18 febbraio 2016

Pupazzo di nave

Esaurita la carica accumulata nella vacanza-libri di ottobre, rispondo a un novembre/gennaio a dir poco delirante replicando una versione invernale a forma di una fuga in montagna tra alberi, tisane e ancora libri.
L'anno scorso negli stessi giorni avevo letto più del doppio, quest'anno mi distraggo e fisso il vuoto per ore inseguendo un milione di pensieri, non è vero, solo due.

Uno sei tu, che poi è il solito motivo per cui resta spazio per al massimo un altro, posto a tavola per l'occasione occupato da un pensiero colto poco prima di partire, raccontando all'amica tutti quelli legati alla riscrittura da capo del progetto di società, da resettare a causa del fatto che i milanesi incontrati sulla tratta Milano-Londra sono stati più dei londinesi.
Quei pensieri che paiono marginali e invece sono quelli tipicamente sottovalutati fino all'ultimo minuto, quando ci si ritrova costretti a compiere la classica scelta che ama realizzarsi con l'esatta forma della piena consapevolezza che verrà superata dalla sua versione migliore precisamente un minuto dopo il punto di non ritorno e cioè: come la chiamo?
La martellante ridondanza dei due indissolubili pensieri ospiti mi porta a vederli come fossero un commensale che mi guarda e si aspetta da me l'alzata del bicchiere per celebrare con un unico brindisi entrambe le soluzioni, che in una forma meno arzigogolata è un modo per dire che il nome che mi risolverebbe il secondo dilemma si ritrova a essere in maniera insistente lo stesso che mi risolverebbe il primo e cioè il tuo.
Quella che doveva essere risposta unica a un doppia domanda ottiene così il risultato opposto e cioè l'aggiunta a tavola di altri due nuovi pensieri che per la precisione sono:
Uno: non credo che "Diamole il nome di una donna, come fosse una barca!", nonostante sia stato in passato capace di vendere cose anche più azzardate, passerebbe filtri di un destino imprenditoriale che temo non sia il caso di sfidare oltre quanto già fatto.
Due: il giorno che dovrò giocarmi la carta con tuo padre, temo mi converrà scegliere esempi che il sospetto di follia lo moderino, invece di accentuarlo, e non avrò seconde possibilità.

Un libro che in qualche modo parla di mio padre, anche se quelli come lui la guerra l'hanno sempre combattuta dalla parte sbagliata della linea del bene.
Karim è l'unico italiano arruolatosi volontario nell'YPG, la milizia curda impegnata in Siria, alla quale ha voluto unirsi per combattere l'ISIS sul fronte di Kobane e così completare la sua formazione di uomo troppo grande per stare dentro le sole parole di una guerra fino a quel momento combattuta solo con quel se stesso che, orfano di un padre di guerra, lottava per prevalergli e così metterlo a confronto con quello sguardo orgoglioso e paterno che solo la scelta di andare oltre le parole avrebbe potuto decifrargli e, finalmente, regalargli.
Un diario, gelo sangue paura di morire coraggio e infine vita dell'amore di una donna grande quanto un piccolo biglietto conservato all'altezza del cuore e mai aperto, tutto in tre mesi, raccontati nell'unico modo in cui si può raccontare un viaggio non solo interiore di quella potenza e cioè con l'aiuto di un uomo che stava nello stesso mondo iniziando il viaggio peggiore che uomo possa fare e cioè quello che inizia il giorno dopo in cui il telefono squilla e lo informa che suo fratello non c'è più.
C'è, nella prima pagina del libro, una dedica la cui detonante potenza si comprende solo una volta giunti all'ultima pagina del libro.
Vale la pena leggerlo anche solo per quanto grande è ciò da cui si viene invasi quando si chiude quel cerchio, anche se in questo caso essere me ammetto avere un peso, nel senso letterale del termine.

