27 febbraio 2004

Si intitolava “Il frigo parlante”.

Sono stato in un film stasera.
Erano anni che volevo andare a vedere quel film.
Lo immaginavo così e volevo vederlo così.
Volevo starci così.

Parla di una famiglia strana, quel film.
È una famiglia nella quale il capofamiglia, il gatto, ogni tanto fa giocare i suoi bambini regalandogli qualche topo da schiacciare con i mattoni per insegnar loro che non bisogna far soffrire gli animali, per poi, finita la spiegazione, aprirsi la porta e andare a fare un giretto fuori.
Si capisce che è il capofamiglia perché le porte le apre con la maniglia, e la finestrella nella porta del giardino serve solo ai topini del grano che ogni tanto vanno a rotolarsi nella colla per giocare alla rana.
Tra un topo e l’altro, uno dei bambini, come ogni bambino, quando la mamma non c’è si toglie la tuta ignifuga e si diverte a disegnare piastrelle sui muri e a buttare carta nel camino, mentre la mamma gli dice che quando torna non vuole trovare altri disegni sui muri.

Nel frattempo una coppia di americani litiga tra loro usando la voce di quattro italiani.
“Sei un uomo col cervello diviso in sei! No, tu sei una donna che non parcheggia in retromarcia!”
Il pesce cappello e il cane gommoso, intanto, si godono la vacanza saltando e ballando consapevoli che il pesce cappello e il cane gommoso siano fatti per quello.
Durante tutto questo, nel mondo all’incontrario gli ospiti assaporano una cena all’incontrario, un bicchiere di vino, il dolce, e la pasta anni 80.

Una famiglia che tiene sacchetti di riso nella custodia della chitarra perché la chitarra è servita per dormire più comodi.
Una famiglia meravigliosa al sapor di cioccolata per due moltiplicata per tre ma solo la parte a matita.
Una famiglia che vive nel paese dei barattoli che non si svuotano mai.
Dove ci si conosce tutti perché il mondo è piccolo.
Dove gli uomini si scrivono.
I gechi si disegnano.
I sogni si realizzano.

E io non lo so se sono una bella persona, se mi sto comportando bene, se sto facendo le cose giuste, se merito cose belle come quelle che ho visto stasera.
So solo che sto andando sempre dritto lungo la strada di uomo senza mappa fregandomene dei camion grossi grossi che lampeggiano per dirmi di farmi da parte pronto a dormire in una piazzola a bordo strada pur di rimanere sempre sincero contento anche solo di una spalla su cui appoggiarmi fidandomi solo del mio istinto di navigatore per arrivare in posti dove non sono mai stato ma che sono certo essere li.
Dove anch’io un giorno, girando a destra, troverò un frigorifero che mi dirà “Papà, coccole”.

Stasera non ero io l'uomo più bello del mondo.

26 febbraio 2004

Avrei voluto dirti Auguri

Stasera era il compleanno di mio fratello.
Era tutto il giorno che pensavo alle parole da scrivergli.
Purtroppo, come spesso accade, le cose sono andate diversamente da come desidero io.

Auguri, Valentino.
In altre serate sarei stato capace di scriverteli meglio.
Ma adesso proprio non riesco a far altro che limitarmi al mio solito “Ti amo”.
La tua battaglia renderà le mie sempre delle sciocchezze.
La vera forza è la tua contro il tuo nemico.

Buon compleanno.
Non è facile, per chi intende "fratello" come lo intendo io, non passarlo accanto a te.
Ma così è la nostra vita.
Fatta di "non è facile".
E di "Ce l'abbiamo fatta".

Non chiedo altro che continui ad averne uno più di me.
E che ogni giorno che passa, finchè sei dove sei adesso, continuino a proteggerti da quel brutto del mondo dal quale non avresti la forza di difenderti.

Buon compleanno Valentino.
Mi manchi un po', ogni tanto.



Il tuo Mario Bros.
che terrà in mano un fiore, fino al giorno in cui riavrà la tua mano a sostituirlo.

19 febbraio 2004

Metti una sera al lago

E tu che la aspetti nella hall perché lei, come ogni donna, deve rinfrescarsi prima di uscire.
E la vedi scendere truccata da donna che vuoi tu.
E le guardi le gambe anche se non puoi.
Fasciate da quelle calze bianche che risaltano sotto quegli stivali neri, che oggi, hai davanti come fosse ieri.
E le guardi le labbra anche se non puoi.
Rosse al punto da da sembrare finte, tanto sono belle.
E pensi alla sua pelle bianca anche se non puoi.
“Non puoi” ti dice la tua coscienza.
Eppure le guardi persino le mani, immaginandole addosso a te.
E lei ti guarda immaginando le tue addosso a lei.

