29 ottobre 2014

Tette, tette ovunque

Se persino Terzani, e stiamo parlando di Terzani, nel suo isolato congedo ha avuto bisogno della condivisione, foss'anche del solo fortunato figlio, significa che non c'è realizzazione possibile che non abbia necessità di una superficie sulla quale riflettersi.
Socialità, aggregazione, selezione, scelta, non si sceglie una bellezza ma un linguaggio, un materiale riflettente, amplificatore, decodificatore.
Non è bisogno di condivisione ma di uno sguardo altro, di un racconto di noi stessi fatto da voce suadente, convincente, onesta, affidabile e credibile più della nostra stessa.
La vita è compiuta se è consegnata, altrimenti è solo un viaggio già che ci sei.
La vita è compiuta quando è ascoltata, ascoltata con interesse da chi ce la restituirà indietro con un dettaglio a noi sfuggito.

Allungare una mano e trovare massa grassa, anche addormentata, ma stringere i pugni e gli occhi e il respiro e le palpebre solo per fare il gioco di aprili tutti insieme e trovarti davvero lì, a raccontare per quale motivo non chiedevi altro che trovarti davvero lì.
Non è avere ragione, è essere ragione.
Ragione per esserci, per riflettersi, per considerarsi un racconto migliore di noi stessi e un interlocutore al quale raccontare il perché non si amano le persone, si ama la loro vita e il suono che ha quando recitata con voce altrui, la propria.
Non è dire Ti amo, è dire La tua vita è così emozionante che vorrei essere io a raccontartela, a riflettertela, è essere specchio, specchio delle tue brame e darti la risposta che cerchi ogni volta che la cerchi, esserci ogni volta che vuoi saperlo o che hai solo bisogno, di saperlo.
Ma chi altra potrebbe mai essere la più bella del reame, guardati, è così facile rispondere a quella domanda.

Nel riflesso di un sorriso a ogni mia partenza, nel riflesso dello stesso sorriso a ogni mio ritorno, in mezzo i perché, li prendiamo, li appallottoliamo, ne facciamo carta di riso, una candela, la accendiamo e guardiamo la lanterna prendere il volo.
Sei nel riflesso di ogni parte del mondo, di ogni stagione e di ogni voce, sei nel riflesso di una biciletta a noleggio e di un bicchiere di whisky, di un sole che scotta e di uno spettacolo per bambini, di un aereo e di un bagno nel mare.

Ti chiedessero se sei mai stata a Fuerteventura rispondi sì, sei stata anche qui.
E rispondi sì se ti chiederanno se sei mai stata in Marocco, a Lisbona, in Turchia, a Disneyland, a Londra, a Montecarlo, in Tunisia, a Parigi, in Messico, nei Caraibi, a Barcellona, nel mondo intero, rispondi sempre sì perché sei stata ovunque.
E se ti chiedessero di raccontare tu mandali da me che ti racconto io in ogni parte del mondo, si innamoreranno e sarà come il mal d'Africa.
Mai provato il Mal d'Africa?
Strano, eppure sei stata anche in Kenya.
Come il Mal d'Africa, che esiste e ti trapassa, non esiste posto più bello al mondo.
Anzi sì, uno c'è, tu.
La stellata che c'è in questo momento su questo terrazzo alle due di notte di un oceano lontano, sei il mondo intero cielo compreso e di ogni cosa che faccio invento il racconto che te ne farei.

Vabbé, non proprio di tutte tutte.

Fuochi d'artificio - Negativo - Fuerteventura 2014

24 ottobre 2014

Ce n'est pas que cela

Puse è la protagonista vera di un romanzo.
No, aspetta, rifaccio, partiamo dall'inizio.

Un giorno ricevo via mail la richiesta del permesso di inviarmi un regalo, una forma di delicatezza che so mi sarebbe stata riservata anche se non fosse stata motivata dalla necessità di chiedermi un indirizzo al quale inviarlo, perché delicatezza non formale ma parte delle qualità (e quindi a prescindere) dei mittenti.
Fornito l'indirizzo della zia, che essendo io sempre via mi fa da gentile casella postale, attendo.
Anzi attendiamo, perché la sorpresa, mi viene detto, fa stare sulle spine anche chi me l'ha inviata dal momento che, mi si anticipa, già l'apertura del plico sarà in sé una sorpresa.
Laurea honoris causa in Creazione Aspettativa, difficile riuscire a superarli, il gradino superiore è una stella cometa da seguire e poi chissà cosa trovi, c'è chi dice Gesù, io ci mettevo il mio Fiammiferino ed era lo stesso.
Finalmente arriva il plico, finalmente lo apro, finalmente capisco e mi chiedo perché non ci sia a quel punto anche la cometa.



Ok ho capito, non avete capito.
Questo perché quando vedete una foto non ci cliccate mai sopra e quando vedete una parola evidenziata pensate sia solo una parola evidenziata, quindi andiamo di bricioline di pane:
Ingrandite la foto.
Fatto?
Bene, ora leggete la carta.
Fatto?
Bene, ora cliccate qui
Capito ora?
Allora adesso facciamo che quello che ho provato quando ho aperto quel pacco non ci provo nemmeno a spiegarlo.
Troppe cose, troppe direzioni, troppi piani sovrapposti in maniera perfetta, troppi bersagli centrati in un colpo solo.
Dico solo che per me il regalo poteva fermarsi lì, nel punto in cui qualcuno ha saputo così tanto farsi millimetrico, cos'altro avrebbe potuto farsi altrettanto intenso, quale contenuto avrebbe potuto essere capace di relegare un pensiero tanto grande a mero contenitore, di quale asso i mittenti sapevano di disporre, per potersi permettere una scommessa tanto alta come può esserlo la perfezione ridotta a involucro?

