ho visti gli occhi innamorati di te.
Sai quell’ammirazione che una recluta riserva ad un suo superiore, personale eroe, col quale ha avuto la fortuna di combattere, quel senso lì di bellezza, di stima.
Ce l’aveva negli occhi, mentre mi parlava, li vedevo.

Hemingway, di nuovo.
E continuava a ripeterlo mentre ti descriveva nei modi gentili, nell’eleganza, nella ruvidezza, nella fierezza, nell’inarrivabile cultura.
Si ricordava quando è arrivato a casa del suo amico che ti ospitava e aveva con sé tre libri enormi che avevano spaventato tutti tranne te.
Si ricordava che rimase colpito da quel tuo astrarti in quell’esatto momento dalla compagnia per leggerti i tre libri per intero lì sul posto.
Si ricordava che stavi traducendo un libro cinese del 200 e lo diceva come si racconta di aver visto Ulisse dal vivo.
E la sera che tutti e tre siete andati nel quartiere russo di Pechino, in quel locale nel quale passavi le serate.
E la mia silenziosa speranza che finalmente a qualcuno avessi svelato quel segreto per il quale ti venne precluso l’ingresso in Russia a vita, tu che il Russo lo parlavi tanto quanto il mandarino di quel paesello dietro il fiume e che quel qualcuno fosse lui e invece no, te lo sei davvero portato dietro quel segreto perché nemmeno quella sera era la sera giusta per levartelo.

Ed era innamorato di te, quella sera, sai?
Ti guardava in quell’eleganza distinta che riusciva a spiegarsi solo con la parola dignità, perché pare fossi senza una lira in quel momento, non a caso ospitato da un amico.
Ma era innamorato perché, dice, vivevi di promesse.
Promesse di bonifici, promesse di pubblicazioni, promesse di lavori, promesse di qualcosa.
E vivevi sempre distinto, elegante, fiero, bello.
Ed era innamorato di te per la tua passione per le donne.
Perché ti vedeva prenderle e lasciarle come fossero bicchieri di whiskey.
Me l’ha raccontata come farebbe uno sceneggiatore, la tua uscita dal locale.
“A un certo punto si è alzato, ci ha preso sotto braccio tutti e due, si è fatto dare una bottiglia di Vodka, ne ha offerta mezza, ci ha portati fuori, “andiamo a donne stasera” ci ha detto, siamo usciti dal locale e sulla strada ha fermato due ragazze, ha detto loro qualcosa, loro l’hanno preso per mano e si sono allontanati tutti e tre. Io e il mio amico lo guardavamo allontanarsi, lui, le due ragazze e la bottiglia di vodka. Era bellissimo guardarlo allontanarsi in quel modo, non puoi sapere quanto era bella quella scena”

No, non lo posso sapere.
Io l’unica volta che l’ho visto allontanarsi di spalle non andava verso qualcosa, si allontanava da me.

Hemingway, ripeteva.
E il tuo progetto di aprire una scuola, naufragato come tutti gli altri.
Eri elegante, continuava ripetermi.
Eri bello, continuava a ripetermi.
Eri colto, continuava a ripetermi.
Di un’intelligenza che non aveva mai incontrato, continuava a ripetermi.
Ti ammirava, continuava a ripetermi.
In 65 anni, ha detto, non aveva mai conosciuto un uomo così, mi ha detto una volta sola.
Sono io, che continuo a ripetermelo, adesso.

Mi ha detto che ha già comunicato al tuo amico di Pechino di aver scovato tuo figlio.
Ci vedremo tutti e tre, quando lui verrà in Italia.
Se questa telefonata non è stata facile, quell'incontro saranno due anni di vita in meno, miei.
Qualcuno in più, tuoi.
Non sarà una passeggiata, ma ne varrà la pena.
Un pezzo alla volta, uno più difficile dell'altro, ce la farò a renderti uomo.

In realtà ho solo da perderci, in questa operazione, perchè il giorno che raggiungerò quell'obiettivo, molto probabilmente inizierai davvero a mancarmi in maniera dolorosa.
Ma se l'alternativa è non ricordarti, preferisco correre il rischio.
Per quel momento spero di essere diventato forte.

E comunque sono certo che avrò, a differenza di stasera, qualcuno a sorreggermi.
Ne ho bisogno anch'io, sai?
Anche se esattamente come te non lo ammetterò mai.

Forti, noi Bozza, forti!
A noi basta una bottiglia di vodka e qualche donna da scopare.
e promesse sulle quali vivere un giorno dopo l'altro.

