20 agosto 2013

Abbracci rubati all'agricoltura

Non importa averne compiuti quarantuno.
Gioia e dolore sono entrambi gli unici momenti in cui si hanno sempre dieci anni.

Niente, la sintesi non è per me.
Quando disponi di un solo carattere e per di più pessimo, non potrai mai competere con chi sa usarne centoquaranta, anche solo per banale matematica.
E la matematica è perfetta, io non lo sarò mai e questo lo so perché ho quarantun'anni  più della metà dei quali passati convinto di esserlo.
E poi caddi da un punto altissimo e mi feci male e mi rialzai e ripresi a vivere senza mai più parlare di ali ma parlando di terra, spingendo aratri, spargendo semina, per nessun pubblico che non fossimo noi.
Ma il pubblico che feci uscire dalla porta mi rientrò dalla finestra che lasciata aperta portò con sé la gelata e furono di nuovo i dieci anni, con tutto quello che si portano appresso, incapacità, smarrimento, gola di marmo che pure l'acqua passa a fatica e ore buttate a sentire stupide canzoni che raccontandoti perfettamente ti fanno sentire meno solo di quanto, di nuovo, senti di essere sempre stato mentre aravi il tuo stupido campo di girazolle al ritmo del tuo essere banale mentre intorno le grandi aziende che portano sul campo i musici zigani che si fanno citazione in un battito di ciglia e bucoschi funzionerà sempre e non ce n'è, ti cancellano il giallo, il sole, le forze.

“anche se non valgo niente, per lo meno a te ti permetto di sognare”
l'avevo detto, che era una frase bellissima.
e per questo l'ho praticata, in disparte, nessun pubblico, non rappresentazioni di, realtà, vita dopo vita, vite dopo vite, per fare un tavolo-ci vuo-le-un-so-gno, prima che bucoschi si vedesse donare anche quella finestra, come nulla valesse nulla e poi nulla valse più nulla e il sogno venne cannibalizzato dal bisogno di dirsi sogno invece di raccoglierlo dal campo e, senza altro pubblico che noi, nel silenzio di quel sorriso che fu per me pinza martello e cacciavite, semplicemente realizzarlo.