Un volo per Tunisi l’11 settembre non ha generato particolari timori, siamo temerari e anche un poco fatalisti.
Personalmente quando volo chiedo sempre un posto in ultima fila, generalmente la 23 o la 26, a seconda del tipo di aereo.
Il motivo è molto semplice: i check in vengono fatti “a riempimento” partendo dalla prima fila, il che significa che l’ultima è l’unica che, a meno di aereo completamente pieno, è sempre libera da compagni di viaggio che ti impediscono di leggere comodamente il quotidiano aperto.
Sul volo per Tunisi, come staff viaggiante eravamo una ventina, avevamo assegnata la parte centrale dell’aereo per stare tutti insieme.
Alla mia richiesta del posto in fondo, il tale al desk mi avvisa che il volo era pieno di tunisini, come fosse un problema per un italiano viaggiarci accanto.
Io sono di quelli là, quelli che preferiscono di gran lunga mischiarsi ai locali, piuttosto che proteggersi dentro bolle spazio/temporali prive di contaminazione, vada per la fauna, l’intruso del resto sarei stato io, se va bene a me non ci saranno problemi e anzi chissà quanto farà loro piacere vedere che non tutti gli italiani li schifano.
Quello che non avevo calcolato era che se io sono pronto a sedermi tra loro, non necessariamente loro sarebbero stati altrettanto pronti ad avermi accanto.
Quindici minuti di discussione tra i locali e lo stewart, il quale, non parlo tunisino ma il problema mi è stato subito chiaro, non riusciva a convincere un tunisino che no, non poteva decidere lui dove io mi sarei seduto e che no, il fatto che il mio posto era proprio accanto a sua moglie non era motivo per lasciare a lui la gestione dell’intero aereo perché non fossi messo accanto alla signora, che a sua volta non ne voleva sapere di lasciarmi il posto che mi aveva occupato.
Compresa la gravità del problema e per nulla intenzionato a discutere con il tunisino riguardo al fatto che quella balena della moglie mi stava già sul cazzo al punto che manco fosse stata Miss Tunisia le avrei sfiorato un braccio, suggerii di darmi un altro posto, con l’unica richiesta che fosse in fondo e non centrale.
Altra discussione con i due accanto, un risolutivo “non rompete ancora i coglioni” e via, ci si siede e si parte.
Volo a cavallo dell’ora di cena, mese di ramadan, scena che ricorderò sempre.
Tutti intorno a me immobili con vassoio davanti e due bicchieri a testa, uno di cocacola, uno d’acqua (sostituisce il dattero in caso di indisponibilità).
Io che mi spazzavo burro pane schifezza varia spacciata per pasta, sale buttato su qualsiasi cosa per darle un sapore, gnam gnam chomp chomp.
Intorno tutti immobili, tutti girati verso gli oblò lato destro dell’aereo, non capisco.
Mi giro anch’io e vedo uno dei più bei tramonti che abbia mai visto, accanto a me decine di persone che immobili fissano il sole in una maniera che ti fa leggere nel loro pensiero la frase “ancora un po’, dai che ci riesci, continua il cammino”, consultazioni continue tra loro per stabilire se quel baffo rimasto sopra le nuvole è considerabile sole, condiviso parere affermativo, tutti immobili, il mio primo tramonto con un significato diverso da quello che gli ho sempre dato, una sorta di battesimo dell’aria tutto particolare, innegabile, il tramonto visto in quel modo ha qualcosa di affascinante e ansiogeno nello stesso momento, incredibilmente poetico e psicotico insieme.
Scomparso l’ultimo baffo rosso si alzano contemporaneamente decine di bicchieri d’acqua e si aprono i per nulla poetici contenitori di plastica, quello accanto a me replica fedelmente ogni mio precedente movimento, deve averlo incuriosito il burro con il sale perché non sapeva in che ordine ma ci provava, a modo suo, a essere maldestro occidentale dopo esser stato perfetto musulmano.
Dieci giorni di settecento italiani in villaggio locale, solo chi segue gli italiani all’estero sa chi siano davvero gli italiani.
Gli italiani sono quelli che, quando in settecento di fronte al banco di un bar con due tunisini che parlano solo francese e tunisino e che devono tirar fuori caffé a ritmo di venti al secondo in una scena che ricorda la borsa di un tempo quando intorno a un unico venditore centinaia di compratori urlanti gridano sovrapposti “A me cinque! Due! Sette! Dieci!” si mettono a chiedere “un marocchino, un macchiato caldo, uno in tazza grande, uno d’orzo, uno lungo” e si sentono un sacco potenti pure se il tunisino ti guarda chiedendo che cazzo vogliano tutti questi e sorride quando gli fai cenno d’aver capito che sempre la stessa cialda infilerà nella macchinetta.
Io in dieci giorni ho avuto occasione per mandarne affanculo seicentonovantanove, sono pagato per non farlo, me ne sono concesso solo uno però biblico.
Volo di rientro, treno Malpensa milano, strada dalla stazione a casa percorsa a piedi con valigiona al seguito, abito a poche centinaia di metri dalla stazione.
Lungo la strada incontro “Baffino”, uno degli egiziani che prima che li facessi cacciare mi abitava sopra, quelli del bagno sfondato e delle notti insonni a contare i loro movimenti, il più simpatico e tenero di tutti, l’unico che mi è davvero dispiaciuto veder andar via.
Mi vede arrivare con la valigia e mi ferma per salutarmi con un sorriso a seicento denti, mi stringe la mano.
“Io abito qui vicino adesso! Vacanza? Tornato di nuovo? Tu sempre viaggio!”
“No, lavoro, vacanza finita”
“Lavoro? Però anche vacanza!”
“No no, proprio lavoro, molto lavoro”
“Però giorno lavoro sera vacanza! Bello viaggio!”
“Vabbé, ok, anche vacanza sera, ogni tanto”
“Dove stato?”
“Stato dalle tue parti, Tunisia”
“Tunisia?! Ah! Tu arrivi da Tunisia lavoro!”
“Sì”.
Monta dentro l’entusiasmo per la battuta che sta per farmi e che capisce essere spettacolare, aggiunge altri cento denti ai seicento di prima e spara
“benvenuto in Italia! AHAHAHAHAHAHAH”
E scoppia a ridere che gli darei un bacio.
Percorro gli ultimi dieci metri pensando che Baffino da solo è migliore di tutti i seicento italiani che ho avuto intorno in questi lunghissimi dieci giorni messi insieme.
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