10 dicembre 2001

Quando non vinco…è perché vinci tu



Due cose la giornata di ieri mi ha insegnato.

La prima è riassumibilissima così:

Le persone anziane sono bellissime perché non hanno più paura di invecchiare.

Ma il discorso lo chiudo qui, mia nonna merita una sera tutta per lei e glie la prometto.

La seconda cosa che mi ha insegnato è che gli scacchi sono la metafora migliore della vita.

Ero a Torino. A una certa ora ho lasciato la tavola per andare a trovare l’unica persona che il giorno del funerale di mio padre si è presentato con un orgoglioso “Sono il suo migliore amico”. E questo l’ha reso l’unica persona che davvero era li perché voleva salutarlo. Quel giorno lo presi da parte e gli chiesi se potevo vederlo in un’altra occasione per farmi raccontare l’ultimo periodo della sua vita, da quella che forse era l’unica persona che aveva un’idea bella di lui.

Ieri sono andato a cercarlo. Ci siamo incontrati. Ed è partito il racconto.

Mille, non una. Mille cose ha dentro. Mille frasi, mille gesti, mille abitudini, mille idee, e ognuna ne tirava un’altra. Una valanga. Non mi guardava nemmeno, guardava lui, non so dove lo vedeva, ma sono certo che lo vedeva, perché lo sguardo non andava a perdersi, era uno sguardo che ogni volta si girava dalla stessa parte e non era dalla mia parte, sempre li, sempre nello stesso punto, come quei bambini che noi non ci crediamo, ma quello che per loro è l’amico immaginario in realtà è immaginario solo per noi, loro lo vedono benissimo. Era assurdo. Erano di nuovo insieme, ero io l’intruso tra di loro. Lo so che lo vedeva perché mi aveva obbligato a girarmi anch’io da quella parte, e la cosa pazzesca è che per uno strano effetto di autosuggestione da “racconto” lo vedevo anch’io. E i racconti erano così belli che non riusciva a non ridere quando li riascoltava anche lui dalla sua stessa voce, e ogni racconto lo viveva come una di quelle puntate di un vecchio telefilm che per sbaglio rivedi su un canale regionale e senza rendertene conto, insieme a quelle vecchie immagini ti vengono fuori una serie di altre sensazioni che tu non lo sai come cazzo sia possibile che avevi ancora dentro, e allora ti ci droghi, e continui, e non riesci a smettere, e non riusciva a smettere, e mi ha raccontato delle loro quotidiane partite a scacchi, perché ogni giorno mio padre andava da lui, lo invitava fuori a pranzo, ogni giorno lo stesso ristorante, ogni giorno lo raggirava convincendolo a pagare lui perché non era il pranzo il suo obiettivo, ma quella partita a scacchi che alla fine del pranzo era il loro rito e lui lo sapeva benissimo e ogni giorno fingeva di non sapere che avrebbe pagato lui e ogni giorno alla fine del pranzo lo sfidava a scacchi, e passavano ore a giocare a scacchi, e io ci credevo, perché me lo ricordo mio padre quando mi ha insegnato a giocare a scacchi, e delle ore che ha passato con me giocando a scacchi e quella cazzo di immagine di io che così piccolo ci credevo che avrei potuto battere uno che a giocare a scacchi aveva imparato in Russia non me la tolgo, perché venti anni dopo ho capito che non mi stava insegnando a giocare a scacchi, ma a credere che avrei potuto vincere indipendentemente da chi avevo come avversario, e lui mi raccontava che mio padre era questo, un dannato, fottutissimo sognatore, così convinto di quello in cui credeva, da aprire ogni partita, ogni singola partita, con quell’unica mossa, sempre la stessa apertura sempre quella ogni giorno, perché sapeva che era quella che l’avrebbe fatto vincere, e ci credeva così tanto da non aver mai negli anni cambiato apertura, e lui ci rideva mentre me la raccontava, perché sapeva che ogni giorno si sedeva alla scacchiera con lui e sapeva esattamente che avrebbe aperto con la mossa che lui aveva battezzato “Dell’assassino”, perché era la mossa con cui apriva le partite un serial killer di Ancona o qualcosa del genere, quando giocava in carcere, e non so come mio padre l’abbia conosciuta quella mossa, mi piace pensare che sia una di quelle storie che si inventava, solo che questa non l’ha pubblicata, ma la usava per dare un rifugio a chissà quale casino avesse combinato; sta di fatto che apriva sempre con la stessa mossa, che significava sempre con la stessa certezza, che significava sempre con la stessa presunzione, che significava sempre con lo stesso ottimismo, che significava sempre con la stessa consapevolezza che lui quella partita, si proprio quella l’avrebbe vinta.

