19 febbraio 2002

È Stato lui?





C’è un uomo a giudizio. C’è uno stato a giudizio. Chi è l’uomo? Chi è lo stato?

Esiste un uomo che è anche uno stato. Esiste ancora, oggi, un intero stato che è un uomo.

Cosa abbastanza anomala negli anni 2000. Sembra una cosa da nulla, ma pensandoci, quanti sono oggi gli stati che sono identificabili in un uomo? Cuba? Gli U.S.A.? L’Irak? Quanti?

Gli uomini che rappresentano uno stato sono una razza quasi estinta. Se ne sono andati insieme all’identità di popolo.

Non è stato difficile, è bastato raccogliere tutti i valori che una volta rappresentavano un popolo, qualsiasi popolo, li si è messi in una bella bacheca stile vasi etruschi, gli si è appiccicata una bella etichettina sopra sulla quale si è scritto: “Questo è quello che rappresentava un popolo prima che l’economia ne diventasse l’unico segno di riconoscimento”.

Ecco perché non esistono più popoli che si identificano in un uomo. Non esistono più perché non esistono più popoli che non sono rappresentati dalla propria economia. L’america è fatta da più di 50 stati, più di 50 gruppi di persone con leggi diverse, lingue diverse, culture diverse. Ma è una sola Coca Cola, una sola Microsoft. Un solo McDonald’s.

C’è un popolo che ancora oggi si identifica in un uomo. E se lo stato in realtà altro non è che il suo popolo, allora c’è uno stato che ancora oggi si identifica in un uomo. E quest’uomo ha la dignità di un intero popolo. Ne porta il significato addosso. Ne veste tutti i vestiti, ne parla tutti i dialetti, e come il suo ruolo impone, ne pagherà tutte le colpe.

C’è un uomo accusato di crimini talmente grandi che un solo uomo non può averli commessi. C’è un uomo accusato di crimini talmente diffusi che non possono essere state le sue sole braccia a commetterli. Ma quell’uomo è li. In tribunale. Fermo. Sguardo fisso verso chi lo giudica. Non abbassa mai lo sguardo. Non tradisce mai un emozione. Si controlla? No. Ecco la differenza. Non si controlla perché non ha nulla da controllare. Non tradisce emozioni perché non ha emozioni. Non è l’uomo ad essere seduto su quella sedia, ma l’intero popolo. E lui lo sa che non sta rappresentando se stesso ma tutto un popolo. Lui lo sa che non è la sua dignità a dover essere difesa ma quella dell’intero popolo che in lui si identifica. Ecco perché lo fa indossandone i colori. Perché chi lo guarda e lo ascolta non si dimentichi che è una bandiera quella che sta parlando, non un uomo. Ed è per quel motivo che lo fa con fierezza qualsiasi accusa gli venga mossa. Lui è il suo popolo. E un popolo intero ha il coraggio e la dignità e la fierezza di migliaia di uomini, non di uno solo. C’è un uomo chiuso in un carcere. Ma è un uomo che in realtà è migliaia di uomini. Ecco perché quell’uomo non è chiuso in una cella ma in un intero carcere. Tutto per lui. E per le migliaia di uomini che rappresenta. Dicono che è per la sicurezza. In realtà è perché migliaia di uomini non possono stare in una sola cella. Ha un tribunale che è stato inventato apposta per lui. Perché tutti gli altri tribunali sono stati creati per giudicare un uomo, non migliaia insieme. Ne hanno dovuto creare uno apposta che di mestiere facesse il giudice di popoli. E lui in quel tribunale siede con fierezza e sguardo dignitosamente sempre alto. Perché qualsiasi uomo da solo si sentirebbe inferiore in quella situazione, mentre lui sa bene che ad essere seduti sulla sua sedia ci sono tutte le migliaia di uomini che in lui si identificano, e per questo motivo non si sentirà mai inferiore fin quando di fronte a lui saranno seduti 10 giudici. Si sentirà sempre 10 contro migliaia. Noi non ci sentiremmo altrettanto potenti? Quest’uomo è un uomo malvagio. Un uomo che ha commesso crimini di una malvagità poche volte raggiunta da mente umana. È un uomo che in nome del potere ha condannato a morte migliaia di uomini, donne, bambini, anziani. E per questo giustamente verrà giudicato. E per questo purtroppo non pagherà mai abbastanza. Ma quest’uomo ha una cosa per la quale andrebbe ricordato ogni volta che si parla di lui. Una cosa che non diventa minore se si decidesse che lui è effettivamente colpevole. Quest’uomo è uno degli ultimi statisti esistenti al mondo. E non nel senso di potere, ma nel senso di uomo. Uomini che come lui hanno addosso e dentro e fuori e nelle parole e nello sguardo e nel coraggio l’intero popolo che rappresentano non ne esistono quasi più.

