Una delle caratteristiche delle giornate con mia nonna, è che si concludono sempre con qualcosa di nuovo nel bagaglio e non solo in termini di contenitori con dentro il suo amore tradotto nella delocalizzazione spazio/temporale dei suoi pranzi.
Essendo lei l’archivio e la memoria storica dell’intera famiglia (mi chiedo che ne sarà, quando non ci sarà più lei a proteggerlo) non c’è occasione nella quale per uno spunto o per l’altro escano fuori nuove informazioni, nuovi tasselli.
Oro, per chi come me è così attaccato all’importanza della propria storia e nello stesso tempo così vuoto e quindi affamato di brandelli della stessa.
Lunedì mattina arrivo da lei e la trovo in camera che mostra al cugino piccolo e alla sua ragazza (facendomi scoprire con gioia che non sono l’unico interessato alla nostra storia) i documenti di guerra del nonno, archiviati così bene che sono in stato di conservazione migliore della mia tessere elettorale.
Non so perché lui fosse interessato al tesserino di riconoscimento da partigiano, l’unico che non trovavano.
Nella ricerca, estraeva fogli su fogli, attestati di merito, medaglie, riconoscimenti, ma non quello.
Incaponita come solo chi sa di averlo conservato bene tanto quanto quelli che si ritrovava in mano può essere, insisteva nella ricerca aprendo e chiudendo fogli e documenti, sperando che il tesserino si trovasse magari dentro le pieghe di qualche altro.
Io intanto guardavo e mi godevo la rassegna di quei “qualche altro”.
Tutto normale, non fosse che la ricerca del tesserino partigiano si è svolta, anche, tra le pieghe di un altro tesserino di riconoscimento, marchiato con un bel fascio sopra tutto orgoglioso.
Ora.
Che le storie di una famiglia, la mia in particolare, sappiano essere ingarbugliate come nemmeno una soap è cosa che mi è chiara e che a quasi quarant’anni certo non mi lascia stupito.
Ma che un tesserino partigiano fosse con naturalezza cercato dentro un tesserino fascista, è stata cosa che la mia mente determinista non poteva lasciar passare senza prenotare interrogatorio che mi risistemasse le per me indispensabili caselline della inappuntabile logica sulla quale si regge l’intero mio castello.
E infatti, trovato il tesserino partigiano (grazie al mio intuito determinista, appunto, che ha guidato a colpi di logica la ricostruzione dei passi mentali di mia nonna per me più che ricostruibili fino al dove avrebbe potuto la sua mente scegliere di metterlo qualche decina d’anni prima quando io nemmeno ero in progetto) giunti a tavola la domanda non è riuscita a resistere oltre gli gnocchi.
Domanda che, grazie al fatto che la intelligenza e la lucidità, ma soprattutto l’onestà, di mia nonna permettono dialoghi per nulla formali, è uscita nell’unico modo in cui nella mia mente era nata, l’unico in cui poteva esser posta per dirsi esauriente, per colmarmi la casellina vacante.
“Nonna, ma da fascista a partigiano, ci si passa per comprensione o per banale opportunismo?”
Nella mia mente per un istante mi sono chiesto se fosse stato il caso di partire così in quarta in una direzione che prevedeva anche la macchia sulla memoria di cotanto uomo, protetta per così tanto tempo e con così tanto amore e messa improvvisamente a rischio da una domanda così netta che solo uno con la faccia da culo che ho io poteva fare.
Ma la bellezza di mia nonna è anche questa, come quella di quasi tutti gli anziani.
Quella del pane al pane e vino al vino, direbbero loro, che permette di passare da lei per conoscere la storia, perché certi di avere indietro la vera storia.
E infatti.
“Ma quale comprensione, è stato opportunismo! Quelli gli volevano sparare!”
Così ho scoperto che mio nonno partigiano, nome in codice su tesserino non lo diciamo, pluridecorato, a combattere i fascisti ci è finito dopo esser stato persuaso a colpi di fucile.
Il racconto della scena come sempre ricco di dettagli come fosse ieri, l’ha visto essere cassiere del duce visitato a casa da un gruppo di partigiani intenzionati a fucilarlo sul posto.
Fuggito dentro un campo di grano per evitare la condanna ma rincorso da gente più veloce di lui, si ritrovava (e qui mi manca un passaggio che sarà oggetto della prossima fiaba) poco tempo dopo arruolato tra le fila di quello che doveva essere il plotone d’esecuzione mandato a fare giustizia sparandogli sulla porta di casa.
“Quelli fucilavano la gente così, tuo nonno era conosciuto ed era in cima alla lista, fu banale opportunismo e ci mancherebbe pure che si mettesse a fare l’orgoglioso”.
