20 luglio 2006

Città di Castelli

Si erano trovati un giorno di anni fa, due mazzi di carte in mano, uno per ciascuno, quello di lei aveva dei disegni dietro ogni carta uno diverso dall’altro, lui per questo non aveva capito che erano coperte, gli sembravano carte scoperte di un nuovo tipo, forse straniero, per lui di sicuro, “le ho disegnate io” gli disse regalandogli un sorriso che suggeriva di non andare oltre nella curiosità del quando, non importava a lui il quando, quando la vide arrivare con l’accappatoio quello che sta comodo in valigia e lui pensò che la ragazza aveva bagagli per i viaggi, chissà da dove arrivava, chissà se si sarebbe fermata, troppo perfetta quella valigia per essere una valigia improvvisata con l’ansia della prima volta, se ne sarebbe andata lui pensò mentre le chiese di fermarsi.

“Dipingo sedie” disse lei per tranquillizzarlo, lui in quel momento pensò che le sedie servissero per sedersi a giocare a carte con le carte disegnate da lei in tinta con le sedie chissà, forse tarocchi, forse solitari, forse semplicemente un rubamazzo con gli altri viaggiatori incontrati sui treni anche loro bisognosi di veder viaggiare il tempo più veloce delle traversine dei binari sempre dritti, sempre dritto lui, per la sua strada, con le sue idee, i suoi sogni di alberi e colline i suoi progetti e il suo “Partirò a trentacinque anni” detto da quando era piccolo che potevano essere anche trentasei, ma anche trentaquattro, lei dipingeva sedie bellissime e carte scoperte, lui era bravo nella modellazione dei sogni sulla sagoma del momento, se serviva un riadattamento del sogno era pronto ne aveva di diversi modelli, uno persino con la punta del sei, quella per fissare bene al muro le cose pesanti.

“La tua casa non resterà mai più senza fiori” lesse lei sulle sue carte quando lui chiese che ne sarà di noi, rosa, verdi, ah li aveste visti, quei fiori, aveste visto lei quella sera, quando dispose tutte le sue carte sul tavolo e si lasciò abbracciare come fosse la prima volta, lo era in fondo, in fondo al cuore, in fondo al pozzo per bere e per lavarsi via le cose pesanti di dosso e dal muro con i tasselli del sei.

“Sei tu” pensò lui mentre lei raccoglieva le sue cose sparse nell’aria della stanza, la maglietta volava, le scarpe con le stelle cercavano in tutti i modi di oltrepassare il soffitto, la vedeva abbandonarsi alla volontà degli oggetti che portava con se in valigia, le scarpe lui scoprì quella sera avevano le stelle perché era da là che arrivavano, no, non era casuale quella valigia, le carte e le scarpe e le sedie e i fiori, non erano casuali, lei era venuta per fermarsi, un istante solo, a mezz’aria, e poi volare via di nuovo.

“Che poteri hanno le tue carte?” chiese lui sicuro che avessero qualcosa di magico, lei disse che potevano essere lette singolarmente per sapere se, potevano essere sommate per vincere il piatto, potevano essere unite per fare i castelli, lui i castelli con le carte non li aveva mai fatti, lui li faceva con gli occhi, con la mente, con i tasselli del sei, ma con le carte mai, con quelle carte soprattutto, con i disegni dietro fatti a mano come le sedie come le carezze che lei gli dava sussurrandogli “Bruno” mentre facevano l’amore, lui non capiva come potesse fare i castelli con le carte senza i tasselli che le tenevano insieme, che le tenevano attaccate, che facevano le torri, il ponte levatoio e la rana che diventava principe con un bacio per salvare la bella dal drago.

“Basta volerlo” disse lei girando una carta con sopra scritto a mano il suo nome e lui pensò che le cose che lui bastava volerle non erano mai accadute eppure lei metteva le carte del suo mazzo una sull’altra e queste stavano su e lui allora pensò che il problema era il suo mazzo di carte non lui e provò a cambiarlo e ne prese uno uguale al suo e cominciò a provare a fare i castelli e provò così tanto che alla fine se ne costruì uno grande grande e bellissimo e mentre lo costruiva pensava a lei e le carte lo aiutavano perché erano uguali alle sue e le ore che passava con il castello in costruzione davanti le passava con lei davanti ma lei nel frattempo era andata via, la mandò via lui un giorno di tanti anni fa, quando lei non sapeva costruire castelli con le carte e pensava che non ne sarebbe mai stata capace e lui la mandò via come le aquile con i piccoli per costringerli a volare e lei riuscì a costruire un castello che non immaginava mai avrebbe saputo costruire e lui era felice per lei e entrambi avevano imparato a costruire un castello e ridevano e si raccontavano i trucchi e si regalavano piccoli sogni per grandi occhi per un domani che sarebbe stato se lei, quando lui riuscì a completare il suo e corse da lei per mostrarglielo fiero come lei fece con lui quando completò il suo, non l’avesse inspiegabilmente spazzato via con un solo, improvviso, inatteso, veloce, distaccato gesto della mano.

Lui però era cresciuto e aveva imparato ad accettare le sconfitte con la grazia di un adulto e non con il dolore di un bambino, ma quel gesto di quella mano andò oltre la grazia, oltre il dolore, oltre la comprensione.

Ma lui ormai il suo castello con le carte uguali alle sue l’aveva fatto e gli piaceva così tanto che lo tenne così, mezzo disfatto, un po’ approssimativo, destabilizzato da quel gratuito colpo secco, con la parte rovesciata di ogni carta dipinta a mano bene in vista sulle pareti e ci abitò da solo.

Continuando, come aveva fatto dal primo giorno all’ultimo, a regalare a lei ogni giorno i suoi pensieri più belli, senza sporcarli con il rancore né la vendetta per quella cattiveria gratuita, solo quelli più belli che le aveva regalato per anni mentre costruiva il suo castello sognando di correre a mostrarglielo fiero il giorno che l’avrebbe finito.

Gli stessi, senza una virgola in meno di affetto e auguri di tutto ciò che desiderasse.
Era cresciuto, finalmente.
Quando voleva il bene di qualcuno, lo voleva davvero.

Un bacio a te.
Spero che quelle poche parole ti abbiano dato quel tanto che a me hanno tolto.

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