Sono giorni che penso alle parole da usare, senza arrivarne mai a capo.
Sarà la primavera, sarà quest’aria tenera che mi aleggia intorno da un po’ di giorni a questa parte, sarà quella sensazione così nuova per me, sempre più presente, che mi fa propendere sempre più spesso per la conservazione delle cose importanti in cassetti il cui accesso è condizionato da dettagli insignificanti quali la vicinanza, la voce, il tocco delle mani.
C’è che le parole che vorrei non mi escono.
Non mi escono qui.
Ci sono vicende per raccontare le quali è sufficiente la memoria, unita a due cucchiaini di capacità di romanzare e mezza bustina di sentimento, agitare, versare, bere, ruttare.
Più facile di quanto appaia a chi beve il prodotto finito e s’immagina chissà quale lavoro dietro.
Ci sono invece vicende che richiedono più applicazione, più impegno, in qualche modo più cautela e spesso a sentire la necessità di questo maggiore impegno sono quelle vicende che non sono vicende ma persone.
La differenza tra vicende facili da tradurre e persone difficili da raccontare, mi sono reso conto, è il tempo, il tempo di reazione.
Il tempo di reazione è quello che differenzia le emozioni provate da quelle generate.
Quando qualcosa mi emoziona, quello che passa nella prima frazione di secondo attraverso le mie vene è l’emozione provata e tutto quello che esce in quel momento è il racconto di quell’emozione, reale, immediato, pulsante.
Quando quel qualcosa lo racconto, il tempo delle vene è trascorso, le parole hanno avuto il tempo di decantare e questo le rende a volte migliori, ma non reali.
Questa consapevolezza mi porta a vedere sempre come un momento sprecato il mio non poter comunicare a caldo le cose emozionanti quando mi capitano e a considerare spesso il racconto successivo come un qualcosa di tradotto, di ricolorato, di falsato.
È un peccato, perché le parole migliori sono quelle che mi escono nel primo secondo, quando sono le vene a parlare e non la memoria di due giorni, tre, una settimana dopo.
Dentro quei cassettini sono custodite tutta una serie di cose che non sono state raccontate nel primo secondo e che per questo rimarranno lì per sempre e anche quando qualcuna di loro verrà presa e esposta, sarà sempre un’esposizione che ne mostrerà solo ciò che si può vedere ma non ciò che si è sentito nel momento in cui ho deciso di metterla nel cassetto.
Per questo motivo ultimamente molte delle cose che vorrei dire non le dico.
Non è riservatezza, non è timore né incapacità di raccontarla.
Semplicemente mi rendo conto che certe cose, quando provo a tirarle fuori dal cassetto per raccontarle, non sono belle come quando ci sono entrate, perché il tempo trascorso ha tolto alle parole l’immediatezza del sangue che cambia velocità.
E non si scappa, tolto quello tolto il novanta per cento della loro bellezza.
E per questo me le tengo.
Mi dico che sarebbero solo traduzioni per un pubblico che comunque non potrà sentire quello che vorrei e per una strana forma di protezione da questa specie di banalizzazione, le rimetto al loro posto e le lascio lì, per me.
E per chi c’era nel primo secondo.
Sono giorni che vorrei dire grazie a una persona.
Ma questa persona, per colpa del mio esser stato colto di sorpresa, non si è trovata dove meritava di trovarsi, lì accanto a me nel primo secondo dell’emozione.
Lo stupore mi ha lasciato incapace di fare quello che avrei dovuto fare e cioè scoprire subito cosa conteneva quella scatola.
Non capivo, non ero preparato e per questo ho atteso.
Se dicessi oggi, a distanza di una settimana, quello che è passato nelle mie vene nel momento in cui ho aperto la scatola, non uscirebbe nemmeno una goccia di quell’emozione provata in quel primo secondo.
Uscirebbe una cronaca fatta per il grande pubblico di un istante che è stato un istante e che per questo non può che essere irripetibile e di conseguenza irriferibile.
Per dirgli grazie dovrei parlare con le parole di quel primo secondo ma per parlare con quelle parole dovrei poter tornare a quel primo secondo.
Quando ho aperto la scatola ho parlato ininterrottamente per un’ora.
Se l’è sorbito un’altra persona, il mio grazie detto ad alta voce.