Due dei tre sono già caduti.
manco io, all'appello.
Forte, Bruno, forte!

Ci credono tutti, sai?
Se sapessero, quant'è dura.
è che il mondo vuole essere scopato e noi Bozza siamo capaci di farlo.
mai che qualcuno scopi noi.
è che chiunque ci sia di fronte noi abbiamo sempre qualcosa in più che ci mette nelle condizioni di non poter chiedere.

Perchè quando impari a stare in piedi sulla merda, mentre tutti ci affogano dentro, quelli sotto si aggrappano a te, pensando che tu sia stabile.
Vaglielo a dire che Copperfield non li ha mai fatti sparire davvero gli aerei.
E che tu sei in equilibrio perchè hai imparato a tenere in piedi i tuoi soli 50 stupidi chili.
Che anche un solo grammo in più e tutto crolla.
Ma in fondo ci piace.
Perchè è vero, che abbiamo qualcosa in più.
La capacità di recitare, per esempio.

Ho deciso di fare un regalo, al tuo amico.
Una cosa tua che ho solo io e che sono felice se sarà sua.
Sai, ieri sera quando ho scritto della telefonata che avevo intenzione di fare, avevo scritto che sarei stato felice anche se mi avesse raccontato solo il colore delle piastrelle della tua casa.
Volevo dire “qualsiasi cosa”
Poi l’ho cancellato, sai?
Ho pensato che se mai fosse capitato anche qui, avrebbe pensato che sminuivo i suoi racconti, che non avrebbe capito cosa volevo dire, che intendevo dire “mi basta qualsiasi cosa”.

“Uno dei tre giorni che passammo insieme mi portò nella casa dove stava. Era una casa povera ma elegante. Rimasi colpito da un tavolino non finito. Lo stava facendo lui a mano, utilizzando i pezzi di piastrelle che i muratori avevano rotto. Era una tavolino fatto di pezzi di piastrelle colorate rotti in tanti piccoli pezzi e incastrati tra loro a formare un tavolo di fiori colorati. Era bellissimo quel tavolino fatto a mano in una casa così semplice. Fino a quel momento lo vedevo solo come un polveroso appassionato solo di libri e di libri e di libri. Non lo era. Quel tavolino lo ricordo come lo avessi davanti. Erano fiori colorati incastrati da quell’uomo così speciale”

Cazzo, Pà.
Cos’è?
Cos’è questo filo?
Perché le cose io le so prima?
Perché le vedo a forma di piastrelle colorate?
Hai idea di quanto sia stato pesante per me quando ha pronunciato la parola “Colore delle piastrelle”?
Ce l’hai una stracazzo di idea del tonfo che mi è esploso dentro?
Cos’è?
L’avevi letto prima che lo cancellassi?
Vuoi che scoppi anch’io?
È empatia?
Non può essere empatia, non ci sei più.
Ci sei ancora?
Cos’è?
Aiutami.

Ti ho già sepolto una volta.
Non tornare, per favore.
Due, non ce la farei.

Mi ha chiesto dove sei sepolto.
Mi sono offerto di accompagnarlo.
Ma non so se lo farò.

Che senso ha dimostrargli che eri un mortale come tutti?
Erano così belli i suoi occhi, mentre mi parlava di te.
C’hai impostato una vita, sul far credere a tutti che fossi Hemingway.
Beh, accidenti, ci sei riuscito.
E non sarò certo io a svelare il trucco.
Sai, anch’io lo uso quel trucco lì.
Sai, anche a me piacciono le donne e, hai ragione, funziona.
Non sono Hemingway, per questo, lo so.

Però sono stato più bravo di te.
A me, per il momento, nessuno mi piange.
A te, stasera, se ho visto bene quegli occhi, siamo in due.
Se avessi una vodka, adesso, alzerei il bicchiere a Oriente.

Chapeau, Edi.
Chapeau.

27 luglio 2005

peppe+edi+bozza

La settimana scorsa ho ricevuto 10.000 parole
E ne regalo due, in cambio.
Grazie, Roberta.