Per un malinteso iniziale la cui soluzione mi avrebbe richiesto più fatica di quanta fin da subito ho capito me ne avrebbe richiesta il sopportarlo, l'unico amico che in questi dieci giorni mi sono fatto e cioè il pizzaiolo siciliano del posto dove cenavo, per dieci giorni mi accoglie ogni sera dal banco forno con un rumoroso "Ciao Calabria!" risultato di uno scambio a tema usato per conoscere un po' questo tipo strano che tutti i giorni entra e per ore se ne sta al tavolo da solo a leggere.
In altri posti e in altri tempi avrei risolto il primo giorno, ma sono in Val d'Aosta, regione per me nuova che mi regala due consapevolezze inattese: il suo essere una montagna meravigliosa e il suo apparire abitata da soli calabresi; la somma delle due rivelazioni mi suggerisce che mi trovo in quella che ha tutti i contorni per essere l'unica occasione nella quale chiamarmi "Calabria" può essere un vantaggio e per questo accetto il battesimo senza opporre resistenza né fastidio, se non nel momento in cui mi rendo conto che la sua dichiarata amicizia mi regala l'astio di tutte e tre le pornografiche tope gentilissime cameriere che muovendosi tra i tavoli hanno riempito per dieci giorni il mio immaginario erotico e che mai quanto dopo avermi visto eletto a suo amico fraterno è diventato tanto immaginario.

Un libro che in qualche modo parla di mio padre, anche se nella parte in cui è lo zio quello che conformista era in grado di esserlo solo a patto che tutti riconoscessero il compromesso.
Lo compro dopo averne sentito parlare da tutti per mesi e già questo avrebbe dovuto farmi intuire la sòla, ma la curiosità generata dalle sintesi dell'idea di base lette in giro è maggiore e decido che sarà in valigia.
Un'introduzione che sembra scritta dalla madre dell'autore tanto è elogiativa, mi informa che mi conviene allacciare le cinture di sicurezza perché cadrò dalla sedia dal ridere, le voci che avevo sentito trovano così conferma, andiamo.
A pagina venti mi chiedo se la sedia non sia troppo salda, a trenta mi chiedo se sia ancora nel capitolo scritto per partire con un'abile costruzione dell'hype, a quaranta scrivo all'amica personal-booker chiedendole entro quante pagine sono autorizzato a buttare via un libro per manifesto raggiro, mi autorizza alla quaranta, penso sia un modo per sminuire con gentilezza le mie qualità di usufruitore di letteratura di fama mondiale e accetto la sfida di altre venti pagine, ne reggo solo altre dieci prima di stabilire che l'assenza totale non solo di qualsiasi vibrazione alla sedia ma anche solo di impercettibili tensioni muscolari a uno degli ennecento muscoli della faccia è motivo sufficiente per non perdere un solo altro minuto della mia preziosa vacanza-lettura.
Meno male che pesa poco perché comunque decido che con me è arrivato e con me tornerà indietro, se non a farmici cadere magari in futuro può tornare utile per garantirla la stabilità delle sedie e così sentirò giustificati gli euro spesi.

L'hotel è una piccola bomboniera ai piedi del Monte Bianco, una di quelle isole felici in un luogo nel quale dietro ogni altra porta spendi per un panino quanto in hotel spendi per pernottare.
Gestito da una famiglia di monarchici che ci tengono a rendere nota la condizione inscatolandoti in pareti tappezzate di quadri autocelebrativi, si rivela essere tanto bello quanto ben gestito da persone che rispondono "Sì" a qualsiasi domanda, richiesta, desiderio.
Vecchio stile in contraddizione con un atteggiamento generale di un paese che come ogni montagna è un tantino roccioso con i forestieri, fa venir voglia di testare la tenuta facendo domande su domande, tranne l'unica che mi sono tenuto e cioè la possibilità di abbassare un po' un riscaldamento che per dieci giorni mi ha fatto dormire senza nemmeno la maglietta e fuori dalle coperte per riuscire a respirare un po', mentre fuori dalla finestra i pinguini bussavano per entrare.
Hotel per fidanzatini freddolosi di ritorno dalle terme, ogni mattina a colazione il buongiorno di un cuscino appoggiato sulla credenza che in qualche maniera mio ricorda mio padre, ma solo per non dire che in realtà è di te che mi parlava e così indispettire mezzo pianeta, quello che non vuole accettare che dove si è felici in due si è felici davvero.



