2 novembre 2009

Mai fermarsi

Esortata da tutti, faccio una telefonata a Lentz.
Mi sento come se avessi trascorso gli ultimi dieci anni seduta nello studio di Lentz. C’è anche Jeff, io sono accasciata sulla poltrona, praticamente orizzontale, e dimeno i piedi come una pazza. Li sollevo sopra la testa e li guardo dimenarsi a velocità incredibile.
“Ha visto le mie calze?” domando a Lentz, protendendo i piedi.
Lui lancia un’occhiata. “Molto graziose” , commenta.
Ha lo sguardo fisso sul computer e scrive qualcosa nella mia cartella clinica. Rovescia la testa all’indietro e si guarda il naso.
Vedo Lentz da quando avevo ventitrè anni. Lui mi ha visto in tutti gli stati possibili di follia, dalle manie vistose alle depressioni catatoniche. E mi ha visto assolutamente sana di mente. Si prende cura di leggere sempre i miei libri e gli articoli. Sembra che non gli importi niente se indosso un completo di sartoria o un pigiama disgustoso, un vecchio cappotto logoro, un paio di scarpe da giardinaggio. Per lui io non sono matta. Sono soltanto quello che sono.
Abbassa lo sguardo sul suo blocchetto per gli appunti e dice: “A quanto pare si sente un po’ accelerata”.
“Un po’. Soltanto un pochino. Proprio un pochino solo”, rispondo. “Ma devo riuscire a fare le mie cose. Non posso fermarmi adesso. Mi sta andando tutto bene”.
Lui fa un cenno di assenso e dice a Jeff: “Lei come direbbe che sta?”
“È completamente suonata”, risponde Jeff, Non ne sono per niente infastidita. Ho imparato a portare Jeff con me dal medico quando non mi sento a posto, dato che non capisco il senso delle cose. Sta seduto di fronte a me sul divanetto. Mi osserva, con aria preoccupata. Questo mi irrita profondamente. Sospiro rivolta a lui e mi lascio coinvolgere completamente dall’incredibile velocità dei miei piedi.
“Marya?” Lentz irrompe nei miei pensieri. Ora mi concentro sulla punta delle dita, perché sento un formicolio.
“Ho comprato un canarino”, annuncio, sollevando lo sguardo.
“Oh?”
“Non ha comprato nessun canarino”, sospira Jeff.
“Capisco”, dice Lentz. “Ha dormito?”
“Non proprio. Non mi piace dormire. Dormire è un gigantesco spreco di tempo. Il sonno è irrilevante in confronto alle mie cose. Che devo fare.”
“Dorme due ore circa per notte”, specifica Jeff. “In tutto. Si alza e poi si mette giù di nuovo.”
“Mi alzo e poi mi metto giù di nuovo”, concordo. Smetto momentaneamente di esaminare le mie dita e fisso il dottor Lentz con aria intenta. “Ma deve capirmi, io devo fare le mie cose.”
“So che deve farle”, dice Lentz, cercando nel suo piccolo Palm Pilot che ha il manuale farmaceutico incorporato.
“È importante che riesca a farle.”
“È molto importante”, dico.
“So che lo è. Non vogliamo rovinarle la concentrazione.”
“Molto importante”, ripeto, quando improvvisamente i miei piedi decollano nuovamente.
“Quanto Geodon sta prendendo?”
“Ottanta milligrammi”, risponde Jeff.
“Le aumenterò il Geodon”, dice Lentz.
Sollevo lo sguardo, preoccupata. “Mi farà ingrassare?”
“No”
“Mi farà sentire intontita?”
“No. Dovrebbe soltanto farla sentire un po’ meno nervosa.”
“Non posso perdere il mio nervosismo”, gli dico con tono di riprovazione.
“No di certo. Quanto lavora?” domanda Lentz a Jeff.
“Tutto il tempo. Lavora persino quando qualcuno le sta parlando. Non si cambia i vestiti perché dice che questo interromperebbe le sue ‘cose’.”
“Ieri ho scritto cinquanta pagine”, gli dico decisamente soddisfatta di me.
“Buon per lei. Mangia?” domanda Lentz.
“Non mangia”, risponde Jeff.
“Mangio”, dico, strabuzzando gli occhi.
“Mangia soltanto frutta.”
“Marya, deve mangiare anche qualcos’altro”
“No, non posso”, dico in tono brusco.
“Si taglia?”
“Ho fatto sparire tutti i rasoi”, spiega Jeff.
“No era affatto necessario”, dico di nuovo in tono brusco, e mi alzo e passeggio in cerchio per la stanza.
“Sente il bisogno di stare in ospedale?”, domanda Lentz.
“Assolutamente no!” esclamo, facendo un salto per protestare. “Come farei a lavorare? Non mi lasciano mai portare il computer. Non posso lavorare sul cartoncino!”
“Credo che abbia bisogno di stare in ospedale”, dice Jeff.
Giro su me stessa e metto un dito sul suo petto, facendo un altro salto e sferrandogli un calcio in uno stinco. “Niente affatto!” Non mi lasciando tenere il mio cellulare! È troppo importante!”
“Marya, lei è davvero molto accelerata”, osserva Lentz.
Mi metto seduta sulla sedia e mi aggrappo ai braccioli per dimostrargli il contrario.
“No”.
“D’accordo”, dice. A Jeff, dice “Se domani è ancora così, mi telefoni”.
“Lavorerò un sacco”, annuncio, molto compiaciuta.
“Cosa sta scrivendo?” domanda Lentz, alzandosi in piedi e stringendo la mano a Jeff.
Conto sulle dita: “Una commedia, un romanzo, un articolo, e una nuova serie di poesie.”
“Non vedo l’ora di leggerli”, commenta Lentz. “Prenda uno Zyprexa.”
“Non lo prenderò assolutamente”, dico seccata. “mi fa diventare intontita e grassa.”
Lentz sospira.
Jeff esce. Io saltello dietro di lui come un pulcino.



“Una vita bipolare”
è un libro con un meccanismo dentro.
Non dentro nel senso di tra le righe, ma dentro nel senso di meccanismo esplicitato dalle righe.

Le pagine sono divertenti al limite della comicità.
Le pagine, le stesse, sono drammatiche al limite dell’angoscia.
È un libro bipolare.
Nella sostanza, nella forma.
Non parla di bipolare, È bipolare.
È un libro meravigliosamente, drammaticamente, bipolare.

Se hai compreso questa specie di recensione, significa che il germe del bipolare che come tutti porti in te è in progressione avanzata e mi dispiace tu l’abbia saputo così, un giorno improvviso d’autunno, ma qualcuno doveva dirtelo, prima o poi, che quelli non erano solo episodi, che quelli erano episodi.



(Jeff, che mentre il mondo si impegna per amare molto, ha saputo amarla abbastanza)

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