È il 1919, a Zara, in anticipo di due mesi sui nove di noi riflessivi e prudenti nasce Puse, al secolo Jelka, Elena, già dal numero dei nomi capisci che una vita non basterà a un pipistrello che da quel momento vivrà l'intera sua esistenza con la stessa tenacia e forza spese per recuperare quei due mesi vinti al tavolo dell'ansia di iniziare a vivere due mesi più di chiunque altro, di dare al mondo anche il suo volto, la sua voce, le sue domande e le sue soluzioni il prima possibile.
Di Puse, di come Puse abbia messo il suo sigillo sui principali fatti storici che hanno fatto da cornice alla sua immensa vita, si conoscerà da quel momento in poi solo la parte che Vinka, Mamma, ha deciso di raccontare in un diario scritto perché facesse esattamente ciò che ha fatto: sopravviverle e, sopravvivendole, renderla eterna.
Quello che quando Vinka decise di iniziare una cosa meravigliosa come solo un diario che raccontasse la vita del suo piccolo pipistrello avrebbe potuto essere non poteva sapere, è che non stava dando il via a un diario, ma stava dando il La a una storia che sarebbe diventata una matrioska, un gioco di storie ciascuna contenente una seconda storia, contenitore di una terza storia, l'una protezione custodia e narratrice dell'altra, dentro le quali una quarta storia si sarebbe fatta prezioso contenitore di prezioso contenuto: Puse.
Quel semplice diario non chiedeva di essere tanto, ma non avrebbe mai potuto essere meno di ciò che è diventato.
La storia di Puse è racchiusa nella storia di Vinka e qui vale la pena di aprire una parentesi.
Non una sola pagina vede Vinka protagonista, non una sola pagina vede Vinka essere meno che protagonista.
Bisogna essere depositarie di qualcosa che assomiglia al vero e proprio dono, all'alchimia, ciò che qualcuno con felice sintesi chiama Grazia, per riuscire a essere madre in un modo tanto discreto e nello stesso momento tanto intenso.
Capace di amare tutti e tre i propri figli e nello stesso momento di riservare al suo piccolo pipistrello quel di più che sa farsi esclusiva senza togliere nulla agli altri.
Un equilibrio, il filo di un rasoio sul quale solo una madre fatta dell'essenza dell'essere madre avrebbe potuto e saputo muoversi con tanta materna perfezione.
Una vita condotta non insieme ma accanto, non diga per arginare le naturali tendenze che solo una vita in via di sviluppo può rendere esondanti, ma letto per accogliere il fiume che fu Puse con la sua corrente impetuosa, con la sua portata, con le sue anse improvvise e le sue cascate.
Non si offenderà Manuela, non se ne avrà a male Puse né verrà a trovarmi in sogno per chiedermi conto del perché le abbia dato solo un Distinto se a sua madre ho dato Ottimo, quando la vita con la quale Vinka si è meritata quel punto in più è proprio quella di Puse che allora, come minimo e se il mondo fosse giusto, avrebbe dovuto prendere Ottimo anche lei, ma per quanto mi riguarda la protagonista di quel diario non è Puse ma è sua madre e lo è in maniera inversamente proporzionale alla sua volontà di esserlo.
Che persona preziosa, come avrebbe mai potuto generare meno di una meraviglia?
Mi dispiace Vinka, comprendo il tentativo e dovrebbero fare un monumento alla bellezza della volontà, ma non una sola virgola riesce a non raccontare prima di tutto e sopra ogni episodio la grandezza della madre che sei stata.
La madre contenuta nella vita della figlia, la madre contenitore di quella vita, è tutte le madri, se esistesse un modo perfetto per essere madre quel modo si chiamerebbe Vinka, quanto dev'esser facile essere Puse quando il destino ci ha resi prima di tutto e all'origine di ogni nostro lato dell'anima figli di Vinka, la matrioska Vinka che fa da involucro a Puse anche dopo essersene prematuramente separata, una separazione che farà da traccia e filo conduttore di un'intera vita di continue e reiterate separazioni quasi a voler ricreare quella prima e originale come fosse il palco unico sul quale mamma e figlia possono davvero essere una cosa sola pur senza più esserlo, una placenta possono essere dei cuscini di piume, una voce che non si alza per non deviare il corso naturale del fiume, un cappello riparato, un paltò confezionato in tinta con le ghette, un cane tanto desiderato, una madre che prosegue per sempre la sua creazione eternamente incompiuta, il suo perenne prematuro trenta con il trentuno sempre a un passo ogni volta un metro più in là per il destino, l'ingiustizia, la storia, se Puse avesse saputo che quei due mesi d'anticipo sarebbero stati allegoria della sua intera esistenza, la sua perenne rincorsa dell'ultimo metro verso il giusto, l'esatto, il razionale, sarebbe ugualmente uscita al mondo incompiuta?
Sì, al limite ne avrebbe poi discusso il senso ma indubbiamente sì.