Nessun monumento a lui intendiamoci. Ma uno statista degno di quel nome non diventa un uomo qualunque nemmeno dopo aver sterminato migliaia di persone, uno statista degno di quel nome, al massimo può diventare uno statista che ha sterminato migliaia di persone. E lui lo sa. Ecco perché non ha paura della pena che gli verrà inflitta. Ecco perché si è definito il vincitore morale di quel tribunale. Perché sa meglio di chiunque altro che lo si sta giudicando come uomo, mentre lui sta continuando a dire che di fronte a loro è seduto un intero popolo. Veste persino i colori del suo popolo, sempre la stessa cravatta pur di far capire a quei 5 o 6 giudici che di fronte a loro è seduto un intero popolo. Ma nessuno lo ascolta. Ormai viene guardato come il pazzo che di fronte alle prove schiaccianti parla per tre giorni consecutivi pensando che serva a qualcosa. Lo si guarda come quello che farnetica ipotetiche responsabilità estere in un genocidio di cui lui è in realtà l’unico responsabile. Non capiscono. Eppure è così chiaro. In quello sguardo fiero e spaccone e presuntuoso e sicuro, non si nasconde follia, ma autoconsapevolezza.

Proviamo a pensare un attimo a chi è un uomo come Slobodan Milosevic.

Proviamo a pensare a quanti soldi, quanti uomini quante decisioni, quante armi, quanti contrabbandi, quanti omicidi, quanti stupri, quanti accordi, quante strette di mano, quanti capi di stato, quanti sotterfugi, quante firme, quanti servizi segreti, quanti destini e quante vite portano il nome di Slobodan Milosevic.

Come si può guardarlo come uomo? Quella è la persona che fino a due anni prima della guerra tutti i capi di stato esteri riconoscevano come loro pari e capo di stato di un popolo/stato degno di tale nome, con il quale fare accordi, stringere patti, contrabbandare armi. Quello è l’uomo i cui occhi stavano alla stessa altezza di quelli di Bill Clinton. Quanti di noi possono immaginare cosa significhi essere Slobodan Milosevic?

E oggi cosa succede? Gli si piazza davanti sei giudici che fino al giorno prima giudicavano degli spacciatori, o dei contrabbandieri, e gli si dice di guardarlo negli occhi con superiorità perché tanto non è altro che un assassino.

