12 gennaio 2009

Grazie prego scusi tornerò

Insieme alle altre bottiglie di vino, una del 2002 sta lì in attesa di una apertura che temo non arriverà mai.

Quando mi trasferii nella mia prima casa avevo tipo vent’anni, nella mia compagnia una specie di eroe e una casa che per logica ottimizzazione divenne il punto di ritrovo di tutti gli altri che al tempo non avevano da offrire un proprio spazio al gruppo dove fare tutto ciò che fino al mio trasferimento era esclusiva dei pochi week end di ‘casa libera’ che a turno i genitori di ognuno lasciavano.
Divenne norma l’arrivo di ogni cosa fosse possibile bere ogni volta che qualcuno oltrepassava la soglia di casa, fino a quando il tempo non scremò e cominciò a far arrivare anche cose gradevoli.
La sempre più frequente scelta del momento della cena come ritrovo, fece sì che il vino venisse a poco a poco eletto come unico omaggio, facendomi così arrivare in casa bottiglie di vino sempre più particolari, quella fatta da mio nonno, quella l’ho rubata dalla cantina, questa l’ho pagata un sacco, questa oh questa solo col brasato.
In cambio io imposi, non senza difficoltà, una regola: ogni bottiglia di vino andava necessariamente aperta e bevuta solo in presenza di chi l’aveva portata.
Non senza difficoltà nel senso che non sempre si finiva nella serata ciò che nella serata era stato portato e questo portava spesso ad avere serate nelle quali qualcuno voleva aprire bottiglie di vino portate precedentemente, magari da persone che nella serata in questione non c’erano.
Un giorno ricordo persino una litigata con gli amici i quali, a vino esaurito, mi videro far scudo tra loro e una bottiglia, l’unica rimasta, che stava lì in attesa di una serata nella quale ci fosse anche l’amico che me la regalò.

Si pensa spesso, sbagliando, che l’educazione sia una forzatura di forma.
Questo malinteso porta spesso le persone a scambiare o, peggio, a mettere in parallelo l’educazione con la mancanza di confidenza.
Conseguente, si pensa che con il tempo e la crescita della confidenza, sia naturale e quasi dovuta una riduzione delle forme di educazione presenti nella relazione, ritenute una formalità forzata e per questo la loro eliminazione un traguardo raggiungibile grazie al ‘favore’ di chi si relaziona.
Concedere a qualcuno la possibilità di non vivere la relazione di amicizia anche sulla base di regole di educazione, appare sempre più come uno degli aspetti del raggiungimento di quella amicizia e chi questa possibilità la concede o quantomeno la offre (“Non serve che mi ringrazi”) sovente si stupisce o comunque non è in grado di capire il motivo per il quale questa offerta cade quasi sempre nel vuoto, per quanto gradita.
Quando questi due concetti di educazione si incontrano, un punto comune di comprensione è impossibile se non là dove la comprensione viene sostituita dalla tolleranza, altro aspetto fondamentale del raggiungimento dell’amicizia e della confidenza.

L’educazione (quella base intendo, quella fatta di rispetto per il gesto tradotto in rispetto per chi il gesto lo compie, di gratitudine per il non dovuto, di riconoscimento di spazi altrui pari al proprio, di rinnovamento quotidiano dell’analisi del ricevuto e del dato, di alternanza tra diritti e doveri, ma soprattutto di rispetto per la eguale condizione di partenza tra noi stessi e gli altri) è al contrario tutt’altro che una questione di forma.
Lo è solo per coloro i quali entrano nel mondo dell’educazione in una fase ormai consolidata della propria crescita, quando anche imparare una nuova lingua diventa pratica faticosissima, quando cercare di appassionarsi alla lettura diventa opera titanica, quando tutto ciò che non ha fatto parte della fase sviluppo e costruzione della persona e della propria storia, faticherà il triplo per entrare a farne parte, sovente senza possibilità di successo.