A fare da involucro a Vinka che fa da involucro a Puse c'è la storia del '900 Yugoslavo, meno di un protagonista, più di un semplice contesto storico.
Non solo un Dove e un Quando, come ogni cosa di Puse è un metro in più di ciò che la norma stabilisce e allora è anche, soprattutto, un Perché.
Se Puse è stata Puse è perché quel giorno accadeva un evento che Puse avrebbe potuto vivere nell'unico modo in cui andava vissuto e cioè il suo, se solo il mondo fosse stato a sua immagine quanto sarebbe stata diversa la storia.
Di fascismo si è letto, detto e scritto tutto e il contrario di tutto, tutto tranne il fascismo come l'ha vissuto Puse, un modo che quando lo leggi con gli occhi e i racconti di Vinka che racconta di Puse senti di averlo letto nella sua vera e unica storia, una storia di uomini e poco altro, poca retorica e tanto umano, nel misero sminuito senso che il termine Umano assume quando associato al termine Fascismo.
Il fascismo, ci hanno insegnato, è stato spezzarsi ma non piegarsi, a meno di non essere il fascismo che incontrava Puse sbarcata da una nave presa apposta per andare a piegarlo alla logica, al buonsenso, riuscendoci, chi altri se non lei, capace di piegare ai suoi involontari voleri, quei voleri dai quali riusciva a farsi seguire e precedere nello stesso momento, malattie, equipaggi di navi, posti di blocco, professori così intransigenti che tra lo sminuire lei e sminuire se stessi scelgono di uscire a fumare, se vi hanno detto che il fascismo furono uomini che mai si piegarono sappiate che vi hanno mentito: Puse piegò il mondo a sè e se il destino la poggiò nel mondo insieme al fascismo Puse piegò quello, non fu questione personale, fu contemporaneità storica, fosse stata l'inquisizione avrebbe piegato l'inquisitore portandolo a uomo prima di tutto e a quel punto l'inquisitore non è più nulla, fossero stati i dinosauri avrebbe piegato i dinosauri, Puse semplicemente era fiume e il mondo il suo letto, se non c'è ci pensa il fiume stesso a scavarlo.

Come tutte le donne (e gli uomini) nati all'inizio del secolo scorso, Puse dovette imparare il duello tra l'istinto alla vita e la guerra, guerra nella guerra, natura contro irrazionalità, amore contro bombe, figli contro fame, Puse dà alla luce Tea, che darà alla luce Manuela, quarta generazione attraversata da quel diario che Manuela e Nico hanno deciso di riappoggiare sul fiume del tempo perché riprendesse il suo cammino.
Non nasconde il suo ruolo Manuela, né quello tecnicamente editoriale né quello che il destino decide di assegnarle un giorno di appuntamenti mancati e sigarette mai accese.
La famiglia si unisce, ciascuno con le proprie capacità, fino al punto da studiare il croato pur di tradurre quel diario e così regalargli una non prevista nuova vita italiana.
Rinascere italiani dopo il fascismo per uno yugoslavo è cosa che richiede carattere, riuscire a farlo due volte inserendoci una morte in mezzo, è essere Puse.
Puse è la storia matrice di tutte le storie, la dimostrazione di ciò che è sempre stata una mia convinzione: ciascuno di noi è un romanzo al quale manca solo uno scrittore che gli dia forma.
Tutti quelli della mia generazione hanno avuto accanto la propria Puse, i più fortunati, io tra questi, ancora possono guardarla, ascoltarla e imparare come si vince la guerra delle guerre.
In ogni casa c'è una Vinka, anche se non tutte le Vinka hanno in sé la medesima perfetta sintesi del concetto di madre del quale era dotata Vinka Šperac Bulić.
Ed è questa l'ultima matrioska che contiene tutte le precedenti: la storia di chiunque di noi se solo fossimo capaci di essere Manuela e di incontrare, riconoscere e sigillarsi per sempre al nostro Nico, girarci indietro verso la nostra Tea, che girandosi indietro incontra Puse, che girandosi indietro incontra Vinka.
Quale di questi gradini saprebbe dirsi capace di essere ciò che è o è stato, senza i precedenti a trattenerlo e liberarlo, contenitori e contenuti, madri di madri di madri, matrioske.

Fuori da quella linea solo Nico, il cui valore deve davvero essere pari alla delicatezza con la quale avrà messo piede straniero in una storia così tanto e nello stesso momento così poco sua, una storia che ha saputo dirgli tutto ciò che gli andava detto mettendo semplicemente, silenziosamente, il suo nome in testa alla dedica.
Piccole virgole che sono tappeti rossi, sono Da qui in poi, sono braccia strette al cuore di un grazie per tutto quanto fino lì.
A lui il compito di romanzare e che compito, non c'era altro da aggiungere a quella storia se non la propria impronta italiana al cui estro viene concesso il privilegio di dare qualcosa a una storia che non aveva bisogno di nulla per dirsi romanzo.
Non una pagina senza chiedersi se sia stata davvero così tanto, il sogno di poterlo e saperlo leggere in originale, quale dono per chi ha potuto, a ogni pagina chiedersi se sia il diario così ricolorato ad aver reso Puse così adatta a essere il personaggio di un romanzo, o se sia Puse col suo esser stata un perfetto personaggio da romanzo ad aver reso così facile cucirle addosso un romanzo con la stessa precisione e lo stesso amore con cui Vinka le cuciva addosso vestiti per feste sempre più grandi di lei.
Sapendolo, perché i ruoli di ciascuno vengono dichiarati fin dall'inizio, leggi l'incredibile diario giocando a indovinare quali pennellate siano di Puse, quali di Vinka e quali di Nico, intruso non intruso, straniero con cittadinanza, un ruolo così nuovo e perfetto che alla fine trovi tutto talmente preciso che l'unica cosa che realizzi è che in quell'incredibile storia gli unici due uomini che compaiono con ruoli attivi e responsabili delle direzioni al bivio, sono italiani.
Brava gente.
E giochi a chiederti se il tranello della scopa e dei gradini è davvero avvenuto così o se è in quelle vette di fantasia che puoi leggere l'italiano che ha avuto l'onere e l'onore di colorare quella tela.
Ti chiedi se il professore sia davvero uscito a fumare o se è quello che Nico avrebbe fatto al posto suo, dichiarandolo mettendo anche un po' di se stesso e non solo della sua abilità formale in quella che vista da qui ha davvero i contorni nettissimi dell'occasione della vita per dire un giorno ai propri nipotini ma soprattutto oggi a se stesso di aver fatto parte di qualcosa di magico.
Non la storia di Puse, non il diario, non il libro ma la matrioska, la semplice vita di ciascuno di noi che se solo volessimo, se solo fossimo capaci, conterrebbe quella di tutti quelli che abbiamo intorno e da quella di tutti quelli che abbiamo intorno sarebbe contenuta.

