23 settembre 2006

The Big Two

Il seguito del post più lungo della storia.
(ovvero: come metterci tre settimane per raccontare una storia durata una settimana.
Il post, appunto, è più lungo della storia che racconta)


Parte 2.

Sul mare non c’era nessuno.
Quando sono partito, temevo che la mancanza di spazi miei, momenti miei, tempi miei, si sarebbe fatta sentire dopo pochi giorni.
Non è facile, quando si è abituati a vivere soli da anni, la condivisione di spazi con altre persone, per più di un numero di giorni difficilmente quantificabile, ma comunque basso.
Ma sul mare non c’era nessuno, in quei giorni.
E io così avevo tutto il tempo per i miei discorsi.
Io mi faccio i discorsi, da quando sono piccolo.
Come fossero prove teatrali, intendo.
Io non penso e basta, io rappresento.
Come quella storia che i bloggers pensano sotto forma di post, io penso sotto forma di sequenza cinematografica; sarà il lavoro, sarà un bisogno, boh.
Preparo la location, vesto il mio interlocutore, scelgo il tempo, la durata (no, quella no, mi faccio sempre prendere la mano) e insceno il pensiero come fosse un primo ciak.
Se per caso il dialogo non mi è piaciuto lo rifaccio da capo.
Faccio ripetere al mio interlocutore le cose che mi ha detto e rispondo in maniera diversa o magari nella stessa ma cambiando tono.
Forse ha anche un nome, questa cosa, chissà.
Qualcuno di sicuro ci vedrebbe dentro una patologia, io ci vedo dentro la stessa fantasia che si mette quando nei lunghi viaggi in macchina, in treno, quando non ti interessa quanto manca e hai un vetro davanti, ti avvicini e lo appanni col fiato per disegnargli sopra con il dito la sagoma di chissà cosa, quasi sempre un cerchio, un coniglio, un fiore, una nuvola, sagome senza senso apparente ma chissà perché sempre senza angoli, per cancellarle col palmo quando non soddisfatto della linea tracciata e risoffiare sul vetro e ridisegnare ancora e ancora cancellare e ancora passare il dito a tracciare linee che mettono quel qualcosa tra te e quel che c’è di fronte solo per vedere l’effetto che fa un cerchio, un fiore, una nuvola, su ciò che nemmeno fai in tempo a cercare di migliorare che già è passato oltre, ma tu sei sempre lì, a disegnare linee, il tuo dito il pennello, un qualsiasi vetro il cavalletto, il tuo respiro la tela.

Sul mare non c’era nessuno.
Quando penso sto attento anche al tono che uso, se mi arrabbio provo le diverse versioni, quella dello sfogo, quella della comprensione, quella del menfreghismo, ogni possibile variante è un momento dei miei pensieri e per ognuna di esse io ripeto la scena.
Quando nella realtà una situazione non è andata come avrei voluto o come penso sarebbe dovuta andare, la rimetto in scena nei miei pensieri e provo le possibili diverse reazioni, per capire se, dove, perché ho sbagliato o come, dove e con che parole avrei potuto migliorarla.
Recitando io tutti i ruoli, il rischio di far parlare il mio interlocutore come io avrei voluto è sempre alto, ma col tempo ho imparato che pensare in maniera cinematografica non serve, se cambi il tuo interlocutore a tuo piacimento, diventa solo un puro esercizio fine a se stesso, tanto per darsi sempre ragione.

Sul mare non c’era nessuno.
È invece un esercizio insostituibile se lo fai come se fosse una macchina per cloni, perché per riprovare le varie scene dovresti avere l’interlocutore sempre presente a tua disposizione disposto a ripetere per dieci, cento, mille volte la stessa frase solo per farti da sparring partner e non lo puoi avere, quindi lo replichi nella mente, ma lo devi replicare per come è lui nella realtà, con i suoi esatti modi, le sue esatte reazioni, i suoi stessi pensieri e modi di esporli.
Per farlo devi diventare bravissimo a leggere le persone perché poi quando te le porti a casa nella tua mente, devi essere in grado di farle parlare come parlerebbero loro, altrimenti i dialoghi che proverai saranno falsati e i ciak inproduttivi e infiniti e le scene diventeranno finte e te ne accorgerai e dopo un po’ ti annoierai perché sentirai che non son realistiche e tu non vuoi darti ragione, vuoi avere solo un’altra occasione, anche per sbagliare, ché ci sono modi diversi per sbagliare, ce ne sono di gravi e ce ne sono di lievi ma difficilmente si ha la possibilità di viverne un secondo quando se n’è vissuto un primo, qualsiasi, ed è un peccato perché non è che gli sbagli sono tutti da ergastolo, a volte lo sono solo per una non corretta scelta dei tempi e dei dialoghi, mica perché non si era in grado di sbagliare un po’ meno.