Al contrario, per una persona che l’educazione l’ha vista imposta fin dal suo primo giorno, ad essere faticosa in fasi successive, anche decenni dopo, sarà la sua eliminazione o anche solo una relazione con le persone che non si basi principalmente e comunque su quelle due regole fondamentali.
Quando si cresce appoggiati su uno schema educativo che tiene conto principalmente delle persone intorno (questa è educazione base) in maniera positiva e non riduttiva (delle proprie libertà), si potrà vivere la propria autonomia solo se legata a quelle regole.
E, qui sta il malinteso di chi questa cosa non la capisce, la cosa avverrà con naturalezza fisiologica, non con forzatura formale.
Chi è educato e lo è per formazione in fase di sviluppo, lo è istintivamente, non analizza il contesto di volta in volta per valutare l’opportunità, lo è come condizione di partenza indipendentemente dal contesto del caso.
Per capire come avvenga questo processo, si può pensare al Trattamento Ludovico di Arancia Meccanica; Il processo è lo stesso ed è altrettanto fisico.
Quando l’educazione all’altro è resa istintiva dal suo averne iniziato l’insegnamento fin da piccoli, farne forma di relazione da adulti è semplice quanto lo è il camminare, il respirare, il parlare.
Al contrario, faticosa diventa qualsiasi altra forma di relazione.
Ringraziare qualcuno per qualcosa per la quale si è grati non è faticoso, è naturale.
È la materializzazione, la somatizzazione di una condizione interna, avviene senza intervento della volontà.
La volontà al contrario serve per intervenire in questo processo naturale, per bloccarlo per qualche motivo, foss’anche solo la richiesta di chi si relaziona con l’educato.
Per bloccare questo processo fisico serve la volontà e per attivare la volontà serve sempre la stessa unica singola cosa: un perché.
Alzarsi per salutare qualcuno non è faticoso perché è una forma di rispetto e il corpo si alza da solo perché lo fa istintivamente.
Faticoso è restare seduti perché la volontà in quel momento interviene a bloccare un processo istintivo ormai attivato e per farlo deve avere un perché.
Il problema è che un perché non c’è e per questo per restare seduti serve uno sforzo senza una motivazione.
E non c’è un perché, perché ci fosse, significherebbe che della persona che si sta salutando non si ha rispetto, ma in assenza di quello non scatta nemmeno l’istinto ad alzarsi e quindi ad essere assente è la condizione iniziale alla nascita dell’istinto ad alzarsi.
Il Trattamento Ludovico porta le persone che hanno ricevuto la giusta (per me) forma di educazione a sentirsi affaticate se NON mettono in pratica certe forme di relazione, non se le mettono in atto.

A casa mia si iniziava a mangiare solo quando tutti erano seduti a tavola.
Pare regola senza motivazioni sostanziali, mentre al contrario ha dentro un codice di rispetto fondamentale.
Prima di tutto comunica che non c’è condizione di partenza diversa tra i commensali; poi, di più, è una forma di rispetto per chi la cena l’ha preparata e in genere anche servita.
Iniziare a mangiare quando il cibo è nel piatto, porta la persona che l’ha ricevuto per primo a mangiare da solo per un breve lasso di tempo e a ricevere quindi un privilegio che non ha un perché, ma soprattutto porta chi quel cibo lo sta servendo a essere la persona che mangerà per ultima (a meno di non interrompere la distribuzione), per logico scorrere del tempo senza la compagnia del primo che l’ha ricevuto, per lo stesso scorrere del tempo anche a una temperatura diversa dal primo, in una condizione finale di assenza di ogni privilegio ma rivestendo nello stesso momento il ruolo di chi per gratitudine dovrebbe essere la persona che ne riceve di più.
C’è un perché possibile a questa inversione di privilegi?
No.
Iniziare a mangiare solo quando tutti hanno il proprio piatto pieno e alzarsi da tavola solo quando tutti hanno il proprio piatto vuoto, al contrario, risolve questa invertita (e di conseguenza ingiusta) distribuzione dei privilegi.
Si pensa che una persona educata faccia questi complessi e quindi faticosi ragionamenti ogni volta che si siede a tavola e invece non è così, il Trattamento Ludovico si occupa di far sì che la sequenza dei ragionamenti avvenga in una frazione di secondo e che la sua materializzazione avvenga in maniera altrettanto veloce.
Chi materializza questo non se ne accorge nemmeno, così come nessuno di noi quando cammina pensa che se alterna il piede destro al sinistro resta in equilibrio e lo pensa a ritmo di due volte al secondo.
Al contrario, è l’iniziare prima che chi ha servito la cena sia seduto(a) a tavola che è pratica faticosa, perché l’educato che verrà in qualche modo costretto a fare questo sentirà dentro una forzatura alla sua natura e per farlo dovrà cercare necessariamente un perché, un perché che non troverà mai e che dovrà sostituire con una imposizione immotivata che sarà oltretutto accompagnata da quella sgradevole sensazione (ecco Ludovico) di aver mancato di rispetto a chi, offrendoci il suo lavoro, il suo cibo, il suo tempo, il rispetto lo meritava tutto e anche di più.