Si trovava lì ed è toccato a lui ascoltarsi quello che avrebbe voluto essere questo post e che invece non sarà.
Allora io stasera ho deciso di smetterla di cercare le parole per raccontare chi è la persona che mi ha dato quella scatola e cosa mi ha fatto provare con quel gesto e ho deciso di non star più lì a cercare le parole giuste perché se lo facessi nonostante non le ho, sarebbe solo per voi e non per me né per lui.
Per me perché io quello che ho provato ce l’ho dentro.
Per lui perché le parole per lui possono essere quelle e solo quelle del primo istante.
Smetto quindi di cercare un modo per dirgli grazie qui, consapevole che un grazie non è tale solo se detto qui, ma è un grazie se è sentito dentro come tale, senza bisogno di raccontarlo.
E gli prometto, mi prometto, che d’ora in avanti tra gli obiettivi della mia vita ci sarà sempre la speranza di riuscire a regalare a lui un primo istante come quello che ha regalato lui a me.
E se non dovessi riuscirci sarò comunque contento per il piacere dell’essermi dato preso questo impegno.
Ché a volte per star bene non è necessario farle, le cose, ma basta anche solo averle dentro come valore, come speranza, come sogno.
E io come sogno, sogno di fargli provare anche una sola volta quello che lui ha fatto provare a me.
Meno di quello, non sarebbe un grazie.
A voi trasferisco solo la pura cronaca, tanto il resto non uscirebbe come è dentro, e la trasferisco perché lo devo a tutti quelli che hanno anche solo per un istante partecipato a questa mia cosa, per me così importante.
La settimana scorsa un amico ha aperto il baule della macchina e ne ha tirato fuori una scatola per me.
Non c’era ricorrenza, non c’era festa.
Ho pensato fosse qualcosa per la casa e per questo mi sono lasciato andare al piacere della “scatola”, contento del gesto indipendentemente da cosa contenesse.
Per questo ho commesso l’imperdonabile errore di aprirla solo quando a mia volta salito in macchina.
Non potevo sapere, non potevo immaginare, non credevo possibile che potesse contenere tutti i libri di mio padre.
Tutti.
Tranne uno, vabbè, ma quell’uno ce l’avevo, diciamo tutti quelli che mi mancavano.
Usciti tutti insieme dallo stesso posto nel quale non si trovavano in vendita, dettaglio tutt’altro che insignificante, poiché significa che per farli uscire ha dovuto fare una cosa davvero grande.
E l’ha fatta per me.
Grazie Mike.
Poche volte mi sono sentito tanto in debito.
Poche volte mi sono sentito tanto felice.
La traduzione in parole, purtroppo, è stata roba dei minuti successivi che non sono in grado di replicare.
La ricerca è completa.
Il mio grazie è altrettanto grande per tutti quelli che mi hanno aiutato, che mi hanno fatto avere copie dei libri, che me li hanno anche solo fotocopiati, che li hanno trovati ma che ancora li conservano per quando ci vedremo come ci siamo promessi e come voglio ancora fare, che ancora ne troveranno e che sarò ancora felice di ricevere, perché più ce ne sono in giro e più ne voglio io.
Ognuna di quelle copie ha in sé una persona, una storia, un gesto che è stato, che sarà e che rimarrà sempre una delle cose più belle che la gente abbia fatto per me.
Vorrei poter raccontare il primo istante di ogni libro che ho ricevuto, ma non ne sono capace.
Quindi mi limito a chiedervi di immaginare, per quanto possibile, cosa possa significare esser riuscito a veder concludersi questa ricerca.
No, lo so, non si può.
È roba di istanti irraccontabili.
Sentirsi in debito è una delle sensazioni più belle che esistano.
Perché significa essere costantemente consapevoli di aver ricevuto.
Di aver ricevuto proprio tanto.
Per molti questo è poco più di qualche pixel e una scatola di plastica.
Per me è un posto dove le cose che si desiderano possono accadere davvero.
Dove se chiedo di guardare un serpente dal cielo poi lo vedo.
Dove se voglio essere più vicino a mio padre basta che lo chieda e la magia avviene.
Si può realizzare tutto.
E non è un romanzo, accade davvero.
Siete dieci e siete davvero tutti speciali.
Grazie, uno per uno.
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