Così questa pasqua mi ha regalato un altro tassello di storia, un tassello che non è il solo racconto di un altro capitolo utile giusto a riempire pagine, ma che è per me è quel di più che va oltre la cronaca e che è l’unica cosa che cerco.
Un perché, una storia, un passaggio, qualsiasi cosa mi permetta di discutere me stesso.
Perché a fare gli idealisti col culo degli altri è un attimo e io sono campione di attimi e di culi degli altri.
Perché sentire il racconto del fascismo dal cassiere del duce e sentire come lo stesso si ritrovi il giorno dopo a combattere sulle montagne le stesse cose in cui credeva (“ma poi ha capito, poi l’ha fatto credendoci, il brutto dopo l’abbiamo capito tutti” mi ha rassicurato la nonna che aveva colto) sono cose che riorganizzano non solo i ricordi, ma il sistema stesso di valori e princìpi sui quali con tanta intransigenza si tende a basare la propria vita.
E io è soprattutto per questo che ho bisogno di mia nonna, perché mi risistemi il sistema di valori e di regole con la stessa maestria con la quale mi risistema le tende e lo stomaco.
Perché mi dia il vero senso della parola idealismo, della parola onore e coraggio, della parola orgoglio e della parola Valore.
E nel viaggio di ritorno parlando con la fidanzata mi chiedevo perché il resto della mia famiglia, con particolare accento sulla parte più giovane ma già così tanto attiva politicamente, non ci fosse lo stesso interesse investigativo e conoscitivo, rispetto a una storia che ne avrebbe da insegnare ancora a chissà quante altre generazioni ma che non ne avrà il tempo.
E ripensavo a tutti quei ragazzi che oggi in piazza urlano al fascismo ma che quando l’hanno accanto a tavola lo ignorano come non avessero nulla da ascoltare.
E ripensavo a quell’interesse che si dice altissimo quando gridato in coro in piazza ma che non muove nemmeno una forchetta quando al chiuso di una cucina dentro la quale ci sono più canti partigiani, ma anche fascisti, di tutti quelli che possano cantare loro in tutte le manifestazioni della gioventù e che sono lì pronti a essere raccontati al solo sorgere di un pur lieve segnale di interesse.
Pensavo che non conta essere fascisti o antifascisti, se poi la cosa non interessa nemmeno quel poco che serve per farne chiacchiera di curiosità tra gli gnocchi e l’agnello con il fascismo vissuto e poi combattuto, lì a un metro di distanza pronto a raccontarsi.
Pensavo che mio fratello, così attivo e protagonista, avrebbe un sacco da imparare non da un nonno fascista o partigiano che sia stato, ma dall’ascolto di come sia stato davvero il fascismo, rischiando anche di scoprirsi capaci di comprendere il perché si sia sviluppato partendo da case povere nelle quali una patata era quello che oggi è il jackpot del superenalotto.
Una comprensione che proprio per le analogie aiuterebbe a comprendere le derive di quell’oggi nel quale certe dinamiche stanno trovando lo stesso terreno fertile in case nelle quali il jackpot del superenalotto o l’aaaaaaaaallin del poker online sono la patata divisa in 15 figli di 60 anni fa.
Pensavo che aiuta, aiuta tantissimo a capire il mondo di oggi, l’ascolto di una nonna che ti racconta il perché la divisa fascista le bambine la indossavano con orgoglio e lei in testa, quando il sabato fascista era l’unico giorno della settimana nel quale venivano lavati, curati, alimentati, tutti nella stessa maniera, tutti con la stessa cura, da un uomo che un giorno alla settimana le faceva sentire uguali al figlio del sindaco, tutti con la stessa patata nel piatto, una a testa, e che per questo riceveva da loro in cambio fedeltà e gratitudine in tutti gli altri giorni della settimana.
Pensavo che aiuta tantissimo il sapere che sì, il sangue dei vinti non solo è stato versato, ma è stato versato in quantità ancor prima che fossero vinti, che è stato versato anche all’inizio di quella guerra non solo alla fine, che è stato versato anche in fase di arruolamento, non solo in fase di vendetta, che molti sono diventati partigiani così, per non essere fucilati.
Pensavo che dietro una campagna d’arruolamento di questo tipo ci sia un mondo che va studiato in ogni minimo risvolto perché se persino al cassiere del duce, uno al quale per ideologia non avrebbero nemmeno dovuto proporre l’alternativa ma semplicemente sparagli in fronte, hanno dato il tesserino e un fucile, significa che il fascismo era così tanto mostruoso che il problema era davvero il numero di quelli necessari per combatterlo, prima che la qualità.
Pensavo che non si possa parlare di fascismo se non si è prima di tutto in grado di ascoltare di fascismo.