Un libro che in qualche modo mi ricorda mio padre, come ogni libro di De Luca mi ricorda mio padre nello spessore di una pelle impenetrabile e nel mio averlo eletto miglior compagno di silenzi e di fughe da me stesso, nel  denudare pubblicamente il proprio isolamento dipingendolo con parole di viaggiatore per il quale ogni età è un luogo e ogni luogo è casa perché nessun luogo è casa, nei racconti che sono persone e non di persone, nello scrivere centinaia di pagine per dire cose che le persone davvero in pace con se stesse dicono con un bacio, uno sguardo, nella levità di un macigno, nel continuare a scrivere sempre lo stesso libro, sempre lo stesso racconto, quell'Io sussurrato che nulla chiede perché troppo desidera e a non esistere non è la risposta al desiderio ma chi è in grado di portarla in dote.
Ah no, questo non è mio padre, questo sono io, ma nessuno mi chieda di dare una dimensione alla differenza perché dovrei tirar fuori un altro libro di De Luca e usarlo come metafora dicendo "Mio padre è sempre stato i suoi libri" e alla domanda "I suoi di De Luca?" rispondere "Vai via".

Quando nonna ha compiuto ottant'anni, quindi esattamente otto anni fa dato che l'altro giorno abbiamo spento le ennesime fortunate ultime candeline, come le chiama lei vestendole di un pessimismo ormai cronico che però a quest'età inizia a essere guidato anche da una quota di realismo che sarebbe ingiusto non iniziare a considerare tra le prove di una lucidità mai persa, decise di celebrare il traguardo prendendo un foglio, una penna e scrivendo una lettera.
Quando mi raccontò per la prima volta l'aneddotto, nel senso che non ha perso la lucidità ma la memoria sì e quindi abbiamo un carnet di una decina di aneddoti che a cicli settimanali mi racconta sempre come fosse la prima volta e questo è uno di quelli, arrivati a "scrissi una lettera" pensai a un amante lontano, un perdòno mai chiesto, una lettera al papa dal quale tutt'ora attende la guarigione miracolosa per mio fratello, quelle stazioni insomma che sono adeguate alla solennità del traguardo.
Macché, scrisse alla Findomestic, della quale era stata cliente per decenni e dalla quale, avendo sempre pagato tutto senza mai saltare né un'ora né un centesimo come ogni appartenente alla generazione dei dignitosi, continuava a ricevere depliants e proposte di prestiti.
Scrisse per ringraziarli.
Per ringraziarli di averle permesso di raggiungere gli ottant'anni senza dover mai chiedere niente a nessuno, per averle permesso di dotarsi di tutto ciò di cui una vedova di quarant'anni con due bimbe a carico aveva disperato bisogno perché nessuno tranne lei subisse una vita di mancanze, per averle dato una cinquecento con cui portarci all'asilo, una cucina nella quale accoglierci tutti a natale, una lavatrice con cui mandarci tutti in giro per il mondo con la testa alta di chi pulita non aveva solo l'anima, per ringraziarli di averle permesso di dare a quelli intorno a lei una vita senza le privazioni che a lei il destino aveva imposto.
- Ti hanno mai risposto?
- No, però da quel giorno non mai più ricevuto depliants, quindi almeno so che l'hanno letta.
Ecco io lo vorrei conoscere quello che l'ha ricevuta, solo per chiedergli come abbia fatto a non rispondere, a non venire investito dalla voglia di andarla a conoscere, una donna capace di una lettera tanto bella.
- Vabbé nonna, prima di sparecchiare il solito amarino?
- Sì è nel mobile
- Nonna è finito, c'è solo whisky qui dentro
- Va bene il whisky.

Un libro che in qualche modo mi ricorda mio padre e quei percorsi di vita che partono da una casa di fantasmi e a una casa di fantasmi arrivano, in quel personaggio che torna nella campagna natìa sulla sua auto fiammante di lavoratore che ce l'ha fatta così tanto che tiene testa ai cinesi e senza cartina né bussola si ritrova proprio di fronte a quella porta, non un'altra, e senza sapere perché la sente sua.
Il perché lo scoprirà solo dopo aver attraversato il proprio inferno interiore fatto a forma di sette ponti.
Ora non so se il fatto di aver capito come si sarebbe svolta l'intera storia più o meno a pagina dieci dipenda dal fatto che è un racconto proprio semplice (prima o poi andrà affrontata questa ormai diffusa abitudine di vendere libri stampati in corpo 50 interlinea 60 e margini di quattro centimetri per lato solo per poter chiamare "Libro" racconti che stanno su due A4) o dal suo essere l'esatto racconto della mia vita, sta di fatto che alla fine di ogni pagina sapevo esattamente come sarebbe iniziata la successiva e via così, per l'intero libro, fino all'ultima pagina nella quale sapevo avrei letto cosa avrei fatto io al posto del protagonista e infatti.
Ora uno dirà che i libri hanno proprio questo di bello, ciascuno può vederci dentro la propria storia, e io dirò che lo so, sono un lettore amatoriale ma non sono stupido, la so fare la tara ai vorrei e ai condizionamenti.
Poi però ci sono gli incubi e quelli non li racconti letterali se quei sette ponti non li hai passati nello stesso modo, ma soprattutto c'è una casa riconoscibile per una particolarità del tetto che la rende diversa dalle altre, la rende riconoscibile.
Lui si propone di comprarla per rifarla a partire da quel tetto un po' strano, gli occupanti gli dicono che il tetto va lasciato così com'è.
Torno a casa e, come un tempo facevo spesso, apro Gùgol maps per andare a rivedere quella casa e sognare un po' come se ci volassi sopra insieme a Campanellino.
Non ero pronto al fatto che quelli di gùgol aggiornano le mappe con ciclicità e che quindi non avrei visto la stessa casa dell'ultima volta.
Nelle mappe delle case vedi il tetto, l'unica cosa che chi la abita ha deciso di cambiare.
Vado in streetview, voglio vedere cos'altro hanno cambiato.
Niente, solo il tetto, quel libro parla di noi e non solo perché alla fine i cinesi, del libro come della vita, hanno ottenuto ciò che volevano.