Oggi ricevo queste:
“Ciao Bruno,
mi permetto di darti del tu avendo conosciuto, anche se solo per pochi giorni tuo padre Edi.
Ho avuto modo di apprezzarne tutta la profondissima cultura ed il piacere di vivere che aveva.
Era la prima decade del luglio il 1999 e ho avuto la fortuna di conoscere tuo papà che frequentava un comune amico a Beijing.
In quell'occasione mi mostrò una decina di suoi libri (tutti in brossure ma in discreto stato di conservazione.)
Il poco tempo mi permise di fotocopiarne solo uno di questi
(Il tappeto da preghiera di carne: racconto erotico cinese d'epoca Qing di Li Yu a cura di Edi Bozza Edizioni Mondadori, Milano 1996)
Al mio ritorno in Italia cercai, anche su internet, di rintracciare gli altri volumi dei quali avevo l'elenco.
A volte, ricordandolo, mi viene di raffrontare la sua vita a quella di Ernest Hemingway.
Un caro saluto nel ricordo del tuo grande papà che meriterebbe di essere riconosciuto dalla critica letteraria italiana bigotta e provinciale.

Peppe T.”


Niente libri, solo parole.
Sarà per questo che non so come ringraziare.
Che poi sono quelle cose che ti fanno pensare che chi se ne va, lascia il buono che ha fatto, poco o tanto che sia, sparso per quel mondo che ha vissuto, per fartelo trovare lungo la strada a spizzichi e bocconi, magari dopo anni, magari quando ti serve o soltanto quando non te lo aspetti.
E si chiedono tutti se c'è la vita oltre la morte.

Certo che c'è.
Solo che non la vive chi  se n'è andato, ma chi rimane.
Ed è per quello che almeno un paio di cose buone dovremmo cercare tutti di infilarle, tra l'ape in centro e lo spinning nella pausa pranzo.
Perchè saranno la nostra vita oltre la morte.
Saranno il nostro modo di non andarcene mai.
Saranno quello che ci farà vivere, nonostante qualcuno o nessuno o il destino, abbia deciso che era ora di chiudere bottega.

Nessuno se ne va mai del tutto.
Forse, in un certo senso, la morte come la intendiamo noi, nemmeno esiste.
Perchè c'è la vita oltre la morte.
E non credete a chi cerca di convincervi che è in cielo.
è qui.
Sono quel libro e le parole che avremo lasciato a chi abbiamo incontrato lungo la strada.
Amici o figli che siano.
Sono tutto ciò che di buono abbiamo fatto.
Il brutto, per fortuna, è l'unica cosa che col tempo davvero muore e se ne va, insieme al dolore.

Un pensiero per te, M.

19 marzo 2005

Dadi

Ogni anno, il 19 marzo, la stessa domanda.
L’avrai fatto apposta a farmi ricevere la telefonata che mi annunciava la tua dipartita proprio il giorno della festa del papà?
Non so, mi sembra tanto lo scherzo finale.
Troppo perfetto per essere casuale.
Così ogni anno, il 19 marzo, non so mai se essere triste perché non ci sei più o se essere incazzato perché ti se rubato la ricorrenza trasformandola in anniversario.
In ogni caso, sempre di più, sono convinto che il 1 aprile sarebbe stato più azzeccato.
Io stasera andrò a cena fuori con gli amici perché, sai, io sto bene.
Cioè, meglio.
Nel senso, risolto.
Insomma, elaborato.
Vabbè.
Auguri, papà.
Il vero scherzo, forse, sono io.
E infatti mi sono tanto simpatico.
Sapessi le risate.

Auguri.
O ciao.
Ogni anno lo stesso dubbio.


5 dicembre 2004

Nei pensieri

Mario certe notti sognava Mario Senior.
Quella notte infatti Mario l’aveva sognato.
In realtà non aveva sognato lui, ma solo una casa in un bosco tutta di legno che lui sapeva che era di Mario Senior anche se non sapeva perché.
Quando Mario sognava Mario Senior non si svegliava triste, ma si svegliava felice, perché aveva incontrato Mario Senior.
In fondo, pensava Mario, l’aveva visto così poco che una volta in più era una cosa bella, non brutta.

Mario Senior aveva insegnato a Mario che certe volte quando si è lontani basta il pensiero e allora Mario aveva imparato a fare i pensieri.
“Mario Senior” per esempio era un pensiero.
“Mària” era un pensiero.
Mario stesso era un pensiero.
Tutti pensieri.
Mario era cresciuto facendo i pensieri.