Pensavo che il problema più grosso della generazione di mio fratello, è che non si rende conto che mia nonna morirà e con lei moriranno gli ultimi che quella storia l’hanno vissuta sulla pelle, casa per casa, nella cucina, nei letti, nei rifugi, nei campi di grano a fuggire dai plotoni d’esecuzione.
Pensavo che tra una decina d’anni saranno finiti i nonni che la guerra l’hanno fatta e che per questo la possono raccontare e la perdita sarà incolmabile, realmente incolmabile, perché da quando l’ultimo sarà morto in poi, saranno solo libri e i libri sono scritti da uomini che ci scriveranno ciò che vorranno si legga.
Qualsiasi cosa sia realmente successa verrà irrimediabilmente e definitivamente sostituita con qualsiasi cosa si vorrà dire successa.
E mio fratello ieri non s’è perso il simpatico aneddoto sul nonno opportunista, s’è perso un capitolo di storia, quella stessa che però poi scende in piazza a difendere o a combattere perché non si ripeta, contro altri suoi coetanei che combattono perché si ripeta identica, in domeniche nelle quali però anche loro preferiranno la piazza alla tavola di nonni che gliela potrebbero raccontare sulla pelle.
S’è perso l’occasione di discutere il proprio sistema di valori, per modificarlo o consolidarlo non conta, ma discuterlo sì, conta tantissimo.
S’è perso l’occasione di sentirsi raccontare che nel suo sangue ci sono partigiani eroici ma anche fascisti integerrimi e che nel calore di una piazza la cosa pare impossibile, mentre in guerra con veri fucili puntati su vere tempie le due cose possono persino coesistere nello stesso cuore.
E ‘sta gente sta morendo tutta, domani non ci sarà più per raccontare.
Eppure non se li caga nessuno, nemmeno quelli che dicono di combattere in loro nome e per difendere ciò per cui loro hanno versato sangue e pianto amici uccisi.
E dovrebbero esserci parchi pieni di ragazzi che li raggiungono sulle panchine, nei campi di bocce, per dir loro semplicemente “Racconta” “Che cosa?” “Che cazzo ne so, qualcosa, qualsiasi cosa ma racconta, prima di morire” e invece muoiono solitari chiusi in casa davanti a Emilio Fede.
E la perdita sarà compresa solo quando non ne esisterà più uno, di quelli che c’erano.
Io son qui da due giorni che mi chiedo come chiudere il cerchio di questo tassello, come collocarlo.
Al momento la sensazione è strana.
È come se il sapere che il nonno partigiano è stato prima un gerarca fascista, me lo rendesse paradossalmente migliore.
Come se mi dimostrasse che l’idealismo e la fermezza sono sì valori, ma inferiori a quello superiore della vita stessa.
Come se mi avesse dimostrato che essere eroi partigiani partendo da sinistra è più facile che diventarlo partendo da così tanto a destra, perché nel primo caso non c’è evoluzione, nel secondo c’è vera rivoluzione.
Come se mi avesse dimostrato che la reazione a volte passa anche dalla vigliaccheria.
Che non sempre dirsi fermi è un valore da difendere.
Cioè sì, che lo è, ma che se è l’unico che si è disposti a difendere di fronte a tutto e a qualsiasi costo, il prezzo sarà una vita dedicata a non difenderne nessun altro, magari più alto, magari persino al momento sconosciuto.
La sensazione al momento è che se mio nonno è stato un eroe partigiano è perché è stato prima di tutto un opportunista vigliacco e se è stato un opportunista vigliacco non poteva che essere un gerarca fascista.
Il cerchio si chiude con me orgoglioso del fatto che mio nonno fosse un gerarca fascista, perché non lo fosse stato, non fosse stato fascista nel profondo, non sarebbe mai arrivato a essere disposto a morire perché non accadesse mai più ciò che nessuno più di lui conosceva nei suoi lati più bui e profondi.
I giri che faccio io per girare le cose in modo che mi diano un passato di grandi percorsi per arrivare a me, che per completezza di informazione romantica sono quello che è stato scelto per portare il suo nome, anche passando da cose per le quali chiunque altro si vergognerebbe, a volte spaventano persino me.
Ma dato che nel mio sangue e nel mio nome ho scoperto esserci chi s’è cagato così tanto sotto da diventare un eroe della resistenza, me ne vado a letto con un po’ meno di paura di me stesso.
E con un tassello in più di quel puzzle intorno al quale sto da due anni costruendo la cosa più grande che riuscirò a realizzare nella mia vita, la possibilità di rifare tutto da capo in un punto in cui nessuno avrebbe mai la follia di dirlo possibile prima ancora della forza e del coraggio di dirlo realizzabile, e per difendere la quale sono pronto a scatenare, io, l’inferno contro chiunque mi si mettesse di traverso per impedirmelo.
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