Il post più lungo della storia.
(ovvero: come metterci tre settimane per raccontare una storia durata una settimana.
Il post, appunto, è più lungo della storia che racconta)
Parte 1.
Prologo.
È la percezione esatta dei propri confini, prima, e la sua reale e sincera accettazione poi, ho sempre pensato, l’unica base sulla quale può poggiare quella condizione di serenità o quantomeno equilibrio, alla quale anelano tutti, chi più chi meno, quelli incapaci di non porsi domande; percezione e accettazione, come condizioni necessarie per poter poi partire in quel lungo viaggio che si chiama vita, durante il quale, chi si pone domande con la frequenza del respiro, si vedrà opporre un tale numero di ostacoli certi, da aver necessariamente bisogno di un mezzo di trasporto ben revisionato e perfetto (o comunque al meglio delle possibilità) come meccanica, prima che come carrozzeria, per sperare di non rimanere impantanato nella prima pozza di fango che incontrerà, ché la carrozzeria dopo la lavi, ma se le ruote non girano, tu il dopo non ce l’hai.
Perché chi si pone domande continue, è uno che vive costantemente in una pozza di fango dopo l’altra e la domanda altro non è, di volta in volta, che una diversa pronuncia della sempre identica “Come ne esco?”, apparecchiata ogni volta in maniera diversa, ma nella sostanza sempre identica.
Non è un lavoro facile, la prima fase, quella della percezione esatta, soprattutto.
Perché il percorso che porta a quella percezione è lungo e tutt’altro che semplice, ma ha di buono che proprio il suo essere lungo fa si che la convivenza alla quale man mano durante il percorso ci si abitua inconsciamente, con i neo scoperti (curiosa analogia) confini, ce li faccia apparire familiari e quindi di più facile accettazione quando giunti al momento dell’evidenza.
No, non sta parlando uno che quel percorso l’ha compiuto.
Io forse non sono nemmeno a metà.
Per il momento sono ancora nella fase disegno, dei confini; l’accettazione, allo stato attuale, non è ancora parte dei programmi dell’immediato futuro, né tantomeno è all’orizzonte.
Li sto scoprendo piano, con meraviglia in alcuni casi, paura in altri, ma sostanzialmente con stupore.
Lo stupore dello scoprirsi capace di dirli ad alta voce, più che del vederli, ché in fondo tutti li vediamo bene da sempre, ciascuno i suoi, non ci si prende mai in giro quando si è soli in ascensore (quelli con lo specchio).
Come una linea continua sto lentamente disegnando la mia sagoma, da una decina d’anni a questa parte, come si segue con un dito un profilo stando bene attenti a non staccare il dito per non perdere il percorso fatto fino a quel punto.
Come quando segui il profilo del corpo di una donna addormentata sdraiata su un fianco accanto a te, con lo stesso piacere leggermente sporcato dalla tensione della cautela che si è costretti a mettere nel tocco per non svegliarla, pena l’interruzione di quel percorso delle dita.
Perché il profilo è una linea unica, continua, percorribile solo se non si stacca mai il dito dal tratto precedente.
Se si interrompe, se si sveglia, si deve ripartire da capo.
Se non si riparte da capo, non si riuscirà a seguire la direzione giusta, perché ogni punto in cui cambia direzione è influenzato dal punto precedente.
Il profilo è di fatto una lunga unica curva di Bezier, lungo la quale ogni direzione è influenzata dalle precedenti, tutte.
Quando si vive per qualche tempo in posti dove il dialetto è la lingua più diffusa, si ha tempo di scoprire che le parole hanno davvero un senso, un’importanza, una storia.
Tutte cose che le parole non hanno perso, se non da noi, dove qualcuno un giorno ha detto che bisognava parlare italiano, andandosene però poi al bar nel momento in cui avrebbe dovuto spiegare qual'è, l'italiano.
In calabrese, “Tornare a casa” si dice (pronuncia) Ricogghìrsi (accento sulla penultima i), tradotto: Raccogliersi.
Non è Tornare in senso generico.
Tornare in senso generico si dice proprio Turnare, la solita U a far la lieve calabrese differenza, come la S in spagnolo per chi non ne sa.
Se ti devono dire, per esempio, “Brun(ell)o, sei tornato!” (i parenti che ti vedono ogni dieci anni ti chiamano sempre con il nome dell'ultima volta, anche se quell'ultima volta tu avevi dieci anni e ora ne hai trentaquattro e io, a dieci anni, mi chiamavo Brunello, non in famiglia e basta, proprio Brunello) ti dicono “Brunicè, turnàsti!”
No, per dire “Tornare a casa” hanno una parola apposta e questa parola è Raccogliersi.
Se ti devono chiedere “A che ora sei tornato (a casa), stanotte?” ti dicono “A chi ura ti ricogghisti, aieri sira?”
Pensando a questa cosa mi son detto che dev’essere una radice che riporta a quella caratteristica, ormai scomparsa, o quasi, al nord, tipica delle famiglie del sud che le vede sempre numerose (due elementi non si raccolgono, si incontrano, si raccolgono quando sono un certo numero) e la loro abitudine a consumare i pasti tutti insieme, figli, cugini, parenti di ogni grado e lontananza raccolti in ogni angolo dei paesi, tutti riuniti ogni volta possibile intorno a un tavolo, nella stessa stanza, raccolti appunto.