Sul mare non c’era nessuno.
Non mi sono sentito stretto, quest’estate al mare, perché non c’era nessuno sul mare e io potevo passare ore a provare le mie situazioni.
Quando vengono bene vado avanti nella sceneggiatura.
Se desidero tanto stare a tavola con qualcuno, ma per motivi non dipendenti da me non lo posso fare, mi invento la scena e me la vivo.
Mi creo la situazione come la vorrei, luogo e tempo e comincio la mia rappresentazione.
Anche per ore, nella mia mente, faccio accadere le situazioni.
Non flash, proprio situazioni come fossero film, anche come durata.
Così passo intere giornate con qualcuno, senza che questo qualcuno lo sappia, esco a cena con persone che non possono esserci, vado al cinema, tutto quello che non posso avere io me lo invento e lo rendo reale perché lo vivo come reale.
Mio padre non è morto, per esempio.

Leggevo il libro con le cuffie nelle orecchie, nessuno intorno, la spiaggia deserta per ore, per giorni, nemmeno un culo da guardare, un costume da immaginare tolto, uno straccio di tetta al vento, un cazzo, niente, io il mare il libro la musica e il nulla.
Il nulla?
Rifaccio.

Esterno giorno.
Campo largo: io il libro il mare la musica e nessuno intorno.
E allora cosa non va?
Perché non sei nel libro, Bruno?
La musica.
Ho capito dopo, era la musica.
Parlavano.
Mio padre non è morto.
Era una canzone e c’era il cantante che cantava.
Ma ti pare che ho tempo per ascoltarti?
Ma non lo vedi che sto leggendo?
Torno nel libro.
Chiudo il libro.
Cambio canzone, chissà che non ce ne sia una adatta.
Chi è quell’uomo sul mare?
Non c’è nessuno.
Come no, guarda bene.
Ah cazzo è vero.
Ma questa musica non è adatta, ci vuole qualcosa di adatto alla scena.
Tipo qualcosa che sia solo musica senza parole così le parole ce le metti tu che la scena la stai disegnando tu e tu fai video vuoi vedere che non ci metti sotto la musica giusta.

Ma dicevo, il mare.
Io poi un giorno parlerò di questo libro qui, no, non è un link, non c’è un link, ho detto un giorno e questo non è un giorno.
Guardo il mare.
A che serve comprarsi mille mila giga di spazio musica se poi non si ha tempo voglia capacità di trovare la musica giusta per ogni scena alla quale si assiste con le cuffie in testa?
Ecco, i lettori da mille mila giga, ho scoperto, sono stati inventati per quelli come me che quando vedono una cosa sul mare, vuoi per deformazione professionale, vuoi perché amano commuoversi, vuoi perché sono teste di cazzo, chiudono il libro e cominciano a guarare l’archivio musicale per trovare quella giusta.
Sia mai che una sequenza, nella mente, non riesca come sai che potrebbe.
Ah, cazzo di mestiere che faccio.
A furia di far sognare gli altri, vaffanculo, si rimane prigionieri della soglia minima.
La conoscete voi la soglia minima?
No?
La soglia minima è quella che una volta conosciuta indica i punti di partenza.
Le avete mai fatte alzare in piedi a ballare, voi, cinquemila persone?
No?
Ah, piccoli uomini.
Perché non mi drogo pesante, io?
Perché ho fatto alzare e ballare cinquemila persone.
L’amigdala (o quella roba lì) ringrazia.
Prego.
Mio padre non è morto.
La soglia minima per me è cinquemila.
O io moltiplicato cinquemila.
Cinquemila lire, cinquemila baci, cinquemila sogni, cinquemila volte tu.
Mi chiedevo che musica mettere, quando, preso dalla sindrome da eccesso di canzoni disponibili (quella che ne hai cinquemila e finisci con l’ascoltare sempre le stesse tre), improvvisamente mi è venuto in mente un bel gioco.
Il gioco dei titoli.