Ho una tua foto nel telefono.
Sì lo so non dovrei, è sbagliato.
E' sbagliato perché non te l'ho chiesta e nella stessa maniera in cui mi sento sbagliato quando qualcuno mi fa leggere parole personali non scritte da me o a me, sento che quella foto è una violazione.
E' che mi fai sentire così tanto perdonato per ciò che sono, che quella piccola violazione ai miei stessi princìpi mi sembra in qualche modo una conferma, per essere perdonato bisogna aver sbagliato ma io con te non ho sbagliato per assenza di occasione più che per bravura e ti vorrei così tanto che vorrei persino poter sbagliare solo per potermi vantare con il mondo del tuo perdòno e allora mi confeziono violazioni dedicate che solo tu mi perdoneresti, lo so, te lo leggo in quello sguardo nella foto.
Solo che una violazione è e resta una violazione e allora l'ho sì confezionata perché fosse tale, ma poi essendo appunto tale il senso di colpa mi porta a non guardarla mai per non reiterare il reato e non abusare del tuo non saperlo.
Ciao sono Bruno e sono in perfetto possesso del mio equilibrio mentale.
Che non significa che sia IN equilibrio, ma solo che del suo stato attuale sono in perfetto possesso e, fidati, è una cosa che non si incontra così spesso.
Solo che ancora meno spesso si incontra qualcuno in grado di perdonarlo quell'equilibrio, ed è questo che rende quella foto la cosa più preziosa che abbia mai rubato in vita mia.
Mi perdoni?

Un libro che in qualche modo mi ricorda mio padre, vuoi perché l'associazione tra le parole Torino + Casa + Nostra mi riporta a un plurale che salta indietro nel tempo di quarant'anni, vuoi perché le zone che racconta con più affetto sono quelle in cui si passeggiava insieme, vuoi perché le zone che più invoglia a visitare sono quelle che io meno pratico per non farlo anche fisicamente il salto nel tempo e così rimanere impigliato nell'unica ragnatela che trasferendomi qui mi sono ripromesso di evitare con tutto me stesso e cioè quella delle vie crucis.
Un libro che restituisce a Torino quella bellezza che persino molti torinesi ignorano e per questo un libro che in ogni pagina mi ha fatto pensare che solo un torinese che ci è cresciuto possa apprezzarlo per il libro che è.
Per tutti gli altri, me compreso, una lonelyplanet non di ciò che si trova oggi, ma di quanto è impresso nei muri, nel selciato, nelle finestre, nella storia di una città che prima o poi dovrò iniziare anche a vivere e non solo abitare.