Metti una sera al lago.
Di quelle che l’alcool ti fa salire sul tavolo del ristorante insieme ai tuoi amici a regalare alle donne presenti un ballo in loro onore.
E loro a e a tirar monete invece che mettere banconote nei pantaloni perché le donne, quando sono tue, devono dirti che non sei niente.
E tu a ridere perché vedi che lei ride, perché non è tua e può permettersi di apprezzare.

Metti una sera al lago.
Di quelle che al ritorno in macchina le mani sul cambio sono due.
E si stanno dicendo “Quanto manca all’albergo”?
Di quelle che per organizzazione galeotta tu dormi con lei.
Ed esci dalla doccia.
E ti metti buono buono nel letto accanto a dire a te stesso “Dammi solo un pezzo di quel corpo per dormirci, le labbra”.
E lei ti dice “Vieni qui”.
E tu vai li.
E la tua coscienza ti regala cinque minuti di pelle, di baci, di quel seno che tanto sognavi, per poi ricordarti chi è, chi non è, e soprattutto chi sei tu.

Metti una sera al lago.
Di quelle che tu hai pagato un prezzo troppo grande per ciò che hai dato a chi nemmeno c’era.
Perché non ti sei mai pentito di quella scelta.
Non ti sei mai pentito di aver tenuto fede ai tuoi principi.
Non ti sei mai pentito di non aver assaporato quel piacere.
Ti sei semplicemente pentito di aver lasciato andare ciò che forse, in un altro mondo, in un’altra vita, in un altro albergo, sarebbe stata la tua felicità.

Grazie per la canzone che mi hai regalato.
Pochi hanno saputo capire così tanto di me.

Grazie per quella sera al lago.
Da quella sera, ancora oggi, ogni volta che guardo le tue mani, tu non te ne accorgi, faccio l’amore con te.



16 febbraio 2004

La saga dei mari

Se il mio clone fosse ancora vivo, adesso lo chiamerei, qui, a darmi una mano.
Gli chiederei di stare qui lui, che era tanto bravo a fare il cattivo.
Gli ridarei la sua sedia, il suo letto, i suoi amici.
Gli ridarei persino suo fratello.
Così ci andrebbe come a quei tempi ad ubriacarsi e a dire che loro due sono i migliori del mondo.
A cantare, a parlare, a far innamorare.
E in due facevano faville a quei tempi.
Le donne ci cascavano, gli amici applaudivano.
“I fratelli Bozza!” urlavano tutti.
Yeah rispondevano i fratelli Bozza.

Se il mio clone fosse ancora vivo lo farei stare qui al posto mio, che forse è l’unico al quale affiderei me stesso, mentre io riposo un po’.
Perché adesso inizio a sentire di nuovo un po’ di stanchezza.
È normale credo.
Saltuariamente viene fuori.

Se il mio clone fosse ancora vivo, gli chiederei di occuparsi un po’ lui di tutto questo e anche un po’ di me.
Perchè lui era forte quando era vivo.
E in questo momento, l’unica cosa che desidero dalla mia vita, è qualcuno a cui affidare me stesso, mentre io riposo un po’.
Non mi deve risolvere i problemi.
Mi basta un bacio quando torno a casa e uno quando non torno.

Perché non ti riprendi?
Facevi abbastanza schifo come fratello, ma almeno c’eri.
Non te ne andare, per favore.
Non ce la farei questa volta.
E poi, dai, il nostro pubblico chiede ancora anche di te.
Non posso soddisfarlo da solo per sempre.

Se torni, prometto, ti regalo le mie donne.
Come una volta.
Quando la gente urlava “I fratelli Bozza!”
E le donne litigavano per noi.



a mario bros.
e a quando si metteva in testa di salvarmi lui quando mario senior non tratteneva.
a quando, ingenuamente, credeva anche lui di essere un supereroe.

Pantano

Non sono un tifoso del ciclismo, nonostante ne abbia sentito raccontare la bellezza da un atleta, e l’abbia sentita tutta.
Però ieri sera ho sentito anch’io che se n’era andato qualcuno.
E ore e ore di trasmissioni e servizi sul perché è morto solo, ed è colpa mia no è tua potevamo non abbiamo fatto.
E la cosa mi toccava.
E per una volta, la prima volta nella vita, ho mandato un sms ad una trasmissione.
“Il fatto che le persone circondate dal successo quando vincono, muoiano sole quando perdono, non è una prerogativa dello sport, Umberto Bindi è morto così. Mio padre pure, e non era nessuno. È il mondo che è brutto”