Quando erano lunghi, da piccolo, li scriveva e prendeva i bei voti, anche una medaglia una volta.
Perché per Mario i pensieri erano davvero e allora quando gli dicevano “Scrivi un pensiero” lui scriveva le cose vere e tutti dicevano “Eh…che belli i pensieri” e lui pensava “Sono veri”.
Mario tutte le cose belle le aveva sempre avute tutte nei pensieri e quando gli chiedevano “Dov’è papà?” lui diceva “Nei pensieri” e tutti dicevano “Mi dispiace” e lui pensava “Perché?”.
Come quando lui diceva che nei suoi pensieri era felice e tutti gli dicevano “Non devi sognare” e lui pensava “Perché?”
Come quando lui diceva che nei pensieri Mària era bellissima.
Come quando lui diceva che nei pensieri Mario Bros guariva e stava bene.
E tutti pensavano che era sbagliato avere il mondo bello nei pensieri e Mario non riusciva a far capire che lui nei pensieri ci era cresciuto e che non era finto per questo, perché era vero per questo.
Come quando aveva Mario Senior nei pensieri.
Tutti non capivano Mario e Mario non capiva tutti.
E tutti per far capire a Mario che sbagliava gli dicevano “Perché nei pensieri ci sono i sogni” e lui pensava che era per quello che non sbagliava.
E infatti certe notti Mario sognava Mario Senior ed era contento perché era come quando lo andava a prendere per portarlo in giro sulla moto.
Quella volta Mario l’aveva sognato un giorno che era sabato.
Perché Mario era abituato così, a vederlo il sabato.
E continuava a vederlo il sabato.
Mario quando vedeva una cosa bella la metteva subito nei suoi pensieri e la faceva diventare bellissima, così ogni volta che l’avrebbe pensata sarebbe stato felice perché era una cosa bellissima.
Mario aveva messo la sua casa nei suoi pensieri e l’aveva fatta diventare bellissima.
E anche se non era vero alla fine la sua casa la vedeva bellissima.
E quindi era bellissima.
Mario aveva messo la sua famiglia nei suoi pensieri e l’aveva fatta diventare bellissima e alla fine era diventata bellissima.
E quindi era bellissima.
Mario aveva messo Mària nei pensieri e l’aveva fatta diventare bellissima e alla fine Mario la vedeva bellissima.
E quindi era bellissima.
Mario lo sapeva che non sbagliava.
Lo sapeva nei suoi pensieri.
Dove Mario Bros guariva, dove lui incontrava Mària, dove Mario Senior andava a trovarlo il sabato.
Come stanotte.
Che Mario si è svegliato bene.
Quindi non sbagliava.
Tutti gli altri si.

Mario pensava che chi divideva i pensieri dalle cose vere era sfortunato.
E che era per quello che tutti i giorni erano sempre arrabbiati.
Mario non era mai arrabbiato.
Nei pensieri lui era felice e per lui i pensieri erano le cose vere.
E quindi era felice.
Mario no, non sbagliava.
Anche se tutti cercavano di dirgli che sbagliava.
Forse erano invidiosi, perché Mario era l’Imperatore delle Galassie.

a Mario,
cresciuto su un trono.
che quando veniva toccato, si muoveva da solo.
e che per questo era magico davvero.
e che per questo, lui era felice.
davvero.

24 settembre 2004

Lessico familiare

Ciao Broo,
ho trovato in casa un librino che potrebbe interessarti: è "Antiche Fiabe Cinesi". Ce l'hai ? Lo vuoi ? Manda indirizzo "fisico" che spedisco


Grazie, si!
E' uno di quelli che avevo prestato e non è più tornato!
Davvero me lo daresti?

Certamente. Basta che lo tieni bene (e non ho dubbi) - era sul comodino di mia madre. L'ho accompagnata recentemente anch'io, tenendone l'urna sulle ginocchia. Poi, per caso ho letto il tuo appello e insomma, mi farebbe piacere se lo avessi tu.
[…]E naturalmente dammi anche il tuo indirizzo.
Ho promesso di comprarli e voglio poter mantenere la promessa.
non ci pensare nemmeno: […] e NON pensare nemmeno a pagarmelo. Consideralo un regalo, anzi un prestito a lunga scadenza.


Allora facciamo così.
Io accetto il tuo regalo solo se sulla prima pagina bianca ci scrivi "Questo libro era sul comodino di.." e ci metti il nome di tua mamma, solo il nome.
Non mi far spiegare che non è un pensiero brutto questo, né un modo per appropriarmi di qualcosa di tuo.
Ma quel libro era di tua mamma e l'ha scritto mio padre.
Se su quella copia compariranno entrambi i nomi io sarò felice.