Un problema fisico che ogni tanto si riaffaccia e che prima o poi dovrò indagare e magari, bum, persino curare, mi ha concesso nell'ultimo mese un'autonomia di movimento che non andava oltre le due ore lontane da un luogo chiuso e comodo nel quale resettarmi.
Essendo rispuntato nello stesso mese della mia vacanza, mi ha impedito di dare libero sfogo alle mie note doti atletiche che in montagna avrebbero certamente dato prova di essere tutt'ora all'altezza dei traguardi di età più verdi.
Ora io sono uno che se fa tre gradini ha il fiatone, ma per un misterioso insieme di elementi che solo quando perfettamente incastrati mi fanno indossare una potenza che lèvati, quando si tratta di camminare all'aperto sono capace di scalare, letteralmente, le montagne e così l'unica attività diversa dal muovere i muscoli delle dita per girare le pagine che mi sono concesso in questa vacanza è stato il camminare nei boschi per ore e dislivelli con cartelli Alert che nemmeno in fila alle montagne russe sono così minacciosi e scoprire, grazie alla facilità con la quale mi muovo quando intorno c'è silenzio e aria e alberi, che il mio futuro è il trekking!
Allora vado all'ufficio del turismo e chiedo la mappa dei sentieri, la tizia al banco mi guarda, indossa lo sguardo di chi ha di fronte un espertissimo ma il tono di voce di chi pensa "Ecco un altro che tra due ore dobbiamo andare a cercare con l'elicottero" e mi informa che in inverno non ci sono sentieri affrontabili da solo, aggiungendoci nel silenzio dei suoi pensieri "cazzone".
Deluso dall'impossibilità di offrire al pubblico la manifestazione delle mie doti sportive, torno in hotel e compenso cercando in rete informazioni, siti, notizie, come si fa lo zaino, cosa devo comprare, cosa serve sapere per non perdersi, come mi devo vestire, come si accende un fuoco, come si caccia per mangiare, come si potabilizza l'acqua, insomma tutto quello che serve per confezionare con tutto l'entusiasmo che ogni volta ci metto l'ennesima cosa che non farò mai perché lavoro troppo.

Se il libri precedenti mi hanno in qualche modo ricordato mio padre, qui siamo direttamente alla stenografia della nostra storia e sfido chiunque, chiunque di quelli che a ogni "un libro che in qualche modo..." precedenti mi hanno commiserato, a negare l'evidenza.
Abbiamo un padre mai vissuto, abbiamo un figlio che non ha mai smesso di averlo accanto, abbiamo ricordi intimi e confidenziali di amici offerti post e usati come matite per delineare i contorni di un vuoto non colmabile con le sole informazioni pubbliche mediate, abbiamo una voce registata come unica forma di contatto con quel suono troppo spesso soltanto sognato, abbiamo ore, giorni, mesi, anni di incontri immaginati come fossero un film con dialoghi, luoghi, abbracci, scoperte, abbiamo un figlio il cui vuoto più grande è l'impossibilità di mostarsi uomo oggi che l'esserlo sarebbe finalmente quella somma di speranze da bambino solo ipotizzabili e persino accusabili come mancanze prima ancora di avere il tempo di provare a esserne all'altezza, abbiamo domande con risposte autoprodotte in eterna assenza di conferma.
Abbiamo un Veltroni di indubbia delicatezza e amore, che non chiede di fare la storia della letteratura ma solo di dare forma a un'anima che volente o nolente una forma la pretende e la chiama ogni giorno, in ogni azione, in ogni passo.
C'è un motivo se una centrifuga assatanata come la politica italiana ha espulso figure come Veltroni o Prodi e quel motivo è che ci sono piani di vita che non saranno mai compatibili con la bontà d'animo e compromessi con la propria storia che non si sarà mai in grado, prima che disposti, ad accettare.
C'è una foto di suo padre negli studi tv insieme ai suoi colleghi che per lui rappresenta il conosciuto e lo sconosciuto di un uomo del quale gli mancavano persino i lineamenti, in quella foto per lui indecifrabili.
Quando mio padre scomparve, dalla scatola delle poche cose che riuscimmo a recuperare saltò fuori una foto di lui negli studi tv insieme ai suoi colleghi, ha uno sguardo che non sono mai riuscito a decifrare ma era lui come non l'avevo mai visto.

Una vita non basta per smettere di essere così fragili.




4 febbraio 2016

Non pensare che t'abbiam dimenticato

Un antico maestro, Akivà, disse: "Una siepe intorno alla saggezza è il silenzio". Forse il suo era così, una siepe, ma un silenzio sbagliato arrugginisce il ferro dentro il sangue. Chi per insufficienza tace, è condannato a ripetere nel vuoto delle sere le parole di risposta che non vennero in tempo.
[...]
Nelle sere in cucina, seduto al nostro tavolo deserto, mastico la mia cena occhi nel piatto e inghiotto le mancanze di cui sono composto.

Il più e il meno
Erri De Luca.