Nei lettori da mille mila giga si può fare il gioco dei titoli perché ci sono così tante canzoni che alcune non le hai mai ascoltate.
Come quando una volta partivi per le ferie con la cassettina colle canzoni che avresti ascoltato, in tutto venti, lo so l’ho già scritta ‘sta cosa non cagate il cazzo, solo che oggi ne metti cinquemila, di canzoni, prima di partire, molte delle quali non le hai mai sentite e quindi puoi fare il gioco dei titoli.
Il gioco dei titoli è quel gioco che tu dici “Ho davanti un cavallo, ora metto in cuffia una canzone che nel titolo ha la parola cavallo e vediamo se cinematograficamente ci sta”.
Se ci sta, il musicista è bravo (e tu te la puoi rivendere nel primo video che ti capita di fare che parli di cavalli), se non ci sta sei stato truffato.
E poi c’era quella cosa lì delle parole che disturbavano e quindi ti indirizzi nel menù del lettore a selezionare solo brani strumentali e oplà, ci trovi Einaudi ché un giorno una tua lettrice ti disse “Ehi, Einaudi, non te ne pentirai” e sfogli gli album che ti sei portato dietro e ci trovi oplà che culo “Le onde”.
Ocazzo.
Mare-onde.
Vediamo se lo stronzo ci ha preso.
Mio padre mi raggiunge e mi fa:
“Ciao, che cazzo leggi brutto maiale?”
“Ehi, papi, ancora ‘sta storia?”
“Mica è colpa mia se sei nato maiale e morirai maiale”.
“Me l’hai già detta ‘sta cosa”
“Te la ricordo”
“Ti pare ce ne sia bisogno?”
“Non si sa mai, tu non hai memoria”
“Ce l’ho selettiva, papino, e comunque se vogliamo dirla tutta un po’ colpa tua lo è, poi, bisogna vedere, tu la chiami colpa, io la chiamo una delle poche cose buone che hai fatto, ma lasciamo stare che tanto dicono che per il momento quello morto sei tu, nemmeno troppo dignitosamente tra l’altro, potevi metterla su meglio la scenetta, una vita intera a metterti le giacche di cashmìr (i maiali non sanno scrivere) e poi ti fai trovare dopo settimane grazie alla puzza di morto fin giù in strada, eh, dai, ma che è, abbiamo un cognome da difendere, una cazzo di donna che rimanesse più di cinque minuti dopo non la potevi proprio trovare?”
“Le donne che rimangono cinque minuti dopo, poi vogliono la borsa. O la vita”
“E non le potevi dare la borsa che tanto era vuota e in genere era pure la sua così magari per una volta ne rimandavi a casa una non proprio privata di tutto?”
“Maiale, non cagare il cazzo, tu non hai mai capito nulla di donne, ti ho chiesto cosa stai leggendo”
“Un libro regalatomi dall’uomo che l’ha scritto”
“E di cosa parla?”
“Di te”.
“Maiale, non esistono libri che parlano di me”
“Questo si, è per questo che chi l’ha scritto me l’ha regalato senza dirmi di cosa parlava, sapeva che avrei dovuto leggerlo”
“E da quando leggi, maiale?”
“Bruno, papi. Bruno”,
“Maiale, figlio, fidati”
“Vabbè, lasciamo stare, tu non hai mai capito nulla di figli, dicevo, questo libro parla di te”
“E cosa dice?”
“Quello che ho sempre pensato”
“E da quando pensi, maiale?”
“Da quando ho pensato che fossi morto, papi”
“E cosa ti fa pensare che non sia morto, maiale?”
“Papi, meno male che hai messo la virgola, altrimenti non avrei saputo come andare avanti”
“Non fare lo stronzo, vorrei vedere te a stramazzare sul pavimento col petto aperto per due ore”
“Vorresti vedere in che senso?”
“Niente, maiale, niente, si dice tanto per dire”
“Come si muore tanto per morire?”
“Tu non hai mai capito un cazzo di nulla”
“E tu non hai mai capito un cazzo di figli”
“Maiale”
“Stronzo”
“Figlio di puttana”
“Ehi”
“Ok, pezzo di merda”
“Puzzo di morto”
“Cacca di pistrello”
“Piscio di vacca”
“Ehi”
“Ok, caccola di rinoceronte”
“Merda di lombrico”
“Fango di palude”
“Sterco di triceratopo”
“…”
“Ho vinto”
“Non hai vinto un cazzo”
“No no, ho vinto io”
“Mavaffanculo”
“Devi pagare pegno”
“Ancora?”
“Ancora”.
“E che devo fare, ‘sta volta, tagliarmi un braccio?”
“No, devi fare silenzio e guardare il mare con me”
“Quale mare?”
“Quello”
“Quello quale? Io vedo solo la luna”
“Papi, minchia, per una volta, solo una, non ti vede nessuno, guarda il dito”

[segue]
(Broono è in viaggio per lavoro e ci starà per un po’.
Voi nel frattempo, dopo aver letto questo, ringraziatela per il fatto di avere un blog e per un’altra cosa bella a caso a vostra scelta, che anche tirando a caso, datemi retta, ce l’ha)

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