Fosse anche - e non lo è - un modo per appropriarsi di qualcosa di mio, ne sarei contento. Tutto quello che mia madre mi ha dato, e che mi porto dentro, non può essere solo mio.

E lo accetterò come un regalo.
Tuo e di tua mamma.
Perché se lei lo teneva sul comodino, io in qualche modo "grazie" per avermelo ridato lo vorrei dire anche a lei.
E ricordarmi il suo nome ogni volta che lo aprirò mi sembra un modo bello.

anche a me, per questo ci ho scritto qualcosa sul frontespizio.
E ti dirò, lo avrei fatto anche se non me lo avessi chiesto, a costo di mandarti un libro scarabocchiato.


Anche se non so chi fosse, anche se tu non sai chi sono io.
Ma del resto nemmeno lei sapeva chi era mio padre, e nemmeno io so chi sei tu.

Ha davvero importanza? Se abbiamo culo rimedieremo. L'importante è tutto nell' "Eppure" qui sotto.

Eppure c'è un libro che stava su un comodino, che ha fatto parlare due figli che si son portati in braccio un'urna, e che se deve tornare a me io sarò felice, ma sarò felice solo se si porterà scritta all'interno anche la storia del percorso che ha fatto, non solo quella mia e di mio padre.
Perchè se non fosse stato per te e tua mamma, io quel libro non l'avrei mai avuto.
Un'altra copia magari si, ma non quella.
Firmala, e accetta il mio grazie.

grazie accettato. E' bella questa tua ricerca, spero di riuscire ad aiutarti di nuovo.
ciao, uomo più bello del mondo. Il libro arriva presto, poste permettendo.
dario


“In nessun paese del mondo la lingua scritta è stata per millenni, ed è tutt’ora, tanto lontana e difficilmente raggiungibile da una così larga parte della popolazione come lo è in Cina. […] È naturale che, in una realtà sociale di questo genere, la letteratura popolare sia quanto mai viva e vitale e che abbia un peso e un valore molto diverso da quelli che ha comunemente in Occidente. Per la maggior parte dei cinesi, infatti, essa costituisce l’unica forma possibile di cultura, proprio perché nasce spontanea e non ha bisogno della carta per essere trasmessa agli altri o per essere tramandata ai posteri.

Comunemente chiamata “minore”, questa letteratura è stata per due millenni, e in larghi strati intellettuali cinesi lo è ancora oggi, apertamente disprezzata, trascurata e considerata indegna di essere “letta” e presa in considerazione. […]
Il suo patrimonio è costituito da fiabe e racconti di magia, da leggende, da poesie, da proverbi, da aneddoti, da storie, tutti trasmessi oralmente da una generazione all’altra e via via arricchiti e ampliati dalla fantasia e dall’estro dei narratori.

L’elemento fiabesco, fantastico trae spunto da fatti e situazioni molto comuni, non è artificio e non lo potrebbe essere, è un fiabesco popolano, fatto per incantare i semplici. […]

I narratori e i cantastorie ai quali si deve l’immensa fortuna di cui gode questa tipo di letteratura sono solo ricchi di esperienza di vita, di fantasia, di voglia di dilettare gli altri, di incuriosire, di catturare l’attenzione del pubblico.[…] Insomma, i fruitori di questa letteratura sono soprattutto coloro che s’aggirano in un mercato di piazza, in un cortile di un tempio, in un giorno di festa o in una fiera paesana. Quella di cui parliamo, però, rimane ancora oggi letteratura principalmente orale: la pagina scritta, la fotografia, la fossilizza e la uccide. Non lascia più spazio per le estrose variazioni del cantore e del narratore, non c’è più un dicitore e tanti ascoltatori, c’è una pagina e un lettore: è diventata, insomma, letteratura non più minore o popolare. […]

Ed è proprio tale massa, non piccola, di sconfitti che ha costituito nei secoli l’esercito di autori della letteratura popolare […] Ed erano quasi sempre essi stessi che tenevano nascosto il proprio nome, se ne vergognavano, e mandavano per il mondo i loro scritti orfani di padre, quasi per sfogare in qualche modo l’amarezza che gonfia l’animo e fa le notti lunghe. […]
Scrivevano di tutto e su tutto questi anonimi, e tutto in lingua parlata, perché scrivevano per il popolo, per i cantastorie, per i teatri popolari, per i saltimbanchi da fiera e le loro opere passavano poi di bocca in bocca rifatte, rimaneggiate, modificate, adattate sempre ai mutevoli gusti degli ascoltatori.
A volte riprendevano e arricchivano leggende e racconti popolari, a volte adattavano per il popolo minuto i libri della letteratura colta, ufficiale, i classici insomma, che altrimenti non avrebbero avuto alcuna possibilità di arrivare fino alla gente comune.
Nel corso dei secoli si è così formato un patrimonio letterario sterminato, bellissimo, affascinante. Ed è arrivato fino a noi nonostante l’aperto disprezzo della cultura ufficiale e dei letterati di professione.