Chiedetele di mandarvene una copia.
Non perché sia un libro migliore di altri o una storia più intensa di altre, ma proprio per il suo non esserlo, perché quello che hanno fatto Tea Manuela e Nico non è raccontare una storia unica ma dare un senso a tutte le storie contenendole in una storia unica iniziata e mai finita, da Vinka che ha scritto la prima riga a Manuela che ha scritto l'ultima.
Per il momento, naturalmente.
Perché questa traduzione non è un modo per diffondere il diario, questa traduzione ne è solo il nuovo capitolo che si svolge in Italia, in Puglia, nel 2014, è sempre Puse, solo che invece di esserlo girandosi indietro, in questo nuovo capitolo lo è guardando avanti.
E da Zara guadando avanti si vede l'Italia, passasse anche un secolo di viaggio Zara guardando avanti vedrà sempre l'Italia e l'Italia guardando avanti vedrà sempre Zara.
È la natura che ha deciso così.



19 ottobre 2014

Capita soprattutto ai migliori

Come vuoi che sia andata, è andata così:



Ché poi un giorno parleremo anche di questa cosa che ha a che fare con il perfezionismo, con l'assoluto, con l'intransigenza, con la professionalità.
Questo fatto che io e l'altro responsabile siamo usciti dalla regia con il nervoso a mille, i nervi a fior di pelle, l'incazzatura di rara tensione per un lavoro che stava uscendo perfetto e negli ultimi dieci minuti ha svoltato nella tragedia per un incidente in diretta che in un istante ha invertito il mondo catapultandoci di colpo al confine con la perdita del cliente, lo stesso cliente che per tutte le due ore successive nelle quali noi eravamo in macchina verso casa inventando tra noi le più sincere scuse che avremmo dovuto tirar fuori da lunedì in poi per discolparci e giustificarci, ci manda sms a catena sull'onda dell'entusiasmo di risposta ricevuto dagli ospiti durante il pranzo successivo e allora una catena di "Il miglior evento della nostra storia" e "Vi riportiamo i grazie di tutti quelli in sala per un evento al quale non avevano mai assistito" e noi in macchina sempre più increduli, sempre più zitti, sempre più convinti che tra noi e quelli che guardano ciò che facciamo esista una distanza di aspettative con la quale prima o poi dovremo fare i conti e della quale soprattutto dovremo prendere coscienza anche quando noi stessi siamo convinti di aver fatto un buon lavoro.
Perché o il cliente si aspetta meno di quanto noi chiediamo a noi stessi anche quando noi crediamo di aver fatto un buon lavoro, oppure l'approfittare di quella distanza per scrollarsi di dosso la consapevolezza di aver fatto un disastro ci porterà in un lampo oltre il confine dell'accontentarsi, anche noi, che una vita così delirante non la sapremo mai più fare il giorno che smetteremo di entusiasmarci solo quando noi, non loro, ci diciamo bravi, ci diciamo capaci, ci stringiamo tra noi la mano e ci diciamo grazie.
Sono stato anche bravino questa volta, non semplice, regia in doppia lingua perché fonico e fonico di palco erano francesi e che casino un lavoro fatto di duecento comandi al minuto da splittare separando quelli per l'audio per dedicare loro apposito spazio per il mio inglese arraffazzonato che i miei altri tecnici italiani nemmeno parlano e riuscire a farlo arrivando sempre all'istante giusto, si parla di secondi, con il comando giusto per il tecnico giusto, quasi un lavoro da traduttore simultaneo, splittare il cervello per fare una regia su doppio binario tenendoli sempre coincidenti temporalmente al minuto, ne esci stremato come gli interpreti che proprio per la fatica che fa la mente a operare quel processo lì non lavorano mai più di venti minuti consecutivi e poi si danno il cambio mentre tu lo devi fare per cinque ore continue senza pausa e che fatica accidenti, che fatica.
Sono stato anche bravino ma non bravo, questa volta le lacune che solitamente riesco a dissimulare si sono fatte più evidenti e non saranno gli abbracci e i baci e i grazie entusiasti del cliente alla fine, i soliti abbracci e baci e grazie di ogni fine lavoro, a cancellare la netta consapevolezza che questa volta no, questa volta non l'abbiamo fatto un buon lavoro proprio per niente.
Che sia piaciuto a loro non significa che sia stato un lavoro fatto come siamo capaci di farlo, ma solo che l'asticella minima dei clienti per i quali lavoriamo e la nostra sono parecchio distanti tra loro e noi lo sappiamo, non sappiamo prenderci in giro, che questa volta quella distanza ha salvato il nostro prossimo lavoro ma non il nostro senso di colpa e la nostra consapevolezza di non essere stati all'altezza, alla nostra altezza.
Essere professionisti non significa essere esenti da errori, siamo umani come tutti e come tutti siamo soggetti al caso, al venerdì diciassette, alle dinamiche di gruppi sempre nuovi ogni volta e quindi sempre soggetti agli incidenti da non confidenza e non coincidenza di tempi, di modi, di procedure.
C'è una quota errore umano che è inclusa e concessa anche a noi come a tutti, l'operazione è tecnicamente riuscita ma il paziente è morto, l'aereo era a posto e il pilota più che esperto ma il fulmine ha colpito proprio l'ala, ma quella quota non comprende l'evitabile ed essere professionisti significa poter sbagliare ma non là dove si è in grado di non farlo e le condizioni permettono di non farlo.
Questa volta io ho commesso errori che ero in grado di evitare e che le condizioni mi permettevano di evitare ma che ugualmente ho commesso perché ho voluto tirare troppo la corda, ho voluto spingermi al tempo estremo, ho voluto utilizzare ogni secondo prima della messa in onda per un lavoro che avrei potuto fare meno elaborato e quindi meno lungo da fare utilizzando il tempo rimanente per riverificarlo, pur sapendo a quale rischio mi esponevo scegliendo di farlo elaborato al punto che non avrei avuto tempo di controllarlo perché l'avrei concluso un istante prima della proiezione.
Mi esponevo al rischio dell'errore non verificato e quindi possibile e quello ho commesso.
Essere professionisti non significa non sbagliare, significa essere consapevoli di poter sbagliare come tutti e quindi valutare il tempo a disposizione sapendo che una parte deve sempre essere dedicata al controllo di quanto fatto perché noi andiamo in diretta e una volta sugli schermi non c'è modo di riparare il danno.
Quando si ha troppa fiducia in se stessi si finisce col dimenticarsi che anche noi sbagliamo e così a dimenticarsi di quanto importante sia il tempo della verifica, del controllo, che si finisce col considerare superfluo.
Avevo a disposizione tempo 10 e invece che assegnare tempo 8 al lavoro e 2 alla verifica, per fare un lavoro più bello ho rischiato dedicandogli tutto il 10 che avevo fino al secondo prima della messa in onda.
E il mio errore è andato in onda.
E a nulla valgono i grazie del cliente che di quella virgola se ne frega, a nulla vale la pacca sulla spalla dei colleghi che di errori ne commettono più di me, vale solo che l'unico che in sala se n'è accorto e ha chiesto conto all'agenzia di quanto apparso si è sentito rispondere che non c'è stato nessun errore perché Bruno di errori come quello non ne commette e quella risposta è partita senza prima chiedermi di verificare se effettivamente l'avessi commesso.
Chi mi paga ha fiducia in me più di quanta ne abbia io stesso e questo è uno scollinamento che non deve mai accadere perché uno dei due che mantenga alto il cancello dell'errore dietro l'angolo deve sempre esserci, a turno si deve poter rischiare sapendo di avere intorno persone che ti imporranno la consapevolezza della fallibilità e quindi della verifica, se si salta tutti dalla scogliera non ci sarà nessuno a riva a tirarti la cima quando sbagli il tuffo e a quel punto diventa davvero solo questione di caso, unica variabile alla quale affidarsi, unico confine tra gli azzardati e i professionisti.
Ho sbagliato, sono andati tutti a festeggiare, io sono uscito da solo, sono andato al porto e mi sono regalato una lunga riflessione sul vetro di un bicchiere di birra solitario e consapevole.
Quello che là sopra, probabilmente abituato e condizionato dalla mia solita baldanza, hai scambiato per la foto di un brindisi è in realtà il riflesso di una colpa.
Io quell'errore potevo non commetterlo e non è morto nessuno, la felicità intorno ne è uscita intonsa, la gioia collettiva è esplosa come ogni altra volta, ma se io quell'errore ero in grado di evitarlo quell'errore diventa l'unica cosa con la quale io torno a casa, perché il mio primo cliente sono io, il mio primo giudice sono io e se voglio sapermi obiettivo quando mi dico bravo, devo non smettere mai di esserlo anche quando c'è da non darsela affatto quella pacca sulla spalla solo perché tutti intorno te la danno.