No signori. Quello è l’uomo che ha firmato assegni per comprare armi nucleari. Non pistole ad acqua. Armi nucleari. Signora Del Ponte, faccia bene il suo mestiere mi raccomando, siamo nelle sue mani. Ma se vuole davvero farlo bene, non si dimentichi mai che se il massimo delle sue responsabilità economiche personali è stato raggiunto l’anno scorso quando ha deciso di comprare un auto nuova per i suoi figli, davanti a lei è seduto un uomo che un giorno ha deciso di comprare per i suoi “figli” un paio di testate nucleari. E se vuole farlo bene, non si dimentiche che è venuto a comprarle nel paese che le paga lo stipendio. Non lo guardi con superiorità signora Del Ponte, non ne ha il potere. Non commetta quell’errore. Cerchi di capire cosa serve per giudicarlo come merita. Non ha nemmeno bisogno di sforzarsi, glie lo sta dicendo lui stesso. Non ha chiesto favoritismi da capo di stato, non ha chiesto trattamenti di favore come uomo sofferente, tutto quello che è sofferenza e costrizione come uomo, tutto quello che è abbandono delle persone che fino al giorno prima su di lui guadagnavano, lo sta subendo in silenzio come ogni vero capo di stato sa fare e come lei, io e tutti quelli che per noi sono brave persone non avrebbero mai la forza di subire. No, il modo giusto per confrontarsi con lui lo sta offrendo lui stesso, e non lo sta facendo con presunzione, ma con consapevolezza. Lo sta facendo con una richiesta che sembra folle e delirante, ma che in realtà racchiude in se tutto il significato di questo tribunale. Lo sta facendo con una piccola semplice richiesta.

“Signor giudice, per voi questo è un tribunale? Bene, come tale ho il diritto di chiamare a testimoniare chi voglio io. E io voglio che vengano a testimoniare Clinton, Chirac, Blair, e tutti quelli con i quali ho fatto affari e che sono responsabili quanto me di quanto avvenuto in questi anni”.

Non è un uomo, è un capo di stato. Non è un tribunale semplice, è un tribunale per crimini internazionali. Non è una rapina, è un genocidio.

Allora non siano testimoni semplici, siano i capi di stato. È molto più logico lui con quella richiesta, che noi nel giudicarla delirante.

Stiamo attenti a pensare che siano farneticazioni da pazzo delirante.

Stiamo attenti, perché questo è quello che vogliono farci credere coloro i quali sanno bene che non è davvero il caso che quel confronto ci sia.

Stiamo attenti a pensare che quella richiesta sia folle.

Stiamo attenti, perché di folle in quella richiesta non c’è proprio nulla.

Non è l’uomo ad essere sotto processo, ma il capo di stato.

E come tale va guardato.

Clinton l’ha guardato così quando ci ha fatto accordi.

Dini l’ha guardato così quando ci ha firmato contratti.

Ora non ce lo facciano sembrare un cretino solo perché ha chiesto di rivederli.

Hanno iniziato loro.

Lui poi verrà giudicato per gli omicidi come è giusto che sia.

Ma darei qualsiasi cosa per vederlo seduto al tavolo di fronte a Clinton e a Dini.

Lo immagino.

Come ogni capo di stato. A testa alta e con fierezza. Con quello sguardo di confidenza che solo tra capi di stato di quella potenza si può vedere.

“Ciao Bill, ciao Berto. Ci sono questi sei qui che non mi credono quando dico loro che siamo amici…glie lo dite voi o apro gli archivi?”

Non facciamo gli stupidi.

Quello è un capo di stato.

Magari pazzo, ma se gli hanno dato credito i nostri governanti dobbiamo farlo pure noi. Se no vuol dire che non riconosciamo capacità di valutazione ai nostri governanti, e allora in quel caso è meglio se partiamo mettendo in discussione i nostri.

Pagherei per vedere quell’incontro.

Peccato che prima che avvenga si ammalerà di quella malattia tipica di certe carceri, si insomma, quella che viene a tutti quelli che sono così agitati per l’importanza di certi confronti, che alla fine il cuore non gli regge mai. Si insomma, quella malattia per la quale si muore sempre clamorosamente d’infarto uno o due giorni prima dell’incontro.

Peccato. Ma del resto quando si muore di morte naturale, anche i capi di stato tornano ad essere uomini.

Ma solo dopo però.

Mi raccomando, la prossima volta che lo vedete in televisione, prima di dargli del pazzo guardate la cravatta, poi gli occhi. E dopo, solo dopo dategli del pazzo.

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