Ancora oggi è praticamente sconosciuto al di fuori della Cina: nessuno si preoccupa di conoscerlo e di farlo conoscere.
Questa brevissima raccolta significa poco, molto poco: è come se di un bellissimo e ricchissimo abito, con pizzi, merletti, ricami, ori e perle, si mostrasse solo il bottone. Per quanto bello sia, riuscirà solo a dare una pallida idea dell’abito da cui proviene.


Antiche Fiabe cinesi.
Edi Bozza.”


Questo facevi.
Andavi in giro per il mondo a cercare quel fascino che non volevi si perdesse.
Andavi in giro ad ascoltare cantastorie.
Andavi in giro ad ascoltare fiabe per raccontarle a tua volta.
Come potrei pensare che sei stato cattivo?

È stato bello riascoltarti,
raccontarmi perché scrivo, in questo gigantesco mercato di piazza.
È stato bello.

Grazie Dario
Grazie Pierangela.

È un libro ingiallito, usato, consumato, vissuto, ascoltato, quello che mi avete regalato.
E in quelle pieghe c’è il motivo per cui lo scrisse.
Raccontare una fiaba.

Vi devo tanto stasera.
Fondamentalmente vi devo la mia.

Grazie.
Per gli scarabocchi.


23 aprile 2004

Un sogno

Mi sono svegliato mezzo incriccato vestito di tutto punto come ero vestito ieri sul lavoro di traverso sul letto pieno di vestiti e con la valigia ancora chiusa sopra, con i capelli ancora legati e un rincoglionimento degno di chi torna da chissà quale missione di guerra.
Non ricordo come sia successo, però sono riuscito a cucinarmi una abbondantissima cena e questo lo ricordo, dopodiché mi sono letto la posta e questo lo ricordo e poi mi sono detto “Mi appoggio un attimo sul letto” e questo lo ricordo.
Poi il buio.
E ho sognato e questo lo ricordo.

Uno di quei sogni che sono stancanti, perché pieni di protagonisti stancanti che anche in sogno obbligano a ragionare, in situazioni stancanti perché piene di pericoli e di cose da valutare prima di agire, e questo lo ricordo.
Ho sognato che mio padre non era morto davvero nel senso che non era morto come sappiamo noi anzi come sanno loro perché io lo so che non è andata così come sanno loro, ma era ancora vivo almeno fino al momento del mio sogno perché in questo sogno ero in una sala d’aspetto di un consultorio o giù di li con una televisione attaccata al muro che trasmetteva il tiggì nel quale si annunciava l’omicidio di un occidentale e se ne mostrava la foto del corpo riverso sopra un altro corpo e quello sopra era mio padre quello sotto non lo so e si raccontava la storia di questo tizio che stava lavorando a dei documentari e conduceva una trasmissione dove i suoi documentari venivano trasmessi e poi qualcuno gli sparò e quel qualcuno era un tossico seduto davanti a me in questa sala d’aspetto e io lo sapevo che era lui mentre lui non sapeva chi ero io e quindi non poteva sospettare che l’avrei seguito per rubargli la sua borsa per sapere cosa conteneva e quando sono uscito con la sua borsa per sapere cosa conteneva ho guardato dentro e conteneva un sacco a pelo vuoto e visto che era solo un sacco a pelo ho pensato di riportarglielo perché magari mi ero sbagliato e quando sono tornato nella sala d’aspetto del consultorio ho visto che sulla porta c’era mio fratello che lo stava guardando e senza chiedergli nulla ho capito che quel tossico era in pericolo perché mentre io avevo capito che lui non c’entrava se non per il fatto che era un tossico e questo lo candidava ad essere un possibile omicida, mio fratello non gli avrebbe riservato lo stesso trattamento di favore e anzi glie lo leggevo in faccia che era pronto a vendicare nostro padre e questo lo ricordo come ricordo che appena entrato in quel consultorio il problema da risolvere era impedire a mio fratello di fare la cazzata che la sua mente in questo momento non gli impedirebbe di fare e non era tanto per proteggere il tossico quanto per non far fare a mio fratello una cosa per la quale avrebbe pagato un altro prezzo ma vaglielo a spiegare a lui che si trovava di fronte a quello che gli aveva portato via papà mica sarebbe stato facile, e mentre pensavo di impedire a mio fratello di seguire il suo e il mio istinto mi resi conto con soddisfazione che il tossico non c’era più e invece di incazzarmi perché volevo guardarlo in faccia mi aveva fatto tirare un sospiro di sollievo perché almeno non dovevo più stare attento a mio fratello, ed ero pure contento per aver scoperto che non essendo mio padre morto tre anni fa ma solo oggi, doveva aver scritto almeno altri due libri che a questo punto avrei potuto leggere e avrei anche potuto guardare quelle trasmissioni che conduceva per vedere che faccia aveva in questi ultimi tre anni di cui ignoravo l’esistenza e questo lo ricordo bene.