La realtà è che sono un caterpillar e tengo ritmi che nemmeno un esercito di sherpa, non cedo, non mi lamento, non mollo, tiro dritto qualunque cosa accada e qualsiasi sia la strada da fare per arrivare e proprio per questo quando mi dico stanco è perché il limite è stato davvero raggiunto e quando quel limite viene raggiunto si sbaglia dove mai si sarebbe sbagliato, quell'esatto punto in cui si smette di essere professionisti e quando si smette di essere professionisti si smette di essere bravi come lo sono io e nessun altro in Italia.
Nessun altro in Italia.
Io sono l'unico in Italia che fa ciò che faccio io come lo faccio io e non è un'iperbole, non sto in giro trecentosessantacinque giorni l'anno perché mi piace fare cose vedere gente fare tanti chilometri e dormire in un letto diverso ogni notte, ma perché quando serve uno come me posso andare solo io perché uno come me nel mio settore non esiste, sono l'unico in Italia nel vero senso della parola, posso dirlo in senso oggettivo, è una responsabilità enorme ed è una corona enorme e anche per questo uno sbaglio che fatto da altri è piccolo se fatto da me diventa uno sbaglio enorme, perché non sarei l'unico in Italia se non fossi uno che quando commette un piccolo errore la gente intorno non ci crede al punto che garantisce sul mio non averlo commesso senza nemmeno chiedermelo prima, io nella percezione comune non faccio nemmeno quelli piccoli e quindi quando faccio quelli piccoli diventano enormi, si chiama responsabilità della riuscita del lavoro di tutti, c'è chi ci rischia il mutuo sui miei errori, non è perfezionismo, è che proprio io giro sulle dita la vita delle persone che da me vedono dipendere il prossimo lavoro.
Ma sono l'unico in Italia ancora per poco perché una cosa così è un traguardo sul quale chiunque metterebbe la firma aggiungendo zeri ai preventivi e altrettanti ai consuntivi sui quali nessuno fiata mentre per me è un'assurda gabbia perché è vero che se chiedo la luna ormai c'è chi me la porta, ma è anche vero che il prezzo è che io non posso più dire di no a nessuno di quelli che si rivolgono a me perché se arrivano a me è perché hanno un bisogno che sono l'unico in Italia a poter risolvere e quindi questa cosa, ormai raggiunta bravo clap clap, può andare a far parte di quelle fatte e chiuse, ora si cambia si riportano indietro gli zeri sui consuntivi a una cifra che non avrò più vergogna di raccontare a persone alle quali voglio bene e che la schiena se la spezzano davvero per non prendere in un mese quanto io prendo in un giorno e si torna là dove non sono l'unico in Italia e ci penso io, così come sono stato capace di diventarlo sono capace di smettere di esserlo, ma di questo racconterò quando rientrato dalle vacanze darò il via alla fase due della mia vita professionale con una cosa che dire grande è dire poco per ottenere la quale, pensa l'importanza, ciò che ho messo sul piatto io è il mio guadagnare un terzo di quanto guadagni oggi che posso guadagnare davvero quello che voglio.
Qualcuno direbbe un matto, io dico uno al quale dei soldi non è mai fregato nulla e per questo non li ha mai fatti e ha distribuito in giro tutti quelli che gli son passati tra le mani, io voglio solo stare bene e che quelli intorno a me stiano bene, solo che non parlo in senso economico e quindi dei soldi me ne faccio oggettivamente ben poco in assenza di tutto il resto che non si può comprare, come per esempio la libertà di dire no o anche, semplicemente, di essere accanto a chi amo quando ne ha bisogno.
A me oggi manca quella e quella ora vado a riprendermi.
Ho raggiunto una tale libertà di decidere che non ho più la possibilità di farlo, che accidenti di paradosso.
E se pensi che sia uno che crede molto in me, non hai conosciuto quelli con i quali lavoro e che si sono detti disposti a, pur di rubare a tutti gli altri il mio essere l'unico in Italia.
Quando mi han detto cosa hanno bloccato in attesa di conoscere la mia decisione non ci credevo nemmeno io.
Così tanto non ci credevo nemmeno io ed è tutto dire, che cosa enorme per il mio cuoricino stanco.
E' davvero servito ogni singolo giorno di tutti questi assurdi e incredibili venti anni, comprese le cadute, le lotte e le scelte pagate, tutte a caro prezzo, una per una, sempre da solo e sempre rialzandomi e ripartendo.
Ma dio se sto raccogliendo oggi e quanto è lunga la fila di quelli ai quali lo potrei sbattere in faccia.
Uno, è lunga uno e non servirà nemmeno sbatteglielo in faccia, il non aver bisogno di farlo sarà l'ultima vittoria finale perché quel non bisogno è un non bisogno intimo, non tecnico, è un essere risolto, un non aver più la necessità di dimostrare nulla a nessuno e questa è la più grande linea che si possa raggiungere nella vita intima e personale, il momento in cui che gli altri sappiano dove sei arrivato è marginale e ininfluente, lo so io e tanto basta per sapere che la fatica è valsa, che avevo ragione io, che ho fatto bene a non smettere mai di crederci nemmeno quando è stato proprio fango e merda senza identificabili uscite a portata di mano, magari lontane ma visibili e invece non c'erano nemmeno quelle e in quel momento tocchi lo smarrimento vero, la disperazione vera e io lo stesso a non smettere di credere che l'avrei trovata un giorno e quanta vita c'è dentro il "Lo sapevo" dell'istante in cui la trovi o la costruisci ma in ogni caso e contro ogni aspettativa, soprattutto contro ogni aspettativa e previsione di quelli intorno eccitati dal loro percepirti finito perché tale appari, ne esci a testa alta, distrutta da anni di somatizzanti stabili malditesta ma alta e vaffanculo, per abbattere me mi devi proprio sparare, meno di quello vinco io qualsiasi guerra.