La differenza è che da lui hanno bussato dopo 5 ore, da mio padre dopo quindici giorni, ma per il resto, tutto il resto, è identico.
La differenza tra chi ha vinto qualcosa, anche se in passato, e chi no, sta solo nel tempo che rimani per terra.
Ma sei morto tanto quanto l’altro.
E sei solo, tanto quanto l’altro.
E queste cose sono solo esplosioni mediatiche che nascondono altri milioni di queste dimostrazioni di quanto stia diventando sempre più brutto.
E i bambini non sono più rispettati.
E il bene dal male non lo si distingue più.
E persino io che non sono tifoso ho capito che se n’era andato uno che meritava di restare.
Perché se è morto solo, in un mondo così, vuol dire che era una persona meravigliosa.

E i migliori, da sempre, muoiono soli.
Perché vuol dire che non hanno mai accettato.
Perché noi normali del mondo normale, quando pensiamo alla nostra morte, sappiamo chiederci solo quanta gente ci sarà al nostro funerale.
Dando, chissà poi perché, per scontato, che ci sarà qualcuno.

11 febbraio 2004

Mario

Mario da piccolo sognava di essere un supereroe.
E viaggiava in piedi sui treni senza reggersi per allenarsi a stare in equilibrio per quando l’avrebbero chiamato sulla nave spaziale.
Mario entrava nella vasca con il suo Barbapapà di gomma e giocava alle bolle.
Mario prendeva treni da solo quando era troppo piccolo per difendersi dai malintenzionati.

A Mario un giorno, un signore con una parruccona bianca chiese se voleva più bene a papà o a mamma.
E intanto Mario faceva il letto, studiava e prendeva medaglie.
Mario piaceva alle bambine e le bambine piacevano a Mario.
Mario da grande diventò bravo a fare il letto.
Viveva, Mario, in un mondo dove bisogna essere professionisti per potersi permettere di sbagliare.

Mario vide dolore negli anni.
Mario combattè battaglie in nome di nessuno, e nel nome di Mario Senior le vinse.
Quasi tutte.

Mario aveva tanti soldi ma li spendeva e allora non ne aveva più.
Quelli intorno a Mario si, però.
Mario quando era piccolo era pronto a salire sulla nave spaziale e aveva l’amico di equipaggio che il padre la stava costruendo di nascosto in giardino.
Ma Mario si trasferì prima che fosse finita e non riuscì mai a vederla finita.
E allora da quel giorno Mario guarda sempre in cielo in direzione sud-est perché vuole vedere quando passerà per fare ciao con la mano al suo amico.

Mario sognava una donna mentre guardava in cielo aspettando la nave spaziale.
Mario un giorno incontrò Mària.
Le fece il letto, le bolle nella vasca e tanti treni in equilibrio.
E lei gli regalò Mario Junior.

Mario quel giorno non guardava più il cielo per vedere la nave spaziale perché stava tutto il giorno al di qua del vetro a fare ciao con la mano a Mario Junior.
Quel giorno una signora grassa grassa con un camice tutto verde gli disse se voleva entrare al di qua del vetro per toccare Mario Junior.
Mario entrò, prese la mano di Mario Junior e gli disse “E adesso rendi più bello tutto il mondo”.
Mario Junior gli rispose stranito “Ehi, Papà, ma io sono solo un bambino!”
E Mario rispose “No, sono io che sono solo un uomo”.



a mario senior.
e a quando mi teneva per non farmi cadere.

6 febbraio 2004

LaPizia

Non sono un agente segreto.
Si, lo so, tutto lo farebbe pensare, invece non lo sono.
Sono un uomo normale.

Un po’ più bello sicuramente, ma fondamentalmente normale.
E non sono stato in un posto segreto, sono stato a Roma.
E non ho protetto segreti mondiali, ma le solite seghe mentali aziendali che loro vogliono mantenere segrete solo per il numero degli zeri che quelle seghe producono.
E non ho mangiato fagiani uzbechi in salsa cingalese su letto di foglie di palma norvegese con una spruzzatina di aceto balsamico giurassico distillato da giada fossile, ma una pizza in un vicoletto, tutto solo con un libro sul tavolo.
E non ho incontrato i cinque capi di stato mondiali, ma una persona semplice con due occhi stupendi.
E non l’ho sposata su un jet mentre lo pilotavo io, ma ci ho passeggiato evitando le macchine.
E non indossavo la mia tuta spaziale, ma una maglia di topolino per la quale mi ha preso per il culo dopo dieci secondi esatti che mi ha parlato.
E non ho ripreso la mercedes che mi era venuta a prendere all’aeroporto all’andata, per tornare all’aeroporto, ma ci sono andato con lei in metrò sperando di perdermici.
E non ho fatto arrivare cento camerieri per portarle un vassoio con la tisana ribuà che c’era anche la “i” e novantanove per portarle un fiore a testa, ma mi sono seduto con lei ad un tavolino dove lei mi ha indicato una bella ragazza per distrarmi e poter flirtare indisturbata col cameriere dicendogli “biscottini” e aggiungendo “amore” con il suono della voce.
E non le ho fatto piedino due volte, ma le ho per sbaglio dato due volte un colpo per poi, chiedendo scusa, sentirmi dire “Uè! Le clark!” realizzando che forse non le interessava che avessero i razzi antigravitazionali sotto.