Poi mi sono svegliato e lo so che non glie ne frega un cazzo a nessuno di questo sogno, come a me non frega un cazzo del fatto che a nessuno frega un cazzo, e che non ha nessun alone poetico ne parole d’amore ne pensieri su cui riflettere tra le righe, mi sono svegliato vestito com’ero con una fretta pazzesca di scrivermi da qualche parte questo sogno prima che mi passasse di mente per motivi miei e l’ho fatto qui.
Ora faccio quello che avrei dovuto fare ieri e in una specie di gioco del tempo al contrario mi svesto, mi lavo e disfo la valigia pensando al perché di questi tre anni ricomparsi così mentre sono crollato dal sonno.
Perché non basta dirmi che ho dormito con la tivù accesa che parlava del grande fratello, dell’incidente ferroviario in Cina e dell’ostaggio italiano.

Dev’essere come i dejavù di Matrix.
Al regista del Brooman Show stanotte dev’essere sfuggito qualcosa.
O gli autori hanno litigato tra loro e qualcuno per sfottò mi ha fatto vedere qualcosa che non doveva farmi vedere o il programma ha subito l’attacco di qualche hacker che vuole salvarmi.
E non si parla di segnali onirici o paranormali.
Ma perché Splinder ha cancellato gli ultimi dieci giorni e solo quelli?
Eppure io li ricordo.
Ma non ci sono.
E mi son subito detto che può succedere, che possono sparire così solo determinati pezzi, sono computer e quindi sbagliano anche loro.
Quello che non capisco è il counter tornato indietro a dieci giorni fa.
Cos’è che non dovevo vedere?

19 marzo 2004

19 marzo 2001

Mario alla fine aveva davvero imparato a stare in equilibrio nel treno, perché ne prendeva uno ogni venerdì sera e andava da Mario Senior e uno ogni domenica sera per tornare da Lady Mària ed erano stati proprio tanti treni e allora lui aveva alla fine imparato a starci in equilibrio anche se poi non lo avevano chiamato sull’astronave lui però intanto aveva imparato a stare in equilibrio su quei treni che non era cosa da poco quando era così piccolo.

Mario quando andava da Mario Senior se pioveva giocava a monopoli e a scacchi e se c’era il sole bruciava le mosche con la lente di ingrandimento per i libri di Mario Senior che lui era sempre pieno di libri e di fogli e di matite e cartelle e di foto e di progetti e di sogni e di presunzioni.
Mario non lo sapeva che Mario Senior non gli avrebbe mai dato la Giulietta grigia quando sarebbe diventato grande, perché non lo sapeva che Mario Senior non ci sarebbe più voluto andare alle sue feste dei compleanni.
Mario però era contento lo stesso perché Mario Senior gli aveva regalato la macchina bella che aveva e se non l’aveva mai avuta era perché era lui ad essere troppo piccolo ma quella macchina era sua però.

Mario Senior aveva insegnato a Mario a scrivere quelle parole in cinese con il pennellino e anche se erano solo tre non aveva importanza e Mario era contento lo stesso e una di quelle tre era “Grande” una era “Uomo” e la terza era “Albergo”.
Mario pensa che Mario Senior gli abbia insegnato solo quelle tre perché c’era un motivo e allora andava bene lo stesso ed era bello lo stesso perché Mario poteva dire una bella cosa e poteva anche scriverla con il pennellino.
Mario Senior un giorno però è andato via ed è andato a scrivere con il pennellino dove tutti scrivono con il pennellino e andavano tutti sulla bicicletta e a Mario ogni tanto gli mandava le parole scritte con il pennellino però non andava mai a trovarlo più perché era tanto lontano.
Ma Mario era contento lo stesso perché lui aveva le parole scritte con il pennellino e allora era come avere anche lui anche se non era vero.
In fondo Mario da piccolo quando giocava ai cowboys lui faceva gli indiani e loro dicevano che Mario Senior era lo stesso vicino a lui se lui lo pensava e lui voleva e allora lo pensava come dicevano loro, perché se no non poteva più fare gli indiani quando giocava.