Adesso mi fermo e me ne vado là dove tutti hanno bisogno di andare una volta all'anno e io invece me le salto a cicli di ogni tre, là dove l'unico impegno sarà decidere cosa leggere dedicandomi finalmente a tutti i libri che le persone splendide che siete mi hanno regalato e che stanno lì ad attendere quella volta ogni due anni che ho più di due ore consecutive spensierate, decidere cosa bere tra una birra ghiacciata e l'altra, su quale culo fare le fantasie delle ore successive come unica attività neuronale, dove andare a mangiare il pesce più buono dell'isola per stasera, e poi per domani sera, e poi per la sera dopo e per tutte le quattordici che passerò lontano da quest'Italia nella quale sono unico.
Non mi pare vero che stia per andare davvero in vacanza.
Poi torno e cambio per l'ennesima volta vita, questa possiamo dirla giunta al traguardo massimo raggiungibile e sedersi non è cosa per quelli come me che sono unici.

Potevi essere al mio fianco anche nella prossima, potevi far parte di una vita meravigliosa che chiede solo di essere condivisa perché tutto questo nella mia sola non ci sta, hai preferito altro, tecnicamente si dice in bocca al lupo, ci vedremo quando avremo settant'anni, quando non avrai altro da dirmi che "Ho sbagliato" incartato in un rimpianto del quale io mi sarò liberato decenni prima e io non avrò altro da rispondere che "Capita anche ai migliori, pensa che una volta ho sbagliato persino io. Perdònati, io l'ho fatto".


