11 settembre 2006

a mare

Pessima l’idea di venire a lavorare al mare.
Geniale l’idea di venire al mare.
Ieri sera, essendo sabato sera, mi sono dato alla pazza gioia e al divertimento sfrenato, come vacanza comanda.
In pratica mi sono guardato il concerto di Gigi d’Alessio insieme a mia mamma e mia nonna, che nel frattempo mi (ci?) insegnava, ormai è diventato l’obiettivo dell’inverno, a fare la pasta a mano come si deve, altro che con la macchina.
Tornando a casa mi sono chiesto se tutta questa adrenalina non rischi di farmi male.
No.
È stata la risposta.

Ma più di tutte, tra le sere di questa settimana tutte passate a cena da mia nonna, mi rimarrà impressa quella di due sere fa, quando ci siamo messi a guardare il programma storico della rai, del quale non cito il titolo per evitare i motori di ricerca, quello fatto molto bene.
Mi rimarrà impressa come mi rimangono impresse tutte le sere nelle quali racconta.
Che io mi auguravo il racconto della battaglia navale e mi sarei accontentato.
Non immaginavo cosa avrei, invece, ottenuto quest’anno.
Mia nonna è, come tutti gli anziani, un archivio enorme celato sotto un’apparente difficoltà di memoria, pronto a saltar fuori ad un minimo accenno di colore, di odore, di immagine.
Un patrimonio dal valore incalcolabile, completamente, o quasi, ignorato da tutti e per questo destinato a perdersi.
Ci sono ore e ore di documentari sugli incontri tra Mussolini e Hitler, ma nemmeno un racconto di come in quel momento la vita di un’italiana qualsiasi cambiava o stava per cambiare.
Ore di documentari sulla distribuzione del cibo, ma nemmeno una scena in una cucina mentre la famiglia si divideva quel pezzo di pane.
Ecco, gli anziani se ne andranno portandosi via quella parte là di storia, quella “di contorno”, quella di chi non ha deciso ma solo subito i grandi momenti della storia.
Si guardava la puntata dell’altra sera, come sempre dedicata al periodo delle due guerre mondiali.
Bastava un’inquadratura a un carretto e lei partiva con la descrizione del carretto, di come e quando veniva usato, del perché era costruito in un certo modo e di una serie di successivi aneddoti sul carretto che avevano loro in famiglia.
In quel momento il documentario non stava certo parlando del carretto, quello era solo una frazione di secondo in una scena ben più lunga e focalizzata su ben altri temi, ma lei lo ha visto e intorno a quello la sua memoria si è stretta.
Poi via, scena successiva.
Si parlava di una roba qualsiasi e per un istante inquadravano una donna che faceva il pane?
Racconto di quando durante la guerra fu distribuito il libretto per le quantità assegnate di pane, di latte, di tutto ciò che serviva razionare ma che era indispensabile per sopravvivere e aneddoti successivi che narravano come, essendo il loro un piccolo paese dove tutti erano amici e parenti, riuscissero ogni tanto ad ottenere una pagnotta in più.
Mia nonna è così, usa la televisione come rampa di lancio per i suoi ricordi, come se le servisse il la, uno spunto, una lancetta che indichi quale cassetto aprire di volta in volta.
Guardare la tv con lei è uno spasso, perché parla dei personaggi come fossero di famiglia, come stanno, dove sono stati recentemente, com’è la loro attuale situazione affettiva e ne parla dicendotelo con la stessa intonazione che usa quando ti racconta l’ultima novità su tuo cugino.
Per lei son così, sono di famiglia.

Come molti anziani uniti da questo modo di approcciarsi alla tivù, infatti, ha finito con l’essere berlusconiana, ma nel senso affettivo del termine, gli vuole proprio bene, va in apprensione quando quello diffonde la notizia dei suoi maldigola, è dispiaciuta quando lo fanno arrabbiare, ce l’ha con quelli che ce l’hanno con lui, in questo periodo guardare il telegiornale con lei è uno spasso, perché si incazza ogni volta che inquadrano uno del governo, non serve che parli, basta che lo inquadrino.
“Avevano detto che non gli impedivano di far politica e ora guarda, appena arrivati subito a togliergli le aziende…Guarda questo quant’è antipatico….Uh, si, tutti maestri adesso, prima operai, ora tutti maestri…Quello quando parla sembra un morto…” e via così, come fossero i sottotitoli di ogni inquadratura, non se ne perde una per sottolineare il suo essere assolutamente, visceralmente e fedelmente contraria a ogni alternativa al cavaliere.
E lo senti che le nasce proprio dal cuore, come ce l’avrebbe con uno che avesse fatto licenziare uno dei suoi nipoti, quel rancore lì, quello che non ha bisogno di sapere il motivo.
Ma se guardando il telegiornale, questo suo sottotitolare e commentare ogni immagine che vede è divertente, non avevo mai avuto modo di scoprire quanto fosse invece “didattico” l’esserle accanto quando la stessa cosa la fa guardando documentari sulla storia d’Italia.
Ho guardato quella trasmissione come se avessi davanti due voci narranti.
Una mi raccontava il generale, le cose principali, i grandi fatti, l’altra, la sua, raccontava il contorno, la vita che “intanto” accadeva, il piccolo, il domestico, il privato.
È come se a uno dessi il compito di indicarti una data e a un altro quello di raccontarti le relative 24 ore nel dettaglio.
Sono due livelli di narrazione molto diversi ma entrambi fondamentali per capire.