Mario quando gli chiedevano dov’era Mario Senior lui diceva sempre in Cina a scrivere i libri con il pennellino e tutti pensavano che lui sognasse e scherzasse perché non voleva dire che non ce l’aveva ma Mario ce l’aveva e lo sapeva che ce l’aveva lontano ma anche vicino però.
Mario un giorno che tutti dicevano che era la festa del papà lui pensò a Mario Senior che era un po’ lontano quel giorno e che non sapeva come stava.
Mario non avrebbe mai immaginato che quel giorno, dopo tanti anni, proprio quel giorno la zia Mària gli avrebbe telefonato per dirgli che Mario Senior non scriveva più con il pennellino.
Mario allora quel giorno ha detto che forse Mario Senior non scriveva più però parlava ancora perché lui ce le aveva tutte le parole scritte con il pennellino che gli aveva mandato e se lui le sentiva ancora voleva dire che Mario Senior le diceva ancora.

E allora Mario è contento perché oggi che tutti dicono auguri ai Mari Senior anche lui può dire auguri a Mario Senior, perché è lontano e lui lo sa che non può tornare perché è lontano.
E anche se non sa dov’è sa che è ancora più lontanissimo di prima e allora Mario non deve fare altro che quando dice auguri deve dirlo un po’ più forte, come quando è capace a dire le cose forti che poi sono quasi sempre, adesso che Mario è cresciuto, “Grande”, “Uomo”, e ogni tanto anche “Albergo”.
Anche se Mario oggi le scrive con il computer.




11 febbraio 2004

Mario

Mario da piccolo sognava di essere un supereroe.
E viaggiava in piedi sui treni senza reggersi per allenarsi a stare in equilibrio per quando l’avrebbero chiamato sulla nave spaziale.
Mario entrava nella vasca con il suo Barbapapà di gomma e giocava alle bolle.
Mario prendeva treni da solo quando era troppo piccolo per difendersi dai malintenzionati.

A Mario un giorno, un signore con una parruccona bianca chiese se voleva più bene a papà o a mamma.
E intanto Mario faceva il letto, studiava e prendeva medaglie.
Mario piaceva alle bambine e le bambine piacevano a Mario.
Mario da grande diventò bravo a fare il letto.
Viveva, Mario, in un mondo dove bisogna essere professionisti per potersi permettere di sbagliare.

Mario vide dolore negli anni.
Mario combattè battaglie in nome di nessuno, e nel nome di Mario Senior le vinse.
Quasi tutte.

Mario aveva tanti soldi ma li spendeva e allora non ne aveva più.
Quelli intorno a Mario si, però.
Mario quando era piccolo era pronto a salire sulla nave spaziale e aveva l’amico di equipaggio che il padre la stava costruendo di nascosto in giardino.
Ma Mario si trasferì prima che fosse finita e non riuscì mai a vederla finita.
E allora da quel giorno Mario guarda sempre in cielo in direzione sud-est perché vuole vedere quando passerà per fare ciao con la mano al suo amico.

Mario sognava una donna mentre guardava in cielo aspettando la nave spaziale.
Mario un giorno incontrò Mària.
Le fece il letto, le bolle nella vasca e tanti treni in equilibrio.
E lei gli regalò Mario Junior.

Mario quel giorno non guardava più il cielo per vedere la nave spaziale perché stava tutto il giorno al di qua del vetro a fare ciao con la mano a Mario Junior.
Quel giorno una signora grassa grassa con un camice tutto verde gli disse se voleva entrare al di qua del vetro per toccare Mario Junior.
Mario entrò, prese la mano di Mario Junior e gli disse “E adesso rendi più bello tutto il mondo”.
Mario Junior gli rispose stranito “Ehi, Papà, ma io sono solo un bambino!”
E Mario rispose “No, sono io che sono solo un uomo”.



a mario senior.
e a quando mi teneva per non farmi cadere.