13 ottobre 2014

Faccio un salto e domani ne faccio un altro

Il vantaggio di essere sempre in viaggio è che le distanze spazio/temporali diventano relative, nel senso che si azzerano, nel senso che mi chiamano e mi dicono che c'è da Fare un salto a verificare l'allestimento delle proiezioni per l'evento del quale domani andrò a fare la regia a Montecarlo, ruolo che mi inserisce nella lista di quelli che quel salto dovranno farlo, in una posizione così prioritaria che la data del salto viene stabilita in base al mio calendario lavori in corso.
Farò la regia del resto, se non lo verifico anch'io l'allestimento chi lo deve fare?
Dico giovedì, si organizza per giovedì, andiamo a fare il salto giovedì e venerdì si rientra.
Sul pianeta sul quale abito io nel quale le distanze spazio/temporali si annullano, Fare un salto a verificare le proiezioni significa salire su un treno e farsi sette ore di viaggio per andare a Pescara nella sede degli allestitori tecnici, roba che l'80% di quelli che conosco per fare la metà delle ore di viaggio si organizza con un mese d'anticipo e le fa solo se è per poi fermarsi dieci giorni in vacanza.
Noi saliamo sul treno, ci facciamo quelle sette ore, verifichiamo l'allestimento, ci svegliamo la mattina dopo, risaliamo su un treno e torniamo a casa.
L'ultima volta che ho fatto quel viaggio in treno su quella tratta attraverso le stazioni di San Benedetto, Cupra, Porto San Giorgio, Ascoli, no vabbé niente.
Dicevo che lo spazio è relativo e il tempo è relativo, quattordici ore di viaggio in trenta di Salto e non sentirle, si direbbe per altissima professionalità.
Col cavolo.
Si va per mangiare.
Allora voi adesso immaginatevi un allestimento temporaneo di una proiezione di una ventina di metri di base che viene montata solo perché noi la possiamo verificare e rismontata la mattina dopo per esser caricata sui bilici e spedita a Montecarlo dove domani verrà rimontata nel posto dove si terrà l'evento, serve uno spazio aperto tipo il cortile degli allestitori che ci accolgono e quando dico ci aggolgono intendo dire che non preparano solo l'allestimento, ma nell'allestire si curano di allestire anche una sagra di prodotti locali per accogliere i forestieri conosciuti per essere gente che si muove soprattutto per mangiare e poi, tra un pasto e l'altro, per lavorare.
Ché noi sette ore per dire "Ok funziona" e poi tornare a casa ce le facciamo anche, ma questo anche perché sappiamo che lavorare ok, ma lavorare con una griglia di proiezione è un conto, lavorare con due griglie, una di proiezione e una di arrosticini è altro discorso.
Quando poi conoscendo la nostra capacità fagocitante gli arrosticini comprati sono in numero duecentocinquanta, le sette ore di treno diventano un lampo, diciamo un salto.
Agevolo documentazione fotografica numero 1 ritraente allestimento serata a tema Salto per verifica:



Allora diciamo che la serata si svolge nel migliore dei modi e dei tempi e dei gusti, del vino non ne parliamo perché come lo descrivi un vino tanto buono?
Le fai eccome sette ore per andare a farti una grigliata di duecentocinquanta arrosticini a Pescara bagnati con un rosé ghiacciato e rientrare a casa la mattina dopo.
A meno che tu non sia me che Tu non mi basti mai e allora quando leggi la mail con il treno di rientro e ci leggi sopra come orario le 12.15, rispondi subito alla mail con un lapidario "A cavallo del pranzo? Sul mare?"
Non che non sapessi con chi stavo parlando e che quindi bastasse solo che uno di noi alzasse la palla perché uno qualsiasi degli altri tre la schiacciasse.
Si cambia l'orario del treno, lo si sposta alle 16, che cavolo lì è estate, trattoria sul mare sia, per tornare a casa c'è sempre tempo, prima il pesce e il profumo di salsedine, ci sono delle priorità nella vita e il lavoro è ovviamente una di queste.
Agevolo documentazione fotografica numero 2 ritraente momento di duro lavoro di briefing tra direttore di produzione e Project Manager:


Il treno incombe, il nord ci reclama, non ordiniamo alla carta ma a tempo, abbiamo un'ora, fate voi, la cosa più veloce che riusciate a fare e poi fuggiamo in stazione.
Agevolo documentazione fotografica numero 3 della cosa più veloce che riescono a fare:



Poi treno, sette ore, si rientra a casa dalla giornata di duro lavoro.
Relativamente parlando.

Ok ok, non avevo niente di romantico da scrivere né ho tempo per lunghe e noiose analisi socio-politiche, al momento oltretutto rese complesse dal fatto che non ho più tempo per seguire cosa stia succedendo a palazzo e quindi potremmo essere a Frittole nel quasi milleecccinque e per me politicamente sarebbe uguale, quindi non state a fare i puntigliosi, anch'io ho il diritto di essere banale e di nessuna qualità formale né sostanziale ogni tanto, beccatevi la sterile cronaca di una delle tante dure giornate di lavoro di evidente scarso interesse per il mondo ma di altrettanto evidente interesse per chi si chiedesse quando sparisco dove diavolo vada, che cavolo di vita faccia, che accidenti di posti attraversi.
Faccio questa vita qui.
E' un lavoro duro, durissimo, ma qualcuno deve pur farlo perché voi possiate ballare e ridere e 'mbriacarvi davanti agli schermi senza mai chiedervi quanto accidenti di lavoro e di ore e di fatica e di arrosticini e di persone splendide, come quelle che ci hanno regalato questo paradiso del gusto e ai quali non finirò mai di dire grazie anche per una serie di altri fattarelli dei quali parlerò al ritorno, ci siano dietro.
Ci siamo noi dietro, con le nostre ore relative, le nostre vite a chilometro zero nel senso che possono essere dieci o mille li facciamo in un batter d'occhi come fossero sempre zero, noi che sacrifichiamo intere vite personali rese impossibili da questa vita a tempo triplicato e geolocalizzazione random e prezzi altissimi in termini di fatica e di due ore di sonno a notte per mesi, per anni, ma che suono che ha "Benvenuti questo è il vino questo è salame questo è formaggio e questi sono duecentocinquanta arrosticini", dove andiamo a mangiare oggi, andiamo a mangiare a Pescara, ma siamo a Torino, fa niente a Pescara c'è un posticino sul mare che è una bomboniera, domani dove andremo, domani andremo a Montecarlo a strafogarci di tartare...a lavorare duramente.
Voi volete godere dello spettacolo, noi anche, fine, stop, non si discute, o entrambi o nessuno dei due.