Essere educati è tutt’altro che una forma di relazione verso l’esterno sulla quale si può mediare o alla quale si vogliono (o si possono) trovare forme ridotte.
È prima di tutto l’unica possibile forma di mantenimento della condizione di benessere interiore.
Solo in secondo momento, per trasformazione indiretta, si traduce anche in una forma di relazione dei cui risultati gode chi si relaziona con chi è educato.

Se dite a un amico educato che può anche abbandonare i suoi vincoli perché è tra amici, non gli state dicendo che può sentirsi a suo agio.
Prima di tutto l’errore che commetterete è quello di chiamare vincoli ciò che per lui vincoli non sono e qui farete il primo errore di relazione, cercando di sostituire al suo il vostro codice di vita.
Ma soprattutto gli chiederete di spendere il suo tempo a cercare dei perché che non troverà mai, che saranno sempre dei perché vostri ma non suoi e fare questo sarà faticoso, lungo, soprattutto immotivato perché per lui sarete amici, fratelli, familiari, compagne, e se non dico grazie a ‘sta gente qui, a chi lo dico, al portinaio?

Pensavo a ‘ste cose qui l’altro giorno, quando ho spostato la bottiglia di vino che non seppe essere più veloce della guerra tra me e chi me la regalò.
Ridendo mi sono reso conto che senza volerlo, senza fatica, quella bottiglia s’è fatta il trasloco con me, è entrata nella nuova cucina, una cucina nella quale la persona che me la regalò è destinata a non entrare mai perché io da persona educata ho fatto male, molto male a tanta gente tra cui lui ma quel vincolo di bere solo con chi mi regala il vino è istintivo, viene così, senza intervento di volontà e senza intervento di volontà non c’è fatica e senza fatica quella bottiglia me la sono scarrozzata da una casa all’altra pur sapendo che è solo questione di forma e senza fatica e ridendo mi sono reso conto che mi seguirà anche nella prossima casa, nella quale chissà, forse un giorno Miki verrà a sentirmi raccontare come un giorno si arrivi così, a capire che a volte si sbaglia più verso noi stessi che verso gli altri e che il male fatto agli altri è solo una secondaria faccenducola marginale che va al di là della volontà e che per questo a volte per fortuna con un bicchiere di vino tra adulti forse è possibile anche rispedire in quel passato nel quale di errori se n’è fatti tutti tanti e non sempre per colpa, anzi, si era solo molto leggeri, giovani, immortali, e invece.

Il vino è sempre qua, se mi leggi, dal 2002 bello tappato.
Non ti ho difeso da lei, ma ho difeso il tuo vino dai miei stessi amici.
Lei è stata spedita in quell’iperspazio che meritava.
Quel vino e quegli amici stanno invecchiando accanto a me e qui un perché c’è.
Se vuoi unirti, ti concedo anche quel pugno che non mi hai dato e che pure meritavo.
C’è anche la possibilità che ti arrivi un grazie, in risposta.


Nessun commento:

Posta un commento