Esempio.
Durante una delle scene, venne inquadrato il Re.
Il documentario in quel momento fece un cenno al referendum che scelse tra monarchia e repubblica.
Ovviamente a grandi linee, narrando il grosso.
Lei in quel momento disse solo “Non fu regolare”
“In che senso?”
“Pure i morti, portarono a votare”
“Cioè?”
Ed è partita nel racconto di quel giorno, di come si svolsero le elezioni in questi paesi del sud e di come (e di chi) fece in modo che vincesse la repubblica.
Difficile dire che io non abbia aggiunto al mio bagaglio un tassello che da altre parti non avrei trovato, dopo i suoi racconti di quel giorno.
Si, certo, si sa che proprio regolare non fu, ma lo si sa col sapore della leggenda, mentre lei mi ha raccontato proprio il sistema, col quale si votò nel sud.
Altro che leggenda.
Così come fui rapito dal racconto che partì quando inquadrarono una bambina vestita elegante e lei se ne uscì con: “Io ero una Piccola Italiana”
“Cos’eri?”
“Una Piccola Italiana, ci chiamavamo così, i maschi erano i Balilla, le femmine erano Piccole Italiane e poi quando crescevi diventavi Giovane Italiana”
E da lì il racconto del Sabato Fascista, giornata nella quale i bambini venivano portati in spiaggia dove erano allestite delle enormi mense nelle quali venivano serviti cibi che il 90% di quei bambini, molti dei quali figli di contadini delle montagne, non vedevano in nessun’altra occasione, come la marmellata, il cioccolato, la carne.

Il racconto lasciava trasparire il timore di chi non poteva sottrarsi a quelle riunioni, attraverso frasi interrotte relative alle punizioni che subiva chi non si presentava, interrotte sempre nel momento in cui stava per dire cosa veniva loro fatto “Se non andavi ti facev…Beh…diciamo che era meglio andarci” unito all’impossibilità di negare che quei giorni fossero gli unici nei quali i bambini stavano bene e mangiavano bene.
E il mio chiederle informazioni stupide su chi dava loro le divise, su come funzionava realmente il Sabato Fascista, su chi lo comandava, domande il cui unico fine era provare fino a che punto di “futilità” poteva spingersi la mia curiosità ed fino a che punto poteva essere soddisfatta, ma che dietro avevano la reale voglia di sapere qualsiasi cosa, foss’anche un pettegolezzo, non fosse sui libri di storia.
Una serata così, piena di racconti su uomini reali e non nomi letti su un libro, su immagini reali e non viste in tivù, sulla Torino completamente distrutta dai bombardamenti che trovò al suo arrivo, sui militari nascosti in ogni casa per non essere trovati dai tedeschi, sulla tessera da partigiano dello zio, che io nemmeno lo sapevo che i partigiani avevano una tessera.
Pensavo che in quanto movimento clandestino non avesse nulla di scritto e invece c’era la tessera, con la differenza che invece del nome, portava scritto il nome di battaglia del possessore.
“Lupetto”.
Mio zio era Lupetto.
Dai, dove le leggi ‘ste cose qui?

Ma la svolta era lì a un passo.
In realtà durante tutta la serata avevo avuto sempre di più l’impressione che la sua critica al ventennio fosse più di forma che di sostanza, più dovuta al fatto che bisogna dire che è stato sbagliato, che al considerarlo realmente sbagliato.
Diverse frasi ambigue mi avevano fatto nascere il dubbio, dubbio che da lì a poco sarebbe stato spazzato via.
A un certo punto decise di raccontare il giorno dell’arresto di Mussolini.
Suo padre dormiva, mentre lei sentiva la radio.
Sentì la notizia dell’arresto e, nonostante fosse notte, corse a svegliarlo.
“Papà, u’rrestaru!”
“A’ccùi?”
“U’Dduce!”
Lui allora saltò di colpo sul letto e …
…E niente.
Mica lo so se si possono dire certe cose.
Diciamo che io l’altra sera ho scoperto delle cose sulla mia famiglia che mica le immaginavo.
Chi lo sapeva, che nella mia famiglia scorresse così tanto sangue fascista?
Sangue non nel senso di vittime.
Sangue nel senso di …ehm…diciamo “simpatizzanti”.
Porcaccia la miseriaccia, altro che documentari.
Alla fine della serata se ne uscì con l’ultimo, lapidario, inatteso (sempre di meno, in realtà) commento.
“Povero Mussolini”
“Scusa???”
“L’hanno ingannato” pausa “o si è ingannato”.

Io mica ce l’ho quel dono della sintesi lì.
Secondo me, per averlo, bisogna proprio esserci stati.

Nessun commento:

Posta un commento