E vieni con me anche davvero cazzo, finiscila con 'sta pantomima della vita che non può diventare magica domani stesso, il mondo là fuori è faticoso per tutti ma può anche essere saporito oltre che faticoso, fidati di me che so come si fa e nemmeno prendo in giro dicendo che no, faticoso non lo sarebbe.
Lo sarebbe, in un modo o nell'altro lo è sempre, ma la differenza è che io so come condirlo con il meglio che si può prendere.
Guarda davvero non sono molte le cose che mi riescono così perfette, anzi diciamo solo una, ma di sicuro dopo vent'anni che faccio 'sta vita posso garantire che rendere gustosa, davvero gustosa, una vita di fatica, davvero di fatica, è una di quelle, anzi diciamo l'unica, sulle quali potrebbero darmi una cattedra all'università.
Ti do centodieci, giuro, la lode e naturalmente pure il bacio accademico.
E che bacio.
Accademico nel senso di perfetto.
Vabbè, io intanto inizio ad andare, 'sti altri quattrocento chilometri e non sentirli, pensa con quanta facilità mi catapulterei da te ogni volta che mi dicessi Mi manchi.
Faccio sette ore di treno solo grazie all'immagine di una pasta con le vongole in riva al mare come meta, hai idea di cosa farei se quell'immagine fossero le tue braccia?
No, 'spe, non volevo dire che tu stai sul piano dove stanno le vongole, cioè intendevo dire che, cioè quel fatto là dei piaceri, cioè del non temere distanza di tempo e di spazio, la annullo per le vongole figurati per te, no 'spe di nuovo, cioè tu di più, anche le vongole e gli arrosticini però eh.
A piedi ci verrei, stupida.





8 ottobre 2014

Eu sei que vou te amar

Venti minuti e trecentosessantacinque giorni fa.
E qui una lunga lettera che quando felice di averla riletta ho cancellato.
E' stato bello scriverla, prezioso soffiarla via alla fine.
Era un Grazie (per sempre) ma gli mancavano gli altri quattro sensi e allora torni nel cuore da dove è uscito.
Io lo so e basta questo perché sia il grazie che voleva, ma non avrebbe mai potuto, essere.




6 ottobre 2014

Si vivesse solo di inizi

Nel mio percorso ho incontrato diverse volte la depressione.
L'aver vissuto a Milano per trentacinque anni ha aiutato non poco l'inanellamento delle occasioni di quell'incontro, essendo notoriamente (quanto latentemente) una città che i depressi li produce per cicli.
Dopo una serie di incontri con le sue innumerevoli forme, sono giunto alla conclusione che la depressione è uno dei pochi, credo l'unico, mali che riesce a essere nello stesso momento male e cura.
La depressione è forse l'unico male il cui mantenimento è garanzia di controllo della stessa.
Il depresso, quando diagnosticato, subisce una metamorfosi interna tale per cui l'urgenza diviene la conservazione dei suoi marcati contorni, dal momento che gli stessi sono garanzia della conservazione di quella consapevolezza la cui perdita è il cancello per la via davvero buia.
Quasi a dire che il depresso non è mai davvero depresso, ma è una persona che riconosce i confini superati i quali la depressione prende il sopravvento.
Il depresso ha bisogno di sapersi depresso per non oltrepassarli e cadere nella reale depressione.
La depressione per questo può essere divisa in due fasi distinte e conseguenti: l'antidepressione e la depressione vera e propria.
Entrambe hanno le medesime caratteristiche, uguale somatizzazione, identica manifestazione esterna, ma la prima è argine della seconda, motivo per cui il depresso tende a temere più la sua scomparsa che il suo peggioramento, poiché la fine della prima fase solo in rari casi è il risultato di una guarigione, nella maggior parte è sconfinamento nella seconda e quindi nella depressione vera e propria, quella senza ritorno.
L'antidepressione, l'anticamera della depressione, è a suo modo rassicurante, è consapevolezza del qui ed ora, si conosce la curva di palesamento, se ne conoscono persino gli orari, le leve attivanti, sai che la sera è inevitabile, l'orario della fine delle reti sociali è puntuale come il proverbiale orologio svizzero, la notte non perdona, il dubbio della reale solitudine è costretto ad attendere la mattina dopo, l'autunno è una stagione interiore, ciascuno conosce il proprio ventuno settembre e non è il venti non il ventidue, è il ventuno e quanto ha bisogno, il depresso, di queste certezze.
La depressione, quella vera, quella dopo, è quando non sai quando arriva l'autunno ma sai che arriva e il depresso quell'incertezza lì la teme più della depressione stessa.
Se al depresso riveli la sua depressione non lo aiuti, lo sposti oltre il confine togliendogli la possibilità di prepararsi al ventuno prossimo e non c'è cosa peggiore che tu possa fare per lui che il togliergli la rassicurante certezza del quando.
Se gli sottrai la consapevolezza del quando, se lo porti al di là del confine oltre il quale non è più alle sette di sera di ogni giorno ma chissà quand'è e quindi può essere sempre, gli apri il baratro, gli togli le maniglie, il terreno sotto i piedi e allora sì che vedrai la depressione in tutta la sua detonante potenza distruttiva, perché eliminata la certezza del quando viene meno la possibilità di prepararsi al come e lì davvero per il depresso è inferno.
Ne hai almeno uno accanto, per quello dentro è questione di culo.
Fidati, è solo questione di culo.
E se fai parte di quelli ai quali è andata bene fai quello che faccio io: ringrazia il cielo ogni signolo giorno che il sole si alza perché se non fai parte di quelli ai quali è andata male non è perché sei forte, non perché sei capace, non perché sei risolto, nessuno lo è, ma perché quelli intorno non sono stati più capaci di te di utilizzarti come parafulmine.
Poi c'è la felicità, la cui anticamera è la serenità, e lì non è questione di culo ma di scelte.
Chiamalo coraggio.
Se non hai coraggio sei depresso, in qualsiasi stadio forma ed evoluzione.
Se hai coraggio sei felice anche se hai paura.
Perdi la sicurezza del cosa, non curarti della certezza del quando, ma difendi il coraggio con le ugnhie e con i denti perché il confine è quello.