Quando torni a casa, in calabria, fosse anche solo per mangiare, ti raccogli con gli altri.
Ecco perché c’è una parola apposta.
Una bella, parola.
Raccogliersi con gli altri elementi della famiglia.
“Perché non distinguere una cosa tanto importante, con una parola apposta che fotografa l’evento preciso” si saranno detti qualche secolo fa, quando intorno a un tavolo i creatori delle parole si son messi lì a stabilire come si sarebbero dovute chiamare le cose.
Si narra (non è vero, come sempre me le invento per romanzare un po’ quella che sarebbe altrimenti la mia solita fuffa) che la prima riunione iniziò quando durante un litigio, due contadini contendenti rimasero impantanati nella discussione perché quando uno dei due esclamò “Chiamiamo le cose con il loro nome!” l’altro rispose “Va bene, ma qual è?” e così decisero una tregua e si misero intorno a un tavolo, alleati nella ricerca dei nomi di ciò che si accusavano di essersi rubati a vicenda, condizione unica e necessaria per potersi poi fare la guerra.
Se non sai per cosa fai la guerra, come puoi sperare non dico di vincerla ma almeno di finirla?
Per quello, quando non si sa per cosa si sta lottando, si finisce con il lottare per l’unico nome il cui significato associato ci è noto e cioè il nostro.
Secoli di guerre per il proprio nome, quando bastava dare quello giusto all’oggetto del contendere per scoprire magari che non meritava tutta quella violenza.
Raccogliersi è una bella parola.
I due contadini, infatti, soddisfati del risultato ottenuto, mica se la fecero poi, quella guerra.
Anzi, la figlia di Domenico, Mimmo, Caminiti, uno dei due contadini costituenti la costituente che associò le parole ai significati, venne offerta in sposa a Sarino, il figlio di Giuseppe, Pepè, Procopio, l’altro contadino.
Furono anni di raccolti, da quel giorno in poi.
Poi c’è una variazione della leggenda (non è vera nemmeno questa, è sempre per la cosa della fuffa di cui sopra), secondo la quale la parola Raccogliersi, deriverebbe in realtà sempre da quei due contadini, ma non da un generico assegnare significati per poi potersi fare la guerra in santa pace, bensì proprio da quel loro duello trasformatosi in amicizia.
Raccogliersi, infatti, secondo questa variazione della leggenda, sarebbe la contrazione di Ri-Accogliersi.
Fare pace, insomma.
Dal giorno del matrimonio in poi, infatti, Mimmo, Pepè, i figli sposati, i nipoti, i cognati e tuttu ‘u’pedi d’u’cucuzzaru, si r(i)accolsero ogni giorno due volte al giorno nella stessa casa, dentro terre i cui confini a quel punto si erano uniti per formarne uno unico, percorribile con un dito come il profilo del corpo di una donna addormentata accanto a te, a consumare i frutti di raccolti, raccolti in terre delimitate da nuovi ampi confini dai frutti di frutti raccolti, o “sposati”, Mimmo e Pepè si trovarono d’accordo anche sul fatto che si potesse anche usare una parola apposta, che l’occasione era speciale, e inventarono “sposati”.
Una parola che rappresentava confini più ampi che raccoglievano frutti più raccolti.
Pareva quasi un controsenso e per questo fu accolta con scetticismo e diffidenza, quando presentarono al paese tutto la nuova parola.
Ma era il paese che era fatto ancora per lo più da contadini non scolarizzati, che si chiedevano più che altro a che ora si mangiava, più che quanti sarebbero stati a tavola, che per esperienza sapevano che la quantità di cibo non era mai stata un problema, se era una pagnotta, si divideva, due uova non le mangiavano in due, si faceva pasta per tutti, era l’orario che a loro interessava, ché la giornata era stata pesante e le spalle reclamavano pane e pomodoro.
Sarino ebbe giusto un paio di osservazioni da fare a suo padre e al suocero, su quel loro non essersi particolarmente impegnati nel trovare una parola anche per la sua nuova condizione, che secondo lui non era bello che ogni volta che diceva che si era “Maritato” gli altri ridevano, ma vabbè, non si poteva avere tutto e lei era bella e le uova bastavano perché si erano raddoppiate le galline in famiglia e andava bene anche così, senza stare a fare i puntigliosi, tanto lui la sua soddisfazione ce l’aveva quando la notte lei si addormentava su un fianco, le spalle a lui, che a quel punto, ogni notte, poteva fare quel gioco di seguirne il profilo del corpo con un dito, per sentirne il confine e immaginare che avendo lui il dito appoggiato sul suo corpo, il confine proseguiva salendo dal suo dito al suo braccio alla sua spalla al suo petto al suo cuore, ogni notte, quando lei dormiva, lui la sfiorava per diventare con lei un’unica linea percorribile con quel dito che chiedeva soltanto di potersi non fermare mai seguendo quella linea che passava da lei a lui da lu a lei e poi di nuovo a lui, solo, soltanto non staccando mai il dito dal suo profilo, sarebbero stati uno unico.
[continua]
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