E non ho spostato il sole con i miei superpoteri di supermago per creare l’effetto cartolina, è stato tutto assolutamente a mia insaputa e per di più con lei di spalle che nemmeno la guardava quella cartolina perché c’erano una rivista stracciata e un ombrello rotto che erano più interessanti di me e di quel sole alle sue spalle che credimi ti hanno resa davvero bella come pensavo perché quando ti immaginavo ti immaginavo esattamente così, semplice, sorridente, con una cartolina sempre attaccata dietro come fondale teatrale ovunque ti trovi con tutti i tetti di tutte le chiese e di tutti i monumenti di Roma e il sole che gli scende dietro a qualsiasi ora con una dolcezza che anche quello che per un pelo non hai fatto stampare col suo motorino contro un albero non è riuscito a far altro che alzare la mano per salutare e dire “Grazie” che non ho capito cosa aveva da ridere uno che stava per ammazzarsi per colpa tua ma evidentemente anche lui vedeva la cartolina alle tue spalle e il tuo attacco di irrefrenabile voglia di shopping e la luna gigante che l’hai vista prima di me solo perché a me era toccato il sole e me l’hai indicata e, l’ho visto bene, anche avvicinata tirandola con una corda, e in quel vagone del metrò a parlare di sliding doors e la proposta di partire con me solo con quello che avevi in borsa perché il film insegna, e il tuo rifiuto sorridente di chi non ha niente di brutto da cui fuggire e il tuo diventare rossa mentre le porte si chiudevano su di me che facevo lo scemo lasciandoti con i tuoi nuovi compagni di viaggio al corrente del nostro bimbo che ti porti dentro, su Roma con quel tramonto, sulla giostra dove non ti sei fatta trascinare, sul mio maglione di topolino che è come il cervo di Briggeggion’z, sui biscottini che l’ultimo era per me, sulla palestra di cui non ho bisogno, sul tuo invito a stare a Roma una sera in più con i tuoi amici che nemmeno impegnandomi ci ho trovato una virgola di interesse personale e per questo mi ha reso davvero felice, sulle mie clark, sulla tua maglia pastello che è un termine troppo da docenti ma rende l’idea, sul tuo essere entrata nella hall senza avermi mai visto diretta verso di me come se mi avessi sempre visto, sul mio “vieni qui un attimo che finisco e arrivo” come se ti avessi sempre avuta accanto mentre potevi essere tutt’altra persona che tanto non ti avevo mai vista, sulla prima ora nella quale mi hai fatto dire tutto il mio repertorio di stronzate come si fa con gli spostati mentali che tanto quando hanno finito si calmano, su quel tuo “Dai, davvero, cosa fai di mestiere” dopo che alla tua domanda io ho risposto “Il fotomodello, che domande”, su quella cena che non c’è stata, su quel caffè che mi sono perso, su quella brioches con la quale non ho potuto iniziare la giornata, su quel biglietto del metrò che non ci voleva una scienza per timbrarlo ma ho avuto bisogno di te per riuscirci perché non aveva la freccia che indicava il senso mentre il tuo si, su quell’edicola nella quale ho chiesto un biglietto del metrò al tizio incazzato seduto sotto un cartello grande come una casa “non si vendono biglietti del metrò”, su quelle corse che ho dovuto fare perché per distrazione non avevo visto che il volo era un’ora prima di quello che credevo e in ogni caso troppe ore prima di quello che a quel punto desideravo, sui miei discorsi che ho proseguito da solo come se avessi continuato ad averti davanti sul treno, sull’aereo, sulle scuse che ti facevo mentre la polizia mi perquisiva la valigia perché quel telecomando che avevo in valigia era esattamente come un detonatore e infatti funziona con lo stesso principio, sui biscottini che ho chiesto alla hostess sperando li avesse uguali per tenerne l’ultimo da parte, sulla mia voglia di perdere quell’aereo e rimanere a Roma solo con quello che avevo in borsa, su quella città vista dall’oblò di notte, piena di luci come sempre, ma con una in più, da oggi.