E quando perdeva, e in quel punto del racconto ho riconosciuto mio padre, se ne usciva sempre con quella frase, sempre quella, quella che solo noi maschi stronzi della famiglia riusciamo a dire credendoci.

“Io non ho perso, hai vinto tu. Che è ben diverso.”

E lui lo raccontava con la faccia di chi sapeva leggerla quella frase, e che me l’ha riassunta così:

“Tuo padre non avrebbe mai detto la parola perdere, era una questione di fiducia e di valore, mai. Perdere per lui sarebbe stato come smettere di crederci. Ma aveva rispetto. E infatti riconosceva sempre la vittoria dell’avversario. Per questo era un grande uomo.”

E mentre me lo diceva io ripensavo a quelle poche parole che mi è venuto in mente di scrivere come sottotitolo di questo sito, quelle che scacciano la sconfitta, quelle che parlano di coraggio, quelle che da oggi assumono un significato parecchio diverso, quelle che non sapevo perché mi fossero venute in mente così, quelle che magari non sono legate in nessun modo alle sue, quelle che forse ora per scacciare il dolore trasformo tutto in leggenda, ma chi se ne frega, funziona e basta.

E ripensavo al fatto che non era lui l’unico folle della famiglia, ce ne sono altri due.

E nemmeno loro riescono ad accettare le sconfitte, e nemmeno loro mollano mai, e anche loro ogni giorno, ogni singolo giorno ripetono gli stessi errori credendo che ce la faranno sempre, e anche loro portano quel cognome, e quella cocciutaggine, e quella presunzione, e quel cazzutissimo ottimismo che per gli altri è spacconeria, per noi è solo fiducia in noi stessi, che non mi frega se in società è una qualità, ma sicuramente da la forza di non mollare.

E ripensavo al fatto che girava il mondo e io oggi per lavoro giro il mondo, e amava le moto e mio fratello ci si stava ammazzando tanto le ama, e non aveva una lira ma il rispetto degli altri si, e io oggi non ho una lira ma un sacco di rispetto dagli altri, e ripensavo ad un sacco di cose che forse non vogliono dire nulla per gli altri, che spesso sembrano assurde e inutili, ma che per noi sono importanti, e noi ci crediamo, e le portiamo avanti da sempre, e siamo pronti a pagare per questo, e ripensavo alle domeniche a casa in campagna, quelle nelle quali per ore si giocava a scacchi.

E io non lo sapevo nemmeno che cosa fosse l’arrocco, e non mi ha mai costretto ad impararlo, mi ha solo fatto vedere quanto fosse utile per battere l’avversario.

E io avevo tipo 10 anni, e lui tipo 40.

E ogni partita ci credevo che potevo batterlo. Soprattutto dopo aver imparato l’arrocco. Spontaneamente. Dopo averglielo visto fare un sacco di volte.

E forse oggi scopro che di mosse per battere l’avversario chiunque esso sia io glie ne ho rubate molte di più di quelle che penso, e forse oggi scopro che di modi per crescere i figli ce ne sono tanti, e forse oggi scopro che lui aveva trovato il più presuntuoso, cocciuto, cazzuto e spaccone che esistesse.

Quello che ti fa dire a tuo figlio “Io non ti obbligo a imparare le mie mosse, ma se vuoi battermi a scacchi devi fare quello che faccio io e farlo meglio”.

Che poi magari perdi lo stesso, ma non era mica quello il suo obiettivo.

Lui era quello che ricominciava sempre il giorno dopo con lo stesso ottimismo.

Quello era il suo obiettivo.

E per questo iniziava ogni giorno con la stessa mossa.

Quella “dell’assassino”.

Io inizio ogni giorno con quella “del più intelligente”.

Mio fratello con quella “del più affascinante”.

Ogni giorno. Qualunque cosa ci accada.

Che famiglia di coglioni.

O almeno così dicono.







E poi mi ha raccontato un’altra storia su di lui.

Ma quella è troppo personale.

Parla di un uomo di 60 anni spietato, arrogante e cattivo. Così cattivo da aver scelto di vivere solo.

La cui unica partita persa nella sua vita è stata quella contro le sue lacrime.

Che non riusciva a trattenere ogni volta che parlava dei suoi figli.



Lo sapevo.

L’ho sempre saputo.

Ecco da chi ho preso il mio non vergognarmi di piangere.